Il furore del gioco



Giocare è una delle attività più coinvolgenti che possiamo fare. Basti pensare a un bambino che gioca: nulla lo distrarrà della sua attività e qualunque interruzione sarà vista come un torto terribile. Poi si cresce, ma il gioco non smette di possederci: basti pensare al coinvolgimento che si prova a giocare a Risiko! con degli amici, l’intensità di una bella partita a scacchi, ma anche solo fare il tifo durante una partita o una gara. Il gioco ci possiede. Ma come?

Terminologia.

L’idea che ciò che avviene durante il play (inteso come svolgersi del gioco) ci coinvolge in modo tale da sospendere tutto il resto tenendoci incollati dentro a quel mondo magico e fittizio. Questo succede in tutti i giochi (belli) ed è un fattore necessario al gioco stesso. Quel mondo fittizio, infatti, viene chiamato “cerchio magico” in gamedesign ed è il contenitore della sospensione dell’incredulità attiva necessaria a ogni gioco. Questa sospensione dell’incredulità è diversa da quella richiesta al fruitore di una storia perché richiede anche una azione sensata all’interno dei suoi vincoli. In game design questa è definita lusory attitude.



Pellegrini e flow.

Il fatto è che entrando nella lusory attitude riteniamo “veri” e fondamentali tutti i vincoli del cerchio magico: crediamo nel mondo magico che ci propone un gioco fantasy per capire cosa ci succede attorno, crediamo veri i rapporti di rivalità e l’importanza delle posizioni strategiche fino a litigare con un caro amico davanti al tavolo del Risiko! e, infine, diamo un’importanza primaria alle regole che dobbiamo seguire perché senza esse nessuna delle azioni che abbiamo svolto ha senso. La possessione è ormai iniziata. Il miglior esempio di quanto questa possessione sia forte e profonda lo possiamo avere con il libro: Breakout: pilgrim in the microworld, del sociologo e pianista David Sudnow. In questo suo libro autobiografico, Sudnow ci racconta la sua esperienza di tre mesi come hardcore gamer di Breakout, avvenuta non per esperimento, ma per caso. È interessante notare come lui stesso ci racconti che, dopo la prima giornata di gioco, in pochi secondi dall’inizio di una partita lui si sentisse “in un novo piano di esistenza” e si sentisse completamente coinvolto nel cerchio magico del gioco, dimenticandosi il resto. Nella versione originale di Breakout (progenitore di quello che probabilmente molti di noi conoscono come Arkanoid) la barretta su cui la pallina doveva rimbalzare si stringeva con il passare del tempo e il movimento della pallina diventava sempre più veloce (in un meccanismo tipico del periodo delle sale giochi) e questo non solo portava i giocatori migliori a giocare per più tempo, ma dava anche un avanzamento di difficoltà lineare che forniva una sfida crescente a chiunque ci giocasse. Questo tipo di crescita di difficoltà era (ed è ancora) usata per provare a trovare un bilanciamento tra abilità del giocatore e livello della sfida, così da tenere sempre una tensione nel play, ma crea anche un altro effetto: lo stato di flow. Il flow viene definito come stato ottimale di esperienza e nel corso degli anni è stato provato che è in grado di aumentare le prestazioni in ogni campo. Mihaly Csikszentmihalyi, lo psicologo che per primo ha scritto sull’argomento ed è uno dei fondatori della psicologia positiva, scrive che il flow è l’opposto dell’apatia e può essere raggiunto nel momento in cui la sfida e le capacità di chi la affronta si equivalgono. I giochi (in particolare i videogiochi) sono quindi macchine perfette da flow. Il flow però ci solleva anche da noi stessi e ci dà una sensazione piacevole; quindi, una qualunque interruzione di questo verrà percepita come un danno. Ovviamente non tutti percepiscono questo danno allo stesso modo. Se immaginiamo un tavolo da gioco, con un gruppo di giocatori intenti in una partita, ci è facile pensare che quello che sta vincendo sarà più disturbato dall’interruzione del gioco, ma non sempre è così. In realtà dipende da quanto il giocatore è immerso nel play, da quanto è in flow.

Giocatori.

Per capire questo dobbiamo capire chi sono i giocatori. Nel testo: Rules of Play: Game Design Fundamentals, Katie Salen e Eric Zimmerman partono dalle tre categorie di giocatori “classiche” (identificate da Huzinga in Homo Ludens) per fare questa analisi e arrivano a trovare 5 categorie: il giocatore standard, il giocatore dedicato, il giocatore poco sportivo, il baro e, infine, il guastafeste. Queste categorie si spiegano abbastanza da sole e possiamo facilmente intuire che il giocatore dedicato è quello che aderisce di più alla lusory attitude e per questo più facilmente entrerà nel flow. Coinvolto in questo modo totale, sarà anche più facile però che si susciti la sua ira.



Conservatori e distruttori.

I giochi non sono infatti strutture stabili per natura, ma anzi cambiano. In game design si parla di play che modifica il game, e questa funzione naturale è definita transformative play. Il generarsi naturale di “regole della casa” (home rules in inglese) genera nuovi modi di giocare e, a volte, migliorie per rendere in gioco più emozionante. Un esempio divertente è legato a Uno e alla regola del +4: qualche anno fa il profilo ufficiale del gioco ha twittato che non si può mettere un +4 su di un altro +4 per far prendere 8 carte al giocatore successivo e un utente gli ha risposto: “Non sai giocare al tuo stesso gioco”. Ovviamente il caso non si è fermato qua e ancora adesso molti ridono di questi eventi, ma in realtà questo ci mostra quanto non ci sia regolamento scritto o autorità in grado di opporsi al transformative play. Queste modifiche raramente nascono da accurate decisioni di gruppi di giocatori dedicati che pensano a modi migliori di giocare, la maggior parte delle volte nascono da errori di interpretazione del regolamento, ipotesi fatte sul momento (per non perdersi in lunghe riletture del manuale), o ancora da comportamenti “scorretti” di giocatori più esperti (quindi più autorevoli al tavolo) che improvvisano per evitare un malus, trovandosi poi a dover concedere lo stesso bonus a tutto il tavolo. Queste modifiche avverranno quindi per l’azione del baro, del giocatore poco sportivo e del giocatore standard (il guastafeste rifiuta le regole in toto, quindi non può modificarle), mentre il giocatore dedicato sarà più restio modificare e reagirà malamente a ogni novità vedendo messa in gioco la sua esperienza, la sua passione e il suo flow. Il gioco l’avrà così posseduto che sarà pronto a trasformarsi in guastafeste, usando il suo furore, che prima lo spingeva al rispetto delle regole, in arma di distruzione del cerchio magico di tutti i partecipanti.

Problemi e necessità del furore.

Il gioco, quindi, ci possiede. Questa possessione ci da un furore senza il quale non riusciremmo a giocare con la stessa intensità, certo, ma ci spinge anche alla rabbia e, in alcuni casi, alla distruzione del cerchio magico che alimenta il gioco per tutti i partecipanti. È impensabile giocare senza furore, porterebbe a un gioco sterile e disinteressato, in cui i partecipanti non sono coinvolti e non si curano di ciò che vanno o avviene. Basti pensare alla tristezza di una partita di Risiko! senza imprecazioni quando un avversario ti distrugge un’intera armata di 10 carrarmati con una sola unità in difesa per capire quanto sarebbe vuoto giocare così. Eppure il furore può essere anche dannoso, non solo per gli altri partecipanti (o per le amicizie infrante intorno alla plancia di Monopoly), ma soprattutto perché ci può catturare e trasformarci in giocatori dedicati, conservatori e appassionati solo di quelle dinamiche, e questo porta alla ludopatia. Di per sé i giochi sono stupende macchine da flow, che ci fanno vivere situazioni emozionanti in ogni loro mossa, ma dovrebbero insegnarci a portare quel furore nella nostra vita che, troppo spesso, non assomiglia molto a una grande avventura.

di Martino Vasconi

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