Sul destino e la scelta che non sceglie
Se anche i libri potessero dire di aver provato il brivido – tutto umano – di un drastico rovescio di fortuna, il Liezi avrebbe una bella storia da raccontare agli amici del bar. Attribuito dalla tradizione cinese a un mal noto Maestro Lie Yukou, che parlava coi teschi e cavalcava le raffiche di vento; salutato un tempo come uno dei più antichi classici del pensiero daoista, e come tale riverito insieme ai suoi più fortunati cugini – il misticheggiante Daodejing e il provocatorio Zhuangzi –, questo smilzo libretto si è visto strappar via di dosso più di un quarto di nobiltà a partire dal secolo scorso.
Molte le pugnalate inferte dai moderni studiosi alla sua autorevolezza. Invece di essere stato composto, come si credeva, nel V secolo avanti Cristo, risalirebbe nella sua forma attuale a un tempo assai più recente; per di più, la maggior parte dei suoi brevi capitoli si è rivelata essere stata tolta di peso da altri testi filosofici, degradandone l’insieme quasi al rango di mera antologia. Eppure, al netto di queste pecche, il Liezi serba intatto il fascino di un’opera ambiziosa, paradossale, destinata immancabilmente a stupire i suoi lettori, e forse in nessun luogo l’originalità delle opinioni del suo autore putativo si mostra con maggior forza che nel suo sesto libro, consacrato a una discussione sul tema del destino.
Il dibattito sull’idea di “destino” non ha lasciato che deboli tracce nelle opere dei pensatori cinesi di età pre-imperiale. Il testo che va sotto il nome del filosofo Mo Di ci ha conservato l’epitome di un’interessante critica al fatalismo, ma a parte questa e poche altre voci isolate non possediamo trattazioni sistematiche del tema. Dal punto di vista formale, neppure il Liezi costituisce un’eccezione – gli piace, al pari del Zhuangzi, argomentare a singhiozzi, attraverso un farraginoso accatastarsi di aneddoti e brevi dialoghi; ma pur con tutte le difficoltà che presenta, la sua teoria sul funzionamento del destino ci appare come una delle più complete e originali che ci siano giunte dal mondo antico.
Cominciamo col dire che per l’anonimo autore, così come per gli altri cosiddetti daoisti, il Cielo non ha in serbo per l’uomo nessun piano specifico: non lo premia per la sua virtù, né lo punisce per le sue malefatte. Lo lascia libero di eleggere per se stesso una vita in conformità coi ritmi della Natura o in opposizione ad essi, una scelta, quest’ultima, che lo condanna però a un’esistenza stritolata dalla brama di profitto, dall’ansia della vita e dalla paura della morte – una macabra metafora del Zhuangzi riconosce in ogni gesto compiuto da un uomo simile quello di una povera lebbrosa, che dopo aver partorito un figlio nel cuore della notte «corre a cercare una torcia per osservarlo meglio, tremando di terrore al pensiero che possa essere come lei»[1].
All’idea che il destino costituisca una sorta di “decreto celeste”, un provvido intervento di forze occulte sul corso delle cose umane, il Liezi sostituisce una definizione alternativa: per lui il destino è semplicemente la garanzia fornita dal Cielo che ogni frammento dell’esistente possa seguire il proprio cammino in modo agile e spontaneo. Nel capitolo iniziale del libro sesto, che mette in scena una schermaglia verbale tra lo Sforzo e il Destino personificati, il primo dei due personaggi è costretto ad ammettere la propria impotenza di fronte al secondo: deve riconoscere che in molte occasioni, per quanto si sforzi di raggiungere un determinato fine, l’uomo soggiace comunque ai capricci dell’imprevisto. Quando però lo Sforzo domanda al Destino se sia invece lui a preoccuparsi di disegnare il futuro del mondo, la sua risposta è seccamente negativa:
Quando si dice che una cosa è destinata ad accadere, come può esserci qualcuno a dirigerne il corso? Io non faccio che spingerla quando procede diritta, non faccio che assecondarla quando procede storta. Lunga e breve vita, successo e fallimento, alto e basso rango, ricchezza e povertà: queste sono tutte cose che accadono da sole. Come potrei saperne di più?[2]
Il Liezi abbandona ogni visione provvidenziale delle cose, che accadono spontaneamente; l’aspetto dell’universo è determinato non da una volontà esterna, ma dalla continua interazione tra i suoi componenti, i cui effetti si intrecciano in una rete tanto antica e tanto vasta che l’essere umano non può sperare nemmeno per un istante di seguirne i fili o indovinarne tutti i nodi. Possiamo quindi guardare al destino come all’olio lasciato gocciolare dal Cielo tra gli ingranaggi del mondo, ingranaggi il cui moto non è però controllato da alcuna forza esterna a loro stessi. Neppure l’azione dell’uomo – in quanto parte della Natura – sfugge a questo quadro generale, ed è qui che il discorso dell’autore, oltre che paradossale, comincia a farsi provocatorio.
In due brevi digressioni storiche il Liezi presenta ai suoi lettori alcuni famosi episodi della storia cinese, i cui protagonisti si sono guadagnati buona o cattiva fama per il comportamento tenuto in determinate circostanze. Tra gli esempi citati troviamo il Duca Huan di Qi insieme ai suoi due consiglieri, e troviamo il virtuoso ministro Zichan che, pur accettando di buon grado le critiche che l’abile legislatore Deng Xi rivolgeva al suo governo, si risolse infine a mandarlo a morte per corruzione. Tutti questi personaggi, la tradizione cinese li additava a modello di quali virtù fosse necessario coltivare per poter amministrare un Paese; ma per l’autore del nostro libro la loro stessa linea di condotta non era stata il frutto di una vera scelta: era stata loro imposta dal misterioso intreccio delle circostanze.
Non è che Zichan sia stato capace di adottare il codice di leggi scritto da Deng Xi: è che non avrebbe potuto non farlo. Non è che Deng Xi sia stato capace di fargli accettare le proprie critiche: è che non avrebbe potuto non farlo. Non è che Zichan sia stato capace di mandare Deng Xi sul patibolo: è che non avrebbe potuto non farlo[3].
La posizione dell’uomo nell’economia del mondo si fa quindi ambigua. Il Cielo gli accorda una piena libertà di elezione, i cui esiti neppure il Cielo stesso è in grado di prevedere, ma allo stesso tempo ogni decisione presa dall’uomo gli sarà stata dettata, in modo affatto inconsapevole, da tutti i fattori presenti e passati che hanno contribuito a creare quella determinata situazione.
La malattia del vecchio Ji Liang, per riprendere un esempio del libro, non sarà quindi dovuta semplicemente «a pasti irregolari, a un eccesso di rapporti sessuali e alle troppe preoccupazioni», come gli suggerisce il primo dei suoi dottori; né ci si potrà limitare a ricercarne l’origine nel fatto che «al tempo della [sua] nascita, nel grembo di [sua] madre c’era troppo poco fluido vitale e troppo latte nel [suo] seno», come gli suggerisce il secondo, che ha però il merito di aver capito quanto la fitta trama delle cause possa estendersi nel lontano passato. Bisognerà invece sentenziare, col terzo medico, che tutte le cose esistenti ed esistite hanno concorso a far nascere la malattia, e che l’efficacia stessa della cura sarà nelle mani di più fattori di quanti la scienza medica potrà mai comprendere:
La vostra malattia non viene dal Cielo, non viene dall’uomo, non viene dagli spiriti. Sin dal primo momento in cui avete avuto un corpo, avete saputo cosa lo governava. Cosa possono fare per voi i miei aghi e i miei impiastri?[4]
Meglio è dunque per l’uomo cessare di attaccarsi alla vita, perché l’insieme delle cose potrebbe essere già al lavoro per rubargliela; meglio è cessare di temere la morte o, al contrario, di desiderarla, perché nessuno sarà mai capace di prevederne l’istante con certezza immutabile. Tutto ciò che l’uomo può fare è smettere di opporre la propria volontà al corso spontaneo delle cose – che finirebbe comunque per travolgerlo –, scegliendo di «chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie, volgendo le spalle alle mura della città e lo sguardo al fossato che le circonda»[5]. Una scelta che, tuttavia, non potrà mai giurare a conti fatti di aver davvero compiuto.
Note
[1] Zhuangzi cap. 12. Traduco in italiano da The Complete Works of Zhuangzi, tr. ing. di Burton Watson, Columbia University Press, New York 2013, p. 96. L’interpretazione del passo è comunque assai controversa, e spesso i traduttori si astengono dal commentarlo.
[2] Liezi cap. 6. Traduco da The Book of Lieh-tzu, A Classic of Tao, tr. ing. di A.C. Graham, Columbia University Press, New York 1990, p. 121.
[3] Liezi cap. 6. Seguo qui la traduzione che è in The Mingjia & Related Texts, a cura di Ian Johnston e Wang Ping, Chinese University of Hong Kong Press, Hong Kong 2019, p. 393, perché più vicina al dettato del testo cinese.
[4] Liezi cap. 6. Traduco da Graham, pp. 128-129.
[5] Liezi cap. 6. Ivi, p. 132.