Estrarre il tema della Terra e del Femminile, di questi tempi e durante Echoes, la rassegna sull’ecologia organizzata dalla Corte dei Miracoli, è una bella sfida per noi scrittori della Tigre di Carta. Il simbolo che ci fa da guida sembra, nella sua semplicità, quasi perfetto: il segno grafico dell’Yin (cioè una linea spezzata: “– –”) si ripete per tre volte, disegnando l’elemento naturale della terra (☷), cui ne seguono altre tre, fino a costruire l’emblema del lato oscuro e potente del Tao, cioè il lato dell’Yin.
Nella cultura arcaica cinese, il termine “Yin” indicava il versante in ombra di una collina (陰) o, per analogia, la luce lunare che fa da contraltare a quella del sole, senza contrapporvisi, e che compare anche nel suo ideogramma (阴), laddove “月” indica la luna. Gli attributi della madre terra e della femminilità, nel segno della fertilità, sono ormai ovvi se messi a confronto con i loro corrispettivi nelle altre religioni e mitologie. Tuttavia, le pagine dell’I Ching possono rivivere nelle nostre mani solo a patto di uno sforzo ermeneutico per ritradurle nel presente. L’immagine della società classica cinese, dove il ruolo femminile è assolto nel ricevere la scorta dell’uomo senza metterglisi alla pari, oggigiorno è sterile e va ripensata. Per far tesoro dell’amalgama degli opposti nel simbolo Yin-Yang, sbarazzandosi però del suo manicheismo, occorre andare, come direbbe Philippe Descola, Al di là di Natura e Cultura, riscrivendo il termine ormai semplicistico di “Natura”.
Alla ricerca di una nuova icona terrena e femminea, capace di ribellarsi al suo stereotipo, mi sono imbattuto nel personaggio di Gaia “inventato” da Bruno Latour, il carismatico antropologo che rilancia oggi la sfida dell’ecologia con piglio pugnace e disincantato. Nella sua post-mitologia, infatti, la dea Natura, ormai obsoleta come l’ingenuo concetto di wilderness, disutile in quanto categoria “marcata” che rimanda a ciò-che-non-è-cultura, così come il termine Donna rimanda a ciò-che-non-è-uomo, viene scalzata dal nume di Gaia, madre dei titani, dei giganti e degli dèi, nient’affatto benigna ma nemmeno leopardianamente sadica, incapace piuttosto di far da arbitro nella pseudo-lotta fra l’uomo da una parte e piante/animali/minerali dall’altra. Scende anzi in campo contro gli Umani al tramonto del Pleistocene, a sostegno dei Terranei, i nuovi soggetti dell’Antropocene, un’Era ancora da scrivere prima che venga cancellata dalla Storia, o meglio: prima che la Storia, cancellando il Pianeta, si annulli da sé.
Per uscire dalla comfort-zone della nostra forma mentis, Gaia ha la funzione di sovvertire i livelli, perché sta mitologicamente al di qua dei dualismi e idealmente, almeno nel progetto di Latour, al di là della loro collisione. Se in passato già Ortega y Gasset, sufficientemente patriarcale e antropocentrico, capiva la condanna dell’uomo ad allontanarsi vieppiù dalla Natura, sostituendola di volta in volta con una Supernatura in forza di una gaia scienza, questa nuova Gaia dà piuttosto l’immagine di una pre-natura, di una goethiana Urnatur che, eterna come il femminino, non è quindi né un archetipo di purezza né una meta utopica, perché si posiziona sia prima che dopo. O meglio, sia sopra che sotto. Nell’immagine del Ricettivo, infatti, l’elemento raddoppiato raffigura la Terra situata sia in alto che in basso del simbolo, e l’I Ching spiega esplicitamente che se il primo dei suoi esagrammi, cioè il Creativo, raddoppia l’elemento del Cielo in senso temporale, quello del Ricettivo raddoppia la Terra in senso spaziale, estendendola a dismisura, non solo in superficie ma anche nei suoi strati geologici. Anche per questo rappresenta la materia par excellence, perché corrisponde al concetto cartesiano di res extensa.
Verrebbe quasi da prendersi gioco delle teorie ottocentesche della terra cava, rinvenute ancora adesso da qualche complottista, secondo cui sotto questa Terra se ne nasconderebbe un’altra, atra e preminente, abitata da popoli primigeni. Sarebbe un buon modo per rinforzare il combattivo slogan degli ambientalisti: There’s no Planet B, immaginando che siamo già noi il Pianeta B.
Di queste ridicole teorie si potrebbe salvare, tutt’al più, l’immagine della scavatura terrena, che coincide col disegno dell’I Ching di un simbolo composto di tutte linee spezzate, a ricordare non solo il solco dell’aratro quale esaltazione della fecondità del suolo ma, in modo più sinistro, la voragine nella roccia, l’abisso del Tartaro dove l’occhio si perde nell’oscurità di Erebo.
È laggiù che dimora Gaia, in una dimensione indistinta che si fa beffe della favola al miele della Natura. Laggiù la regina esisteva prima che ogni altro essere comparisse, poiché da lei partorito. Come potrebbe allora un potere tale limitare se stesso nel chiostro di un banale dualismo? Persino nella mitologia greca, Erebo rappresenta l’oscurità perenne, ancipite, ermafrodita, ed è solo unendosi a Notte che genera Emera, il Giorno, avviando il gioco degli opposti.
Salvando il volo della metafora, allora, vorrei che anche nei temi da noi trattati in questo numero l’idea di Natura stesse a Gaia come il concetto ormai antiquato di Yin stesse a quello, ancor più arcaico ma, paradossalmente, più moderno, di Taiji. Nella cosmogonia cinese, Taiji è il polo supremo da cui soltanto dopo si emancipano l’Yin e lo Yang. Ha una caratura neutra, eppure una nuance già femminea, pur non ancor femminile, così come la Prakrti indiana, la materia indistinta attraverso cui l’intero universo si esplica.
Il termine Taiji indicava originariamente una trave, a sottolineare che il fulcro del simbolo Yin-Yang è il centrocampo della coincidentia oppositorum. È interessante, allora, evocare la più grande figura femminile di riferimento delle leggende cinesi, Nüwa, divinità madre che abitava da sola agli albori del mondo e, per fugare la noia, creò gli animali, le piante e infine gli uomini. Quando in seguito le forze dell’Acqua e del Fuoco combatterono il loro duello, mandando in frantumi il pilastro del cosmo, fu lei a ripararlo, fondendo cinque pietre colorate e servendosi delle zampe di una grande tartaruga.
Ispirandoci a queste e altre storie per far da puntello ai nostri quesiti, reinterpretiamo anche noi allora la Terra non come la superficie piatta o rotonda che si calpesta, ma come lo spessore verticale che dona profondità ai nostri ragionamenti. Gaia, come dice Latour, «è la scoperta di una Terra nuova considerata nella sua intensità e non più nella sua estensione».
Il concetto di Ricettivo aiuterà a trovare i termini medi sull’estesa linea che va dall’attivo al passivo. Passiva è la donna schiava della società tradizionale, attivo è l’uomo schiavo del suo stesso stereotipo patriarcale, a metà strada, invece, il ricettivo è il femminino e il propositivo è il mascolino (da non confondere con femminile-maschile), che possono infatti abitare in entrambi i sessi.