Sconfinati limiti dello sguardo fotografico
Illusions are to the soul what atmosphere is to the earth
Virginia Woolf, Orlando
Affrontare il Ricettivo senza sconfinare nell’esagramma precedente, il Creativo, equivale a fotografare con il dito davanti all’otturatore: abbiamo davanti l’insieme, ma ne vediamo una parte.
La forza del Creativo (il drago) e la mitezza del Ricettivo (la testa sparafuoco, a riposo) disegnano un binomio benefico di opposti integrati. O integrabili. Alcuni esempi?
Cielo e Terra, Cerchio e Quadrato, Autore e Fruitore, Luce e Ombra, Finestra e Specchio, Esterno e Interno, Tempo e Diaframma.
L’anima creatrice ha bisogno di un suolo dove proiettare la propria opera. Invisibile nell’aria, l’ombra si manifesta sulla terra.
Per quanto sia sempre importante avere in mente un piano di lavoro, è essenziale restare recettivi nei confronti di opportunità, imprevisti, variazioni, casualità che ci si presentano.
Umberto Eco suggeriva di essere aperti all’ambiguità, «sia nel senso negativo di una mancanza di centri di orientamento, sia nel senso positivo di una continua rivedibilità dei valori e delle certezze»[1].
Lo spettatore fruitore, esercitando atti di libertà cosciente, diventa coautore dell’opera d’arte
collaborando a completarne il significato.
Analog(ic)amente, la modella Lee Miller è coautrice delle fotografie di Man Ray.
Insieme al capofila della fotografia surrealista, Lee Miller sviluppa la tecnica della solarizzazione in chiave creativa.
Descritta già nel 1862 da Armand Sabatier, la pseudosolarizzazione o effetto Sabatier è una tecnica di sviluppo in camera oscura. Mentre una parte dell’immagine inizia ad affiorare dal bagno rivelatore, si accende la luce. Non l’innocua lampadina rossa, ma una lampada invadente, da interrogatorio. Le aree colpite nuovamente dalla luce subiscono un processo di inversione tonale: il negativo diventa positivo e viceversa.
Lee Miller, con il suo profilo circonfuso da un alone di luce, si palesa icona dell’inconscio divenendo musa par excellence dei surrealisti. Soggetto tutt’altro che passivo, «riceve uno sguardo e ne restituisce un altro. Anche quando posa per un ritratto è come se fosse contemporaneamente dietro e davanti all’obiettivo»[2].
Ritratto e autoritratto sono sguardi intercambiabili. Ritraendo Eileen Agar, pittrice e fotografa surrealista, Lee Miller proietta la propria identità umana e artistica inquadrando anche la propria ombra. Qualificarsi esclusivamente come soggetto non le basta perché non vuole essere una fotografia, ma fare una fotografia. Animata da una determinata curiosità verso il mondo, diventa corrispondente di guerra fotografando lo strazio dei feriti negli ospedali e l’agghiacciante scenario del campo di sterminio di Dachau. Nel 1945 a Monaco di Baviera il collega David Scherman scatta l’immagine Lee Miller nella vasca da bagno di Hitler. Giorni e giorni di macerie, morte, massacri da lavarsi di dosso. Gettati sul bianco tappetino, logori e luridi stivali lo impressionano di madida fanghiglia, fresca angosciante memoria di Dachau.
Miller mette in scena un esempio di unheimlich freudiano: la familiarità di un gesto sano e ordinario screziata da una crepa di mostruosità disumana.
Innumerevoli, nel corso della storia dell’arte, le rappresentazioni della donna ritratta da pittori uomini per committenti uomini.
«Una donna deve continuamente guardarsi. È quasi continuamente scortata dalla sua immagine. […] Sin dall’infanzia le è stato insegnato a sorvegliare sé stessa ininterrottamente. E così arriva a considerare la persona sorvegliante e quella sorvegliata come due parti costitutive, per quanto distinte, della sua identità femminile»[3].
Il saggio di John Berger aiuta a capire perché la produzione di autoritratti sia prevalente tra le donne che, attraverso la fotografia, costruiscono, scoprono, affermano il loro immaginario.
Lo vediamo nell’urgenza espressiva di Francesca Woodman (Self Portrait at Thirteen 1972), dirompente quanto un ritornello urlato da Kurt Cobain o nei non-autoritratti di Cindy Sherman. Nella sua serie Untitled Film Stills (1977-1980), imitando le immagini promozionali scattate sui set cinematografici, la Sherman sbobina un catalogo di stereotipi femminili degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il lavoro sull’immagine di sé diventa una terapeutica ricostruzione della propria identità per Ana Mendieta, artista cubana che ha perseguito la «ricerca di un rapporto armonico con la natura attraverso rituali solitari che conducono alla rivelazione e alla scoperta di sé»[4].
Nata a L’Avana nel 1948, Ana Mendieta viene trapiantata tredicenne negli Stati Uniti in accordo al piano anticomunista Peter Pan, diseducativa risposta alla rivoluzione castrista.
Era come se fossi stata strappata dal ventre materno.
Giovane pianta sradicata a forza, tenterà tutta la vita di ribaltare un forte senso di non appartenenza e di ricomporre la propria identità in un’amniotica comunione con la terra.
Io lavoro con la Terra, faccio sculture nel paesaggio, visto che non ho una madre/patria, sento il bisogno di avvicinare la terra e tornare al suo grembo.
Le Siluetas sono impressioni del suo corpo su una terra coperta di neve, ghiaccio, sassi, sabbia, erba, foglie e fuoco. Dal momento che ogni earth-body work viene riassorbito dalla terra, le fotografie restano l’unica traccia della sua presenza.
Ancora più effimera, l’immagine riverberata dal riflesso speculare, sembra guardarci con mutevolezza umorale.
Nel dipinto Las Meninas di Velásquez (1656), lo specchio non riceve passivamente la scena allestita lì davanti, ma sceglie quale sezione della rappresentazione riflettere. A ben guardare,
«non riflette nulla di ciò che si trova nello stesso suo spazio; né il pittore che gli volta le spalle, né i personaggi al centro della stanza. Nella sua chiara profondità non accoglie il visibile. Non è uno specchio che duplica. Qui lo specchio non dice nulla di ciò che già è stato detto»[5].
Lo specchio non ripropone acriticamente la paratassi dello spazio scenico dirimpetto, ma condensa la massima intensità di informazione visiva nella volatilità dell’immagine riflessa.
Lo specchio, insomma, seleziona.
L’artista britannica Jemima Stehli invita alcuni amici a fotografarla mentre si spoglia davanti a loro per la serie Strip (1999-2000). Ciascuno di loro, mentre divide con Jemima la scena davanti a l’obiettivo, può scegliere dieci istanti da bloccare schiacciando il pulsante dello scatto remoto.
Stehli esplora la complicità dell’osservatore nella rappresentazione del nudo femminile scrutandone il ruolo e la posizione. Predispone il set, sceglie il colore del fondale, inquadra, divide la scena con l’osservatore e si spoglia. Le immagini che ne risultano sono contemporaneamente autoritratti e ritratti dove chi guarda è guardato a sua volta. L’atto del guardare, forse il vero soggetto di queste fotografie, e l’oggetto dello sguardo si rimbalzano a vicenda attraverso zigzaganti movimenti saccadici.
«Non guardiamo mai una cosa in sé; guardiamo sempre il rapporto tra le cose e noi stessi»[6].
Note
[1] U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1976 p. 41-42.
[2] E. Rasy, Le indiscrete, Mondadori 2021 p. 129.
[3] J. Berger, Ways of Seeing, Penguin 1972 p. 46.
[4] D. Campany, Arte e Fotografia, Phaidon 2011 p. 97.
[5] M. Foucault, Le parole e le cose, Bur 1978 p. 21.
[6] J. Berger, Ways of Seeing, Penguin 1972 p. 9.