Ovvero come da elementi naturali è possibile creare raffinate allegorie
Tra le opere più bizzarre e fantasiose che la Storia dell’Arte ricordi sicuramente un posto di rilievo è occupato dai dipinti del pittore milanese Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Queste pitture, definite dai contemporanei “grilli”, “scherzi” o “quadri ghiribizzosi”, hanno la caratteristica di utilizzare elementi naturali tutti imitati direttamente che, combinati assieme, creano figure non reperibili in natura. Nell’insieme dei lavori dell’Arcimboldo spiccano su tutte otto tele che componevano i cicli denominati Stagioni (1563) e Elementi (1566), composti per la corte asburgica di Vienna e di Praga, principalmente per Massimiliano II e Rodolfo II d’Asburgo. L’importanza di questi dipinti, oltre a quella di antropomorfizzare la natura, è quella di trasmettere un «messaggio serio sotto una forma apparentemente bizzarra»[1].
Giuseppe Arcimboldo, dopo aver lavorato principalmente nel cantiere del Duomo di Milano, nel 1562 parte alla volta di Vienna con la mansione di ritrattista personale di Massimiliano d’Asburgo, e alla corte viennese divenne un grande favorito, considerato come «arbitro d’eleganza e organizzatore di feste»[2]. Qui nella raffinata e colta corte asburgica le sue teste composite del pittore milanese trovarono un enorme successo, tant’è che dovette eseguire molte versioni dei suoi originali poiché erano molto ricercate in tutte le corti asburgiche d’Europa, come Vienna, Madrid e Praga.
Ma qual è l’intento di queste opere e come vanno lette? Benché l’idea originaria alla base di questa serie rimarrà ignota, è indubbio che queste si prestano a molteplici livelli interpretativi, quasi come un gioco di scatole cinesi. Tra le varie interpretazioni tre sono quelle più accreditate, e nessuna di queste esclude l’altra.
Il primo modello interpretativo è legato al ridicolo e all’ironia, che uniti alla ricercatezza e all’accuratezza dei dettagli procurano nello spettatore un gran momento di piacere. In una lettera del 1587 lo stesso pittore, mentre propone una decorazione a grottesche per la residenza praghese del barone Ferdinand Hoffman von Grünpichl und Strechau, definisce i suoi schizzi come maggia (macchia), questo termine era spesso usato nei dibattiti rinascimentali per indicare forme nuove costituite da diversi elementi; lo stesso Leonardo da Vinci indicava la macchia come qualcosa di cui servirsi per stimolare l’ingegno[3]. In questo caso le invenzioni di Arcimboldo si dovrebbero considerare come uno sfoggio di erudizione ed ingegno dove l’umorismo va considerato come espressione diretta dello stesso. Lo humor e l’erudizione che ammantano queste opere doveva piacere sicuramente alla corte e agli imperatori della casata asburgica, «questi scherzi erano scherzi assai seri»[4].
La seconda interpretazione è collegata alla visione di queste opere come un’allegoria politica, in questo caso la serie delle Stagioni e degli Elementi instaurerebbero un parallelismo tra i fondamenti della Natura e la leadership politica che la casata Asburgo esercitava sul mondo.
Per evitare fraintendimenti su queste allegorie la loro consegna all’Imperatore Massimiliano II, avvenuta durante il capodanno del 1569, venne accompagnata da due poemi scritti dall’erudita milanese Giovanni Battista Fonteo (1546-1580) secondo il quale «il messaggio delle metamorfosi di Arcimboldo è un omaggio al nuovo, sacro romano imperatore. Come l’imperatore domina il corpo politico, e quindi il mondo del microcosmo o dell’uomo, così lo si può considerare anche sovrastante al mondo più vasto delle stagioni e degli elementi»[5]. Il rapporto armonico tra gli elementi di varia natura che compongono queste teste sarebbe la rappresentazione dell’armonia che guidava l’operato politico dell’Imperatore, inoltre questo rapporto era sottolineato dalla corrispondenza tra le stagioni e gli elementi (ad esempio la Primavera aveva abbinato come elemento l’Aria): siccome le stagioni e gli elementi tornano nella natura perennemente così anche gli Asburgo, dominando questi elementi, avrebbero avuto potere perpetuo. Non è casuale nemmeno la scelta di ritrarre teste e non personaggi per intero, secondo il poeta milanese questa scelta è legata alla storia di Roma ovvero quando si scavarono le fondamenta per il Tempio di Giove Capitolino venne trovato un teschio, subito interpretato come presagio di potere imperiale così le teste di Arcimboldo preannunciavano potere eterno per gli Asburgo.
Molti elementi che compongono queste opere sono diretti richiami alla politica e all’araldica della casata austriaca: ad esempio il leone presente nella Terra raffigurerebbe il regno di Boemia o la pelle leonina di Ercole (del quale gli Asburgo si ritenevano discendenti); l’aquila e il pavone, visibili nell’Aria sono stemmi araldici degli Asburgo; il Fuoco porta al collo la collana dell’Ordine Cavalleresco del Toson d’Oro e ha come orecchio un attizzatoio, simbolo araldico asburgico; infine l’Inverno reca sul manto un attizzatoio la cui posizione ricorda la lettera M, iniziali di Massimiliano, secondo il Fonteo i Romani, fondatori dell’Impero, facevano iniziare l’anno (caput anni) proprio con l’inverno e quindi proprio questa stagione sarebbe la raffigurazione dell’Imperatore Massimiliano II visto che è la testa e il principio del vasto impero.
La terza esegesi vede alla base di queste opere una nuova visione dell’Uomo dove questi non è separato dalla Natura ma ne è parte integrante, e viceversa la Natura è parte integrante dell’Uomo: «il fatto che l’uomo fosse in grado di spiegare alcuni dei misteri della natura e di rivelarne i segreti era esattamente ciò che lo separava dalla natura. L’uomo non poteva più spiegare sé stesso come parte di un mondo da cui la propria conoscenza lo estraniava e lo definiva nel ruolo di osservatore. Non più in armonia con l’universo naturale, l’uomo doveva lottare per ripercorrere la strada compiuta, per ristabilire il contatto, anche con il rischio che i suoi tentativi potessero apparire satirici»[6]. La profonda emozione che anima le opere di Arcimboldo sottolinea la sua volontà di far capire l’appartenenza dell’uomo al tutto, questa volontà del pittore milanese è molto vicina alle idee di Giordano Bruno, propositore di un universo policentrico che inglobava l’uomo come parte di esso, simile alle altre parti.
Qualunque siano le interpretazioni alla base delle opere di Giuseppe Arcimboldo è fondamentale notare che riuscì a dare nuovi significati all’allegoria, riuscendo a concentrare la varietà degli elementi in un’unica immagine pur mantenendo le qualità segrete di ogni singolo simbolo. Dimenticato ingiustamente per troppo tempo, forse perché esponente di un pensiero troppo maturo per i suoi contemporanei, la sua opera e il suo pensiero oggi potrebbero essere presi da esempio per l’odierna questione sulla difesa della Terra e dei suoi frutti, mettendole come punti di incontro tra la natura e quanto prodotto dall’uomo.
Note
[1] Le allegorie e i loro significati, T. DaCosta Kaufmann, p. 89 in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, Milano, 1987.
[2] Principi e artisti. Mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo (1517-1633), H. Trevor-Roper, p. 109, Torino, 1980.
[3] Le allegorie e i loro significati, T. DaCosta Kaufmann, p. 93 in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, Milano, 1987.
[4] Tre diversi modelli interpretativi, P. Hulten, p. 22 in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, Milano, 1987.
[5] Le allegorie e i loro significati, T. DaCosta Kaufmann, p. 100 in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, Milano, 1987.
[6] Tre diversi modelli interpretativi, P. Hulten, p. 31 in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, Milano, 1987.