Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)
«Sigareta?».
Avevo risposto net ed ero passato oltre. C’era da raggiungere l’acqua, adesso. Lui però non tardò a tornare. Come definirlo? Un vagabondo? Girovago? Finito quello che sto per fare non avrà più molta importanza.
Lui bagna la mano destra nel fiume. Io la sinistra. Lui si emenda dal vizio del fumo, io da quello della scrittura. Ancora non capisco come sia nato ciò che ho visto di fronte a me al termine del racconto del mio ospite. Eppure, il mio foglio è ancora là nello zaino, pronto a giurare. Era diventato un pentagramma, su cui iniziava un tema a due voci per violoncello e contrabbasso. Il Tema di Angara, dal suono del sarma e dalla voce dei gabbiani sino al canto della principessa. L’avevo scritto sotto chissà quale dettatura, mentre il mio ospite raccontava la favola.
Appena arrivato a Irkutsk avevo raggiunto le sponde del fiume, davanti all’isola di Yunosti, per poterlo chiedere direttamente a lei. Per me Angara era ormai implicita, come destra e sinistra. Spero che nessuno riesca mai a darne una definizione, che non la trasformi mai in est e ovest. Come la destra è… ciò che si trova a destra, niente di più. Così Angara non era già più il fiume, né un’antica principessa o il nuovo volto di lei, ma soltanto Angara, che anagrammato sarebbe rimasto tale, persino tradotta in cento lingue. Avrebbe resistito a ogni conversione, una polena fra gli schizzi, perché se le frasi sono immagini sbriciolate, i simboli ne sono i frammenti ricostruiti. Angara era già simbolo, e dio solo sa per quale debosciato isomorfismo il mito dell’esistenza di quello spirito acquatico, proprio quello che leccava le mie caviglie e sudava ora fra le mie dita, era potuto diventare un tema musicale, in cui i due archi si guardano a distanza di un rigo come le nuvole affacciate sulle correnti del fiume. Una partitura che temo non avrò mai la forza di portare avanti dopo che avrò preso il mio aereo domani, nella giornata più lunga della mia vita, in credito con lo spirito del tempo di ben cinque ore su Mosca e di un’altra rispetto a casa mia.
«Sigareta?», insiste il mio nuovo ospite.
Ricordo adesso il pacchetto che mi ha regalato un ragazzo di Omsk. Torno indietro sul lungofiume e raggiungo il bezdomnyj. Mentre scarto il tabacco dal filtro cavo scopro che lui si chiama Sergej, Sergej Wagner. Si è fatto due anni di militare a Vladivostok e poi tre di galera in Jakuzia, dove in inverno lo sputo congela prima di toccare terra. Che miniera di romanzi per il mio vecchio ospite. Io invece, quando toccherò di nuovo terra cercherò di mettere per iscritto il mio gioco. Il nostro gioco.
Spero di avere una figlia, un giorno, per raccontarle di sera la vera fiaba di Angara e osservare l’isomorfismo che da racconto, disegno e musica si trasforma lento in sonno.
di Federico Filippo Fagotto
Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo capitolo.