Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)
Taganai – [Таганай]
Commettendo un piccolo errore si forgia un almo talismano, come fu con la tarte tatin, il negroni sbagliato e compagnia briscola. Anziché il 15 agosto, sul biglietto del treno da Ekaterinburg a Novosibirsk c’era scritto in grassetto: “17/08”, senza nessun fuso capraio da far espiare stavolta; tutto mio lo sbaglio. Avevo insomma due giorni in più da trascorre in una cittadina che attraeva il visitatore per non più di mezza giornata, diciamo una intera se si era bellofili.
Ma il fato, indietro di qualche casella, volle recuperare con una di quelle pusillanimi mosse doppie che inspiegabilmente le regole permettono, come l’arrocco o l’apertura di due cavalli. Aveva predisposto infatti che sul treno precedente, quello da Kazan, incontrassi un’altra famigliola molto russa, cioè molto diversa da come ci immaginiamo i russi.
Mi spiace scomodare il solito animale per questo paragone, anche perché è bello grosso, ma quando il padre di famiglia mostra due grossi baffoni staliniani, la zucca semi-sverniciata e una gradinata ombelicale da cui la carrozza dell’armata Potëmkin non la smetterebbe mai di rotolare giù, il pensiero a un tricheco non sta più nella cuccia. Suo figlio Aleksej era un piccolo leone marino sul calco del papà. Al posto della risata un morbillo contagioso, e quando gli guariva ci pensava il padre a infettarlo di nuovo con un accesso ghignante che apriva i flap ai suoi baffi.
La madre era invece pia d’aspetto e vispa d’occhi. Ho rivisto nel suo viso lo stile di un disegnatore di Dylan Dog, di cui non ricordo il nome. Mi sfavellava in russo sciolto, non tanto perché sapesse che a tradurre ci pensava poi Alksej, fra mille rammarichi di aver dimenticato questa o quella parola in Anglijskij, quanto perché in cuor suo sapeva – anche solo inconsciamente – che quei suoi occhi latravano il senso delle parole al di sopra del loro stesso significato.
Soltanto la figlioletta era, per così dire, un po’ più moderna: ben vestita, già vanesia, ma quando si richiedeva una risata tutt’ora non sapeva dissimulare le sue origini contadine. Il momento in cui si è fatta pettinare i lunghi capelli dalla madre e i loro profili complementari hanno quasi combaciato per poi riallontanarsi come i bordi dei continenti alla deriva, riepilogando in un fermo immagine l’evento della nascita, ho ricominciato a essere sedotto ma anche straziato dagli inesausti dettagli tessuti sempre un po’ dappertutto. «Come fa a definirsi morale», mi chiedevo, «una persona che curiosa talmente nelle minuzie da averle care non meno dei principi? Cosa gli importa di un’enorme melanzana al contadino che coltiva con impegno tante piccole teste d’aglio?».
Per essere sgridato dall’immensità, mi sono messo dietro la lavagna del finestrino a farmi scrutare dalla taiga. Era un guardare di sottecchi quello che filtrava dalla foresta attraverso la porzione superiore del finestrino, che sbucava poco oltre dalla fila di letti soprelevati della carrozza. La vigliacca alberata si è nascosta presto dietro una stazione e io allora ho tirato fuori il pranzo, senza andare troppo di corsa. Mi rifiuto di mangiare quando il treno sta fermo, non so perché. È come un killer che gode di più quando la vittima si dimena. Vedermi pronto allo stillicidio ha però risvegliato il senso di ospitalità in quella famiglia, pronta a offrirmi un cantuccio a ridosso del tavolino trasversale dello scomparto per mangiare seduto comodo. Offerta consueta in realtà, com’era un tempo in qualsiasi taverna dalle grandi tavolate collegiali.
Nelle ore di viaggio trascorse insieme a quella famiglia, ore dilavate e quasi fasulle, si è parlato un po’ di tutto, nei limiti vernacolari – che bisogna convertire sempre in chance. Dalle due piccole icone che, comprate a Mosca, avevano attirato i presenti intorno a me impinguati della stessa curiosità con la quale mi chiesero se preferissi donne italiane o russe, domanda su cui la madre era slittata verso sfoghi campanilistici in jacuto stretto, sino ad assiologie presidenziali ai cui antipodi ecco Putin, da loro definito “brava persona”, e quel “rovinatore della patria” di Gorbačëv. Su quelle note, un altro passeggero loro amico, che era in viaggio insieme alla compagna e aveva rivelato poco prima di suonare la chitarra, avrebbe forse voluto che una niania gli porgesse la balalaika di ordinanza per far vibrare l’intero momento.
Parla parla, traduci traduci, gesticola gesticola, viene fuori che la famiglia allargata, amici compresi, abita a Zlatoust, paese collocato a nord dell’indomani mattina, per quel che potevo capirci. La croce più visibile, infatti, era da segnare non tanto laggiù, ma giusto a fianco della cartina, laddove sedevano le cime del Taganai. Atlante avrebbe risparmiato il gioco plautino con Eracle se solo avesse saputo dell’esistenza di un monte che nell’etimo e nei fatti è “colui che sorregge la luna”.
Fascinato da questo simbolo che persino l’etichetta dell’acqua minerale ribadiva, così come dal tenue rapimento con cui Aleksej arrangiava l’Ave Maria dei suoi parenti prodighi nel lodare il paesaggio del Taganai, ero quasi tentato di starmene sul treno, dire paka a Ekaterinburg dal finestrino e precipitarmi subito lì. Tuttavia, la brutta inimprovvisabile realtà mi ricordava la mia prenotazione all’ostello e l’incertezza che il mio biglietto del treno fosse davvero estensibile.
Dal coro dell’Ave Maria uscì allora in tenore di stentato deustch la voce di Konstantin, il vibratore di chitarra e balalaika immaginaria. Oltre a conoscere parole tedesche a sufficienza da farsi capire, e non troppe da impedirmi di esprimere, non solo si offrì di accompagnarmi sul Taganai dopo che fossi ripartito da Ekaterinburg, ma non aveva nemmeno il volto da tranquillo week-end di paura, sebbene il duetto balalaika-banjo non ci sarebbe venuto neanche male. Il difficile piuttosto era riuscire a darci un appuntamento, data la defaillance del mio cellulare. Fu allora che presi con spirito messianico il nostro incontro. Ci saremmo rivisti alla stazione di Zlatoust, questo era certo, giorno X, ora Y (+3) – il tutto trasformato in equazione dal fuso orario moscovita – cascasse il mir!
Scesi dal treno già tardi di sera, mentre la famiglia si animava in un climax spirituale sul principio di fede. Alcune mie parole sulle diverse religioni avevano infatti calamitato la compagna di Konstantin verso una posizione possibilista, arrestata dalla pia e vispa madre e dal suo inamovibile quaccherismo. Aleksej, nel farmi la telecronaca in diretta del match Vecchi Credenti vs. Chiesa di Bahà’ì, lasciava pur filtrare la sua opinione, per non tradire il detto: tradurre è tradire. «C’è una sola religione», statuì mentre cercavo di dirgli che conoscere varie religioni, pur restando fedele a una soltanto, permetteva un arricchimento spirituale. Il fuoco dell’etimo nel termine “ortodossia” fuse in un attimo i miei tre anelli in un’unica colata da cui i presenti, nelle ore successive al mio arrivo, avrebbero forse ricavato di che forgiare una sola grossa campana monodica alla Tarkovskij.
Ciò che conta è che al fato riuscì alla fin fine di portarmi dove voleva lui. Dopo la giornata poco increspata trascorsa a Ekaterinburg, di cui ho detto, trovai un treno notturno per raggiungere Zlatoust. Lì, un Konstantin incredulo di vedermi incontrò un me incredulo di rivederlo. Scorti i miei due zaini, il suo sguardo fece però una curva verso il dubbio. Gli dissi di non preoccuparsi, illuso che il paffutello Konstantin non camminasse quanto me. Cominciai però a ravvedermi dopo aver scoperto che di mestiere faceva il carpentiere anche lui, come Nikolai. La chitarra l’aveva suonata a tempo pieno solo in gioventù, andandosene in giro per il reame post-sovietico con altri musicisti per sfuggire alla leva obbligatoria.
Tuttavia, l’Eden che si schiuse sin dalle pendici del Taganai appena dopo che ci fu chiesto di registrare i nostri dati, sia mai avessero rinvenuto un coriandolo di passaporto lavando i denti a un orso, era talmente estatico che la mia fatica arrivava sempre in ritardo sullo stupore, torturandomi solo post festum. In realtà, dopo il primo check point ero già cotto, ma tanto più notavo decrescere i visitatori, sino a sparire, e con loro i check point stessi, mentre un miraggio anacoretico si materializzava travestendo persino il mio Virgilio-carpentiere d’un manto da fantasma dalle pochissime Wörter, il senso di quel mio abbandono superò di gran lunga il significato stesso della fatica, come le parole della madre di famiglia vispa e pia.
Betulle simili a cipolle facevano il soffritto a un’emulsione di funghi, su condimento d’insalata con piante a me ignote se non per averle viste pucciare il gambo nell’acqua in qualche dipinto simbolista; tronchi d’albero mozzi che tramutavano il sentiero nel tentacolo di un polpo, qua e là resti di focolari in forma di piccoli nei dimenticati sulla pelle del monte, ma soprattutto morte sospirata di quella cautela che nasce nei boschetti o fra i grossi parchi, dove per fingere di essere soli si deve evitare di fissare troppo distante, fare troppo rumore oppure troppo silenzio. Qui, una solitudine smargiassa si poteva sfidare a duello come Puškin con Dantes, urlando, lanciando segnali e chiedendo perfino aiuto. Ben lungi, nel mutismo dell’incomprensione e del rispetto, Konstantin e io quel giorno camminammo per sei ore, verso il piccolo Sinai siberiano che decollava insieme al mio spirito, il mio corpo che raffreddava la propria vendetta e il termos di Virgilio che teneva in caldo le patate bollite preparare dalla sua futura moglie.
L’accento circonflesso di alcune izba fece arrestare infine la pronuncia dei nostri passi, quando già si alzava il buio e abbassava la statura degli alberi in esodo dalla taiga verso la tundra. Un ragazzo dai contorni eschimesi e la voce sensuale fece tre gesti: in direzione della nostra capanna, verso il fuoco che ci avrebbe scaldato, nutrito, intrattenuto, e fra le piante imbrunite dove stava parcheggiato orizzontale il silos del banja, da cui uscì una coppia in disinvolto petto nudo lui e piedi scalzi lei, scena che mi alienò ogni velleità di spogliare.
Quella sera, quasi sotto dettatura dei Lari, le potenze climatiche mi hanno preso di mira con strategia tantrica per accompagnarmi dal freddo barbicante, alleato alla fame grottesca, fino alle morbide frustate del fuoco con l’appagante singhiozzo dei bocconi di carne, di farro caldo, di pane azzimo e galletta di sesamo dolce, con tale indugio che al momento culmine di ritrovare la libertà primaria che distingue vivere dal sopravvivere e di guardare in cielo, più che alla vista delle stelle cadenti fu la consapevolezza di essere stato irretito dalla fortuna di trascorrere la notte di San Lorenzo di fronte a una volta di svariati pollici superiore alla mia immaginazione, dilatata dall’infinità siberiana e tagliata da lame di luce, a farmi capire che le ascese di quel giorno erano state due. La seconda senza nemmeno muovere un passo.
Ne mancava ancora una, e lo compresi la mattina dopo.
Konstantin, mentre dava la sveglia in modo spiccio alla brace che fingeva di dormire, disse come coniandola di nuovo la parola Spitze, replicando coi dorsi delle mani il tetto della izba e poi posandoci l’indice sopra mentre con l’altro additava una cima alle mie spalle dall’aria non impraticabile e nient’affatto tempestosa. Dopo le serie piogge dei giorni scorsi, di cui rimaneva un generoso lascito di fango, quel nido di due giorni che ci accolse sul Taganai fu nel meteo davvero quanto di meglio. Quella mattina alcune nuvole in più sulla corona del maxischermo, che dalla sera prima era passato ai canali in chiaro, venivano tenute alla larga dallo sguardo torvo del ragazzo pseudo-inuit cui avrei tanto voluto sentir pronunciare il termine oblaka con la sua voce inconfondibile.
Qualche frutto e un avanzo di farro, poi Konstantin e io ci trovammo di nuovo nella foresta. Stavolta ero un po’ più lucido per realizzare di trovarmi davvero sepolto nella taiga siberiana. Volevo aiutare la mia incredulità fermandomi per un attimo, ma Konstantin, forse nello sforzo di ricordare il termine Spitze, aveva del tutto scordato il significato della fatica e marciava imperterrito. Alle pendici di un vasto scivolo di sassi, il maquillage degli alberi contrassegnati dai colori del percorso si struccò. La mia guida si guardò intorno circospetta e architettò tre sassi su una roccia piatta come segnale per i noi del ritorno. Fra uno zompo e l’altro in verticale nel mezzo dei massi, che non saprei se definire sul serio scalata, progettai talvolta un paio di quelle piccole cattedrali segnaletiche, tanto per firmare anch’io qualche voce della nuova enciclopedia petrografica.
Arrivati in cima alla Zeta non c’era più nulla da segnalare, soltanto da guardare.
La taiga. Un mare. Un orizzonte. Un deserto. Un mantello per gli dèi.
Perpetrai un male necessario, evocando l’orologio solo per potergli dire addio. Paradossale. Avevo un treno da prendere nel tardo pomeriggio e non potevo ignorare i calcoli dei singoli spostamenti almeno tanto quanto mi rifiutavo, in un momento come quello, di fare calcolo alcuno. Triste ma vero: abbiamo vissuto il nostro sogno anche grazie all’oblio del tempo, e ce lo siamo potuti dimenticare poiché in fondo avevamo… abbastanza tempo. C’è un altro controsenso per rendere unica la presenza di quei due granelli di carne su un granello di pietra in mezzo a una spiaggia d’alberi e nuvole, il fatto che almeno uno dei due granelli di carne era convinto d’essere uno scrittore, e ancor di più di trovarsi laggiù quasi per una missione letteraria. Questo gli dava il diritto di fecondare la realtà circostante conferendole significati personali, dopo la ricucita verginità delle cose di fronte ai suoi occhi.
Per intenso legame filiale, però, il compito del presunto scrittore rischiava di rimanerci compromesso, tutto perché il perverso rotismo del gioco letterario consiste in un’enfasi espressiva, sempre tale anche quando si bontonizza di semplicità, sempre capace di mettere le cose in déshabillé e spogliare nell’anticamera fra parossismo e stravolgimento, cioè tramite descrizioni potenti ma non già letali, ribelli e mai incivili, come a bocce in cui bisogna tirare il più possibile accanto al boccino senza spostarlo di un millimetro. Il problema era: troppo coinvolgimento con quanto stava intorno, tanto da non sentirsi affatto in grado. Avrei tirato la boccia per sentire solo dopo il sonaglio di una corda e scoprire che la boccia era legata a qualcosa cui all’estremità opposta, in un cappio, stava il mio collo, presto trascinato giù in quel dirupo insieme al mio corpo e alla mia penna a sfera.
Impietrito di fronte all’enormità della foresta, senza neanche la magra razionale rivincita del sublime, ho cercato di fare appello al pensiero più blando capace di accasarsi in me. I filosofi non hanno il compito di dire cose complesse non ancora scoperte – lo si lasci agli scienziati, per carità – ma devono ripetere le cose semplici ormai dimenticate, pensai scoprendo che forse, ancor più disutile della mia missione letteraria era la mia indimostrata ostinazione filosofica. Tant’è che per vederci chiaro presi gli occhiali da vista nella tasca laterale del mio zaino. La cosa più elementare apparsa in seguito a ciò fu l’ombra delle nuvole sul manto boschivo, una causa che non si sa se riporre nelle nuvole stesse che danno forma a quell’ombra, oppure nel sole che acconsente allo scherzo sbattendo alle spalle contro le nuvole.
Appena due rocce più in là Konstantin era immerso in riflessioni cospicue. Quel pomeriggio avremmo percorso insieme un altro sentiero funestato dalla fanghiglia, ne avrei seguito i passi così edotti sulle scorciatoie per evitare di impantanarsi, mi avrebbe mostrato un fiume fatto di pietre che morde il fianco della foresta come il palato aguzzo di un gigantesco coccodrillo digiuno, l’avrei sentito scherzare sulla diminuzione delle salite e sul fatto che quel percorso era fin troppo facile. Come lo vedevo bene adesso, con gli occhiali al loro posto, il mio Konstantin dal viso rotondo, il torace largo e il viso reduce dall’acciglio russo a ogni pausa della coscienza, tinto invece quasi di miele ogni volta che il suo spirito si faceva sentire cercando di dirmi qualcosa in una lingua diversa dal russo.
Secondo voi, con tutto lo sforzo oculare di quegli anni. Fra esercizi di lettura, scrittura e osservazione sottocutanea, sarà peggiorata forse la mia vista da vicino oppure da lontano? Ovviamente… la seconda. Il corpo impara le abitudini e agisce di conseguenza. Apprende i bisogni del suo ospite. L’evoluzione è a somma zero, mi dispiace. Anzi, mi fa contento. È l’unica vera dose di democrazia preesistente in natura. Immaginiamo una palla di cera che si anima e per avvicinarsi a un oggetto si allunga, si affusola, stria e laddove guadagna distanza altrove ne perde: il suo volume rimane il medesimo. Pensiamo quindi anche alla morte come un pareggio di assetto, soltanto un po’ più brusco. Io, prima di lasciare il piccolo sul Taganai, in mezzo a lieti pensieri di morte, proficui presagi di precipizio, tra filosofia e letteratura a pareggiare il bilancio fra loro, ripensavo a una poesia scritta in un frangente straziato, lo scorso giorno di natale, pensando a una lei sulla stessa terrazza da cui alcuni anni prima un lui fra i miei parenti aveva emanato un bel pareggio d’assetto. Di quelli bruschi.
Gli occhi,
vomitano lacrime
che raffreddano guance.
Il vento,
corre ad asciugarle
per salvare la maschera.
Ma è troppo tardi.
Già si scioglie…
di Federico Filippo Fagotto
Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il settimo capitolo e l’epilogo.