Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)
Capitolo V – Katorga [каторга]
Sul treno per Kazan un accesso di raffreddore spinse Karolina, la madre di famiglia che occupava il letto di fianco al mio, ad aggiungere a Evelyna e Ivna un terzo figlio, adottandomi con le sue cure tra offerte di tè, spray per il naso e utili consigli in una lingua incomprensibile, sperperati dalla mia ignoranza. Ancora una volta il vagon (вагон) del treno si era trasformato in una piccola izba, con Karolina come matrioska.
Dare l’addio a Mosca evocò la magia sperata: i turisti stranieri sparirono. Intorno a me solo il sismografo armonico della lingua cirillica, simile al violino di Sherazade nei suoi alti-bassi fra montagne russe. L’etnia locale era adesso libera di mostrare i propri colori come il prisma quando intorno fa buio. C’erano i visi civilizzati dei moscoviti e dei pietroburghesi diretti a Est in vacanza, c’erano i volti cerei e meno slavati dei siberiani di ritorno a casa e quelli bicarbonati dei primi tatari. Due di loro richiamarono in particolare la mia attenzione. Un giovane robusto, rasato e dagli zigomi inchiodati all’ossatura, che avesse solo lasciato partire dalla cima del capo una lunga coda fino alle scapole non avrei esitato a definire un Kahn. Di fronte a lui un signore più basso, dal fisico asciutto come un’aringa e i tratti somatici ancor più selvatici, che aveva in compenso la carnagione ben più chiara e, per i suoi sottili baffetti, lo si sarebbe scambiato con un pescatore Ainu.
Il ragazzo si chiamava Dionisi e il signore di fronte a lui era suo padre. Fu quest’ultimo a propiziare l’incontro apparendomi di fianco e cominciando a disegnare su un foglio la cartina della Russia per indicarmi da dove veniva. Come vidi carta e penna mi ingolosii all’estremo, per quanto le difficoltà di comunicazione vietassero l’accesso a racconti troppo complicati, tanto che ci misi un bel po’ solo per capire che i due provenivano dalla Kamčatka, e ancor di più a mostrargli il mio percorso sovietico pur con quella bozza di mappa davanti. Era un ostacolo con cui avrei dovuto cominciare a fare i conti.
Tuttavia, il disegnino stilizzato di un aeroplano che il padre di Dionisi tracciò sul foglio per confermare il mio arrivo in volo dall’Europa era un tale gioiello che mi fece sperare di ricavarci qualcosa. Con l’aiuto di Karolina, infatti, scopro che sia lui che il figlio erano andati a Mosca per una scuola di disegno e pittura. A ripensarci adesso, erano una coppia ben strana: due tartari disegnatori, imparentati alla Turgenev, di cui non si saprebbe nemmeno indovinata la differenza d’età. Il padre, come nelle magie del maestro Woland, estrasse dal nulla il suo primo lavoro a olio, che mi lasciò attonito. Era ineducata la colonia di colpi di pennello che si accalcava sulla tela fra gomitate e urti di colori, miscugli di sangue variopinto, creazioni d’insieme in un’immagine di vaso di fiori convincente. In mancanza di parole, deputai al mio viso le espressioni più enfatiche per apprezzare il dipinto. Il pittore Ainu voleva addirittura regalarmelo, ma gli feci capire di non aver posto nello zaino, così invitò il figlio a snocciolare i propri disegni perché ne scegliessi uno come regalo.
Anche il figlio era molto bravo, in effetti. Lavorava a carboncino e sfumava molto bene, ma i soggetti fra il trash e il sanguinolento non mi esaltavano troppo, eccetto due di essi, fra cui il disegno di una rosa e un paesaggio con faro. Scelsi quest’ultimo pensando a una storiella che avevo scritto in passato e che l’incontro con Dionisi mi permette ora di raccontare…
– Nel buio, un’idea –
Ogni mente è una sponda del biliardo, l’idea è la sua palla.
Anche stasera una grande intuizione! E dire che la mia lampadina andrebbe cambiata, potrebbe fulminarsi da un momento all’altro.
Sì sì, non c’è che dire: questa frase calza proprio a pennello, per Diana. E poi, un essere come me, di idee? Ah, a iosa. Basta una semplice illuminazione.
Chi conosce il quartiere meglio di me? Chi è il punto di riferimento, da queste parti? Quando schiudo il mio occhio giallo, attiro lo sguardo di chiunque.
Domino solitario. Non ci sono altri lampioni qui intorno. L’angolo fra la quinta strada e i docks è tutto mio.
Ma quanti ancora mormorano: che bisogno c’è di vederci così chiaro quando si passeggia lungo la banchina del molo? Poco più che qualche vecchia barca immolata alla litania delle onde, forse un cane randagio o un girovago infreddolito e dietro la platea di nebbia che presenzia immancabile nelle sere d’autunno, come oggi.
Eppure è qua, proprio a ridosso del porto, che la città prende le sue decisioni. Gli uomini d’affari si incontrano clandestini, spalancano le toghe e versano il conquibus. Gentildonne agghindate si dedicano al commercio, ministri e diplomatici i loro felici contraenti e io… io vedo tutto, nessun segreto per me.
Vivo da cieco durante il giorno, poi alle 20.32 – con un leggero, indecoroso ritardo comunale – mi accendo! E ogni volta, ogni santa santissima volta, arriva un’idea: chiara, adulta, smaniosa idea. Sempre nuova, ogni giorno, come un secondino porta la mensa al recluso, non sgarra mai.
Alla gente si accende la lampadina quando accalappia un’idea. Ai lampioni arriva un’idea quando si accende la lampadina. «Fantastico!» (direte voi), no: niente affatto. Tutte le sere, quando mi accendono, un’altra stanca idea si aggiunge immancabilmente alle altre, come a una tavola col posto già apparecchiato. C’è forse di peggio che una prevista novità?
Dov’è quella segreta sensazione di chi s’immagina già sconfitto, quando disillusi dalla speranza di poter risultare simpatici all’oggetto dei nostri desideri, delle ricerche, degli affanni, si sente poi quel calore interno della lampadina mentre scalda il filo di rame per la prima volta, e poter urlare: «Eureka!», con l’entusiasmo di una vergine?
Ieri, ad esempio, sonnecchiavo così bene. L’angolo del porto zittiva in penombra senza di me. Poi di getto ho sentenziato:
Siamo al culmine della creazione,
perché facciamo di tutto per non venire capiti da Dio.
Le mie stesse parole mi hanno svegliato, e intanto quella luce che mi accecava dall’interno già mi diceva di tornare al lavoro. Mi sono guardato intorno, rimbalzando i bagliori elettrici sul silenzio del quartiere. Una cortigiana ambulante guardava verso il mare, lontani i suoi pensieri dai loschi affari. E poi, là sulla destra, si avvicinava lento “Il Rigattiere”, così lo chiamano, un cinese con più reati sulla coscienza che denti in bocca. Vende e compra di tutto: sigarette, oggetti in avorio o corallo, qualche arma, documenti falsi.
Se non ci fossi io in questo quartiere, col mio lume e le mie idee, chissà che anarchia!
Ma, un momento… cos’è questo rumore? Viene da est. Quello laggiù mi sembra Elias, il barbiere. Ha la bottega a due isolati da qui. È un brav’uomo, raro da queste parti.
Chi sono quei due tipi con cui si accompagna? Li ho già visti. Sono gli stessi che ogni mese fanno il giro dei negozi, dopo la chiusura però. Già, quei lunghi impermeabili mi erano familiari e quelle facce poi, nulla di raccomandabile. Che vorranno da Elias?
Per Giove! Lui è bianco che sembra un lenzuolo. Viene proprio qui sotto…
– Psss! Elias!
Mai che mi sentano quando parlo. Prevedo guai comunque, dev’essere un brutto periodo per lui. Sempre meno gentiluomini al mondo, e barbe più incolte. Non vorrei che finisse con un tuffo nella baia.
Ho bisogno di un’idea, subito! Elias ha bisogno di me!
Che crudeltà avere i piedi d’asfalto, non avere voce. È così vicino. Sì, solo un’idea può salvarlo. Su coraggio: venite di continuo, mi perseguitate, mi fate visita senza invito e adesso, proprio adesso mi abbandonate?
Ma come può venirmi un’idea, maledizione, se sono già acceso?!
Ecco ecco lo sento, più luce più luce… più luce!
[Flash!]
[Buio]
…Non vedo nulla, sono tornato cieco. Quella stupida lampadina, l’avevo detto che andava cambiata.
E questi passi? Elias! Col buio è riuscito a scappare.
Sssh. Posso riposare adesso.
È la prima volta che mi viene un’idea nell’oscurità.
Non sempre è la luce a portare le idee, le più profonde
provengono dall’oscurità. Gli amanti lo sanno bene.
[***]
Il mio albergo a Kazan non consentiva il check-in prima delle 14:00.
Disimpegnai lo zaino più grosso e me ne andai in giro. Il richiamo più acuto era quello del Kremlin Kazan, che contava nella sua cinta muraria un’enorme e moderna moschea al cui ingresso i veli distribuiti alle donne per coprirsi venivano sfruttati dalle moscovite per agghindarsi. C’erano poi un paio di decorose chiese ortodosse e alcune esposizioni di oggettistica e cultura tatara.
Volendo riservarmi tutto ciò per il pomeriggio mi servii della cartina per imbastire un anti-tour, ossia un percorso che facesse di tutto pur di non intercettare nemmeno per caso il contorno fortificato del Cremlino. In questa visita al ciapa no ho scovato così piccoli reperti non svelati dalla mappa: una chiesetta abbandonata con un verdeggiante feudo d’intorno pieno di fiori rossi a pois neri, una chiesa cattolica con due suorette che avevano svolto l’apprendistato in Italia e mi parlarono in un caffélatte di italiano e spagnolo, vidi poi un signore fermo sul ciglio della strada che fumava esattamente nella posa di mio zio, con un passo avanti all’altro, come le statue egizie, il braccio destro disteso che sembrava un giunco, una foglia arrotolata e fumante sull’estremità, l’altra mano sotto l’ascella opposta quasi a misurare la temperatura della sigaretta.
L’ultimo piccolo dettaglio fu un monumento con campanile, proprio di fianco al mio albergo, sotto il quale stava un pianoforte a muro all’apparenza dimenticato. Il suono delle campane mi diede il tempo di vincere l’imbarazzo, che per lo più è quasi sempre pigrizia, e mi risolse ad accostarmi allo strumento. Apertolo vi affondai le mani come tra i capelli di una donna, una donna che non mi concesse di procurarle alcun piacere dal momento che non emise un solo verso.
Il pianoforte era muto, come Sasha.
Poco più in là, nel medesimo silenzio, una ragazza bassa dal faccino tutto rotondo, gli occhi di menta e il seno più pallido del resto del corpo fra gli spiragli di un lungo vestito bordeaux era intenta a dipingere in petto al grande monumento. A dire il vero stava orientata più di tre quarti e quando io cauto le fui giunto alle spalle mi accorsi che ritraeva in realtà un angolo insignificante di strada.
«Anglijskij?», le proposi per riuscire a parlarle. Ottenuto un sì, le chiesi perché avesse scelto proprio quello scorcio. Mi ha risposto che le piaceva l’incontro fra le linee delle due strade, ma con l’insicurezza a posteriori di chi ha agito in realtà per istinto. Quella ragazza fu l’unica persona cui mi venne così spontaneo raccontare in poche parole tutti i miei scopi, dal gioco col mio ospite alla catena di racconti sino alle mie tappe in Russia, tanto da incuriosirla non per il solo fatto di essere uno straniero.
Quando la pregai di fare un disegno per me, mi chiese aiuto per un soggetto. Accennai solo vagamente al racconto sul lampione, descrivendone più che altro l’atmosfera metropolitana. Forse per non divorziare troppo dall’attività da cui l’avevo interrotta, lei fece allora scudo con il mio quaderno in direzione del suo dipinto e riprodusse lo stesso angolo con una serie di graffi tramite uno spesso pennarello nero. Non avevo pensato di lasciar scorrere qualche pagina bianca, prima che i suoi tratti ottusi coprissero i miei appunti sulla pagina precedente, costringendomi poi a leggerli in controluce come fossero banconote false, mentre dall’altra parte traspariva il nome “Adelaida”. Aveva firmato il suo schizzo.
Alle nove di quella sera dovevamo incontrarci di fronte al monumento, ma nel tardo pomeriggio mi scrisse che non faceva più in tempo e che avremmo potuto vederci il giorno seguente. L’indomani mattino il mio treno ripartiva. Scrissi ad Adelaida di non preoccuparsi, i nostri cammini si sarebbero incrociati di nuovo. Sapevo che questo valeva forse solo per me: l’avrei ritrovata fra le pagine di questi miei racconti, mentre lei – a meno di non cambiare soggetto ai suoi dipinti – non mi avrebbe rivisto.
Prima di lasciare Kazan feci in tempo solo a conoscere una ragazza che viaggiava sola. Si era da poco lasciata con il suo ragazzo. «Il mio primo amore», mi ha detto. Sul suo viso, un dolce sorriso a metà, ciò che per i siberiani – sui cui geni è nevicato per millenni – rappresenta l’apice della tenerezza, come se il massimo del glucosio possibile dipenda da quanto si zucchera il tè, anziché bersi un bicchiere di latte.
Studiava non so che facoltà culturale all’università, quella ragazza, ma di certo voleva fare la regista. Pensando alla città che stavo per salutare, mi venne in mente Elia Kazan, fondatore dell’Actors Studio a New York. Le chiesi allora se conosceva i registi italiani e quando lei rispose entusiasta di amarli, la vaccinai con un pensierino che mi era sorto l’estate prima a Lione. I directors americani sono coloro che “dirigono” la scena quasi come fosse una materia narrativa preesistente, dei moderni demiurghi, mentre il réalisateur francese “realizza” e invera la storia dalla pura genesi della sua fantasia. Ma è solo il regista italiano che governa come un “rex” la macchina cinematografica, un despota che sovrasta cast e attori.
Per conto mio, viaggiando da Kazan a Ekaterinburg con due macchine da presa avvitate sotto la fronte, dalle focali converse in un’unica immagine di realismo e magia, mi sentivo uno Dziga Vertov traboccante d’ingenuità.
[***]
Invecchiare dev’essere un po’ come oltrepassare il confine degli Urali in treno: non si verifica evento significativo che ne contrassegni il passaggio, se non qualche betulla bianca in più che spunta sulle tempie della foresta. Ce ne si accorge soltanto perché, come nella memoria a breve termine, comincia a dannarsi la nostra confidenza con la compagnia del tempo. Il fuso orario di due ore avanti rispetto a Mosca, infatti, non solo spiazza i conteggi e sorprende ogni qualvolta si passi lo sguardo su un biglietto ferroviario, che per bizzarra ma condivisibile comodità reca sempre l’orario di Mosca, ma soprattutto perché le stazioni stesse cospargono di trappole a due lancette i loro edifici regolando i loro segnatempo sul canone moscovita.
Fu così che arrivai alle 24:00/02:00 del 14/15 agosto di una notte/mattino in cui Dio/Bog solo sa come mai la metro fosse ancora aperta dal momento che smette alla mezzanotte, e più che convincermi di essere stata tarata sul fuso europeo preferisco crederla compassionevole verso lo straniero stordito dal gong degli Urali sulla zucca.
Disorientato, il povero straniero impiega il suo bel tempo, con o senza fuso ormai non fa più differenza, anche per trovare l’ostello nei pressi del Dinamo Stadium, visto che la fortuna di testare l’unico termine inglese conosciuto dai paesani, lo stesso “Anglijskij” offerto ad Adelaida e utilizzato per illudere lo straniero prima di rivelargli che l’inglese qui non lo si parla affatto, non è stata nemmeno concessa, considerato che per le vie notturne o semi-mattutine non c’era in giro un cuore di cane.
Trovato infine posto e dormita una manciata di 4+2 ore, il forestiero nazionalizzato a suon di porridge di riso finché non comincia a trovarlo più idoneo per la prima colazione, per espugnare la rocca di Ekaterinburg ha davanti a sé la non più intera giornata, sempre grazie al fuso. Tra le vene d’asfalto di questa città è scorso in particolare un piccolo fiotto tematico a cominciare dal quartiere dedicato alla cultura uralo-altaica presso il Museo di Letteratura degli Urali, quando una ragazza dai lineamenti tatari per compensare il panslavismo delle didascalie ha guidato lo straniero per le sale espositive svolgendo la sua Erklärung in magnifico Hochdeutsch, finendo per raccontargli di nuovo del duello mortale di Puškin contro il rivale Dantes con maggiori dettagli che mai. Non che Puškin provenisse dagli Urali, intendiamoci, ma la sua statua nella piazzetta a pochi metri di distanza, la Puškinaya che costeggia il museo, nonché la sua onnipresenza siglata dalla campagna sciovinista staliniana che lo ha reso padre della patria, lo reputa ingrediente di ogni insalata culturale, in un paese in cui il prezzemolo lo si mangia a crudo mordendo direttamente dal ciuffo.
La cura nel dettaglio profusa dalla tatarina per reinscenare il duello, in aggiunta alla storia della scrittrice Durova, una novella Mulan che si fece tagliare i capelli e vestire da soldato pur di arruolarsi sotto Kutuzov, mi hanno combinato l’impressione che la belligeranza riscuota un certo plauso da queste parti. Sarà stato il memoriale al milite molto poco ignoto, allegato come v’era l’abecedario in lapis per ogni singola recluta caduta nella Campagna di Russia, con tanto di Statua d’omaccione appoggiato al suo trespolo semi-automatico a 30 colpi, nella posa di un Rodin che medita su quanti ne ha uccisi.
Senza contare che già nel salone centrale della stazione cittadina ti senti osservato dagli affreschi che ripercorrono a tappe la storia di Ekaterinburg a partire dalla sua vittoriosa liberazione nel ’45. Ti imbatti poi nel Museo di Storia militare degli Urali, con tanto di carroarmatino, carroarmatone, autoblindo e lanciamissili seduti a tavola, con bambini a cavallo pronti a rimettersi in marcia per portare un po’ di primavera da qualche parte. Ti capita infine di parlare con un ragazzo che confessa il suo koshmar, il suo “incubo” ai tempi della leva obbligatoria, per la quale era stato spedito a ridosso dell’isola di Valaam ad allenarsi sparando e lanciando granate con tempo di esplosione di cinque secondi, senza un singolo giorno di libera uscita. Soltanto la sera di Natale, quando la sua ragazza l’aveva raggiunto per stare con lui, dové pagare il comandante per ottenere due giorni di permesso, per poi ricevere l’indomani una telefonata con obbligo di rientro immediato a causa degli alti ufficiali che avevano scoperto la scampagnata.
Ho deciso allora di interrompere la lettura di Cechov sull’Isola di Sachalin, libro comprato per essermi stato descritto come romanzo di viaggio attraverso la Siberia. Si trattava invece di un reportage che lo scrittore russo ha svolto in seguito a una spedizione agli estremi confini orientali dell’Impero russo per riferire della misera condizione delle katorga, le terribili colonie penali zariste, le stesse che in passato hanno ospitato detenuti carati come Dostoevskij e lo stesso Stalin, evaso ben due volte, ciascuna con spunti sempre più fruttuosi in vista di futuri gulag a regola d’arte.
Di certo avere il naso in pezzi in pieno agosto ancor prima di aver lambito la Siberia mi dimostrava che non avrei mai avuto la tempra ch’ebbe Cechov di traversare il freddo impero in carrozza e in nave per poi soggiornare in una colonia penitenziaria talmente sperduta che sarebbe convenuto invocare un kami shintoista più che un Sergej di Radonež per esserne tratti in salvo. Un luogo in cui a recludere gli abitanti basta la geografia e dove i carcerieri condividono le condizioni barbare dei condannati, concedendosi perciò eguale immoralità.
Ancora una volta, vittima e carnefice si scambiano i ruoli. Mente il mio spirito vive il corpo come una prigione poiché gli è precluso di evadere in forma di pneuma per colpa del mio naso tappato, mi aiuto cercando di ricordare le parole di una poesia che risale a pochi mesi fa. Ancora non sapevo, allora, che i due simboli del treno e della neve avrebbero evocato nelle due direzioni del loro movimento l’immagine della Siberia cui andavo incontro…
– Il treno e la neve –
Orizzontale…
Che dire? Non l’ero mai stato!
«Per te dormire? Un vero peccato!»,
– Dice sempre quel tale –
«Il tuo volto è più scuro d’una grotta profonda,
perché hai svolto il lavoro finché notte confonda!».
Ma lieve
chi meno avanza si slancia.
Da che breve
infanzia questo treno mi scaccia!
Già prima a me ha distrutta la culla.
Pur sai, che senza le soglie
ogni cima che svetta s’annulla
e se vuoi… distanza non coglie.
Tale e quale quel tizio:
un medico, all’aspetto!
Distante e pigro, come un patrizio
Ma io migro, non mendico un tetto!
Che… solo il paziente
è orizzontale, sul letto?!…
Verticale…
Risalire il sentiero del fiato.
Persino guarire? Un cero al malato!
Se la febbre poi sale,
tra non molto è sicuro che la matta s’arrenda
ma l’ascolto e mi curo… più sotto non scenda!
Non più della neve,
sul terreno danza e l’abbraccia,
non greve
abbastanza per almeno una traccia.
Se un’anima asciutta poi non sobilla
in noi… conoscenza e voglie,
una lacrima in fretta si stilla
e ormai… parvenza poi scioglie!
Un male morale, un vizio!
E se mi vendico, è abietto?
Fra gente, un negro! Ecco l’indizio:
è l’unico allegro, veridico, retto.
Ha un volo ascendente,
verticale d’assetto.
Così arranca il treno,
nero di manto vestito,
e bianca la neve
si posa al mattino.
S’incontrano,
è vero, soltanto in un mito,
come chi deve
qualcosa al destino…
di Federico Filippo Fagotto
Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il sesto, il settimo capitolo e l’epilogo.