Una fugace preferenza

Il 20 ottobre 2021, alla Corte dei Miracoli di Milano, si è tenuta “COS’È UNA CRISI? – Agorà a cura di Philosophy Slam”: la prima di una (lunga) serie di momenti di discussione collettiva sui temi oggi “caldi” nel dibattito politico, culturale, sociale: dal concetto di “crisi” a quello di “cultura”, dalla funzione della scienza al problema della libertà… Potete trovare due interventi di quella sera qui e qui.

La seconda serata di discussione, dal nome “Sic et Non – Simpliciter“, si è invece tenuta il 13 dicembre scorso e ha avuto come tema il concetto di cultura. Tre “relatori” hanno presentato brevi riflessioni a partire dalle quali sviluppare un dibattito con il pubblico presente: L’arte non è inutile, di Rudy Toffanetti, «Wall Street ha rafforzato il mio amore per l’arte» di Gabriele Stilli e Breve storia del canone letterario scolastico e di come (non) è cambiato nel tempo di Jacopo Bagatta.

Alla luce degli spunti emersi quella sera, ieri, 13 aprile, abbiamo ripreso i temi affrontati e sviluppato la discussione nel terzo incontro del ciclo, sempre dedicato al concetto di cultura.

Proponiamo quindi ora, in forma di articolo, una riflessione sul rapporto tra arte e modo di produzione capitalistico.

COS’È CULTURA?
Cultura è una parola che contiene tutto e il suo contrario. Culturale è la produzione scientifica, tecnica, artistica. Cultura è il folklore e la riflessione filosofica più raffinata. Tutto ciò che fa l’uomo sembra essere, in qualche modo, “cultura”. Ma se tutto è cultura, allora tutto si equivale? Cosa distingue un’opera d’arte da una merce qualsiasi? Un Picasso da uno spazzolino da denti? C’è davvero differenza? Nel caso, è una differenza, a sua volta, culturale? E se è una differenza culturale, da cosa è determinata?A partire da queste domande, e da tante altre, tre relatori si confronteranno con il pubblico declinando ognuno a modo suo il concetto di “cultura” e in particolare il rapporto “cultura e arte”.

preferenza

Prima di affrontare un discorso sul rapporto tra arte e modo di produzione capitalistico è necessario sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti. Quando parliamo di “arte”, infatti, apparentemente parliamo di una cosa definita da una serie di proprietà che possiamo elencare. Per esempio potremmo dire che “arte” è ciò che è bello, ciò che soddisfa quindi un gusto estetico, oppure che diverte, o entrambe le cose, o tanto altro.

Tuttavia, è facile rendersi conto che, procedendo in questo modo, si sta andando alla ricerca di un fantasma. L’arte, in sé, infatti non esiste: non c’è una cosa che possiamo vedere, toccare, esperire e che possiamo definire “arte”. Esistono senza dubbio delle opere artistiche. Ma anche in questo caso la diversità che le contraddistingue – anche dal punto di vista di “cose in quanto tali”: un brano musicale non ha, con tutta evidenza, le stesse proprietà di un quadro – impedisce di poter stilare un mero elenco di astratte proprietà che renderebbero queste cose, in quanto artistiche, diverse da tutte le altre.

Non solo. Se un’opera d’arte è tale perché ha determinate caratteristiche, come dare conto delle trasformazioni che nel corso della storia hanno portato gli esseri umani a considerare artistici oggetti diversissimi tra loro? Attenzione. Il problema non è solo il fatto che diventa impossibile spiegare perché alcune cose che un tempo erano considerate “opere d’arte” oggi non lo sono più. In questo caso è anzi relativamente semplice: sono cambiati i gusti, le preferenze… Il problema principale è spiegare perché oggetti un tempo del tutto comuni, oggi vengano considerati delle opere d’arte. I vasi greci che per esempio ammiriamo nei nostri musei, per i greci antichi erano dei semplici oggetti di consumo. Né più né meno di un nostro piatto di porcellana. Magari esteticamente apprezzabile, persino bello, ma certamente non meritevole dell’appellativo di “artistico”.

E allora: cos’è arte? cosa rende un’opera “artistica”?

Per rispondere seccamente alla domanda, si potrebbe dire che l’essenza – la “verità” – dell’arte risiede nella relazione. Relazione tra un soggetto, il fruitore, e un oggetto, l’opera. (Tralasciamo per comodità di ragionamento il problema dell’autore, delle sue intenzioni, ecc. Tema fondamentale, ma che abbisogna di ben altro spazio). È il modo in cui gli esseri umani si rapportano agli oggetti, il fatto che in questo rapporto ricercano un certo tipo di esperienza, che rende quegli oggetti “artistici”.

Ma gli esseri umani non vivono nell’iperuranio. Non esiste il concetto di “uomo” o di “donna” che si rapporta con il concetto di “opera d’arte” o di “arte”. Esistono uomini e donne concrete che si rapportano tra di loro e con il mondo circostante. Che vivono e sopravvivono. E soprattutto che creano le condizioni per perpetuare la loro sopravvivenza. Che, cioè, producono e si riproducono, come individui e come collettività.

Se l’arte è relazione tra esseri umani e oggetti, allora un’analisi dell’arte non può non concentrarsi anche sul modo in cui gli esseri umani si rapportano tra loro e il mondo che li circonda. Rapporti individuali e collettivi.

Ecco allora che, dopo questa premessa, veniamo al tema del nostro artico. Noi viviamo in una società dominata dal modo di produzione capitalistico, ossia in cui i rapporti hanno una forma e un contenuto determinati. Un modo di produzione in cui la forma-merce, ossia il fatto che un oggetto prima ancora di essere un bene di consumo è una merce, media ogni relazione. Domani mattina, per esempio, se vorrò mangiare dovrò andare a fare la spesa. Ossia dovrò entrare al supermercato, camminare tra gli scaffali e comprareciò che mi serve. «Prima le mele, le banane, la frutta secca. Ah guarda: c’è in offerta il mango… quasi quasi lo prendo. Poi caffè, pane, detersivo per i piatti…». E così via, finché non avrò riempito il carrello, pagato e non me ne sarò andato.

Siamo talmente abituati all’idea che se si vuole qualcosa bisogna acquistarla che ci fa persino strano se qualcuno la mette in discussione. Non ci sembra nemmeno possibile un altro modo di rapportarsi agli oggetti. È così per il cibo, per gli utensili di tutti i giorni e anche, naturalmente, per le opere d’arte.

Almeno dal punto di vista formale, infatti, non c’è differenza tra il mio atteggiamento di consumatore e l’atteggiamento di un fruitore di opere d’arte. Guardare un film, leggere un libro, ascoltare un brano musicale sono frutto di una scelta individuale, libera, che dipende dalle mie preferenze personali. Esattamente come accade quando al supermercato compro le mele piuttosto che le pere, le arance, il cioccolato.

Ma siamo sicuri che sia proprio così? Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro.

Storicamente l’emancipazione dell’artista dai vincoli di carattere mecenatistico ha apparentemente coinciso con la sua liberazione in quanto artista. Senza l’obbligo di rispettare determinati canoni imposti dalle committenze, l’artista infatti avrebbe potuto esprimere liberamentenell’opera tutto se stesso: la propria poetica, il proprio punto di vista sul mondo, le proprie idee…

Il processo appare del tutto affine – è anche avvenuto nello stesso periodo – al superamento dei rapporti politico-economici pre-capitalistici. L’artista, per quanto svolga un’attività particolare, è un lavoratore che ha le stesse esigenze di tutti gli altri lavoratori: deve mangiare, avere un tetto sopra la testa, riprodurre la propria esistenza, eventualmente la propria genia, ecc.

Proprio come tutti gli altri lavoratori, l’uscita da uno stato di subordinazione politico-economica pre-capitalistica, nel suo caso nei confronti delle committenze, lo ha posto di fronte a un problema: se non c’è più il mecenate che mi commissiona un lavoro e mi paga, come mi mantengo in vita? È noto che questo era il dilemma per esempio di Emilio Salgari, che infatti morì in estrema povertà. La risposta ci appare persino ovvia: devo vendere l’opera a qualcuno.

Ora, se proviamo a fare astrazione dall’opera in quanto tale e ad analizzare il processo di produzione in sé, la forma che questo assume, dal punto di vista dell’artista, è:

M – D – M

Dal punto di vista di chi acquista l’opera invece la forma è:

D – M – consumo

oppure

D – M – D’

Nel primo caso l’opera ha un mero valore d’uso, che appaga chi la consuma. Una volta consumata l’opera può dissolversi nel nulla, e in certi casi – pensiamo a uno spettacolo teatrale che può essere replicato infinite volte ma ogni replica fa a sé – non può che dissolversi.

Nel secondo caso, l’opera diventa invece un mezzo: il fine è l’accrescimento della ricchezza, ciò che in altre parole è chiamato accumulazione di capitale.

Ma questa forma del processo di produzione e consumo dell’opera, per quanto tutt’ora vigente, è ancora per così dire “primitiva”. È ciò che, con un’espressione propria dell’economia-politica, viene chiamato sussunzione formalistica. Il capitale entra come elemento secondario nel processo di produzione: l’artista opera per conto suo, ha piena potestà sui tempi, i modi, le forme dell’opera d’arte. Solo in un secondo momento dovrà preoccuparsi di entrare in rapporto con qualcuno che compra l’opera. (In verità non è proprio così: se vuole vivere delle proprie opere d’arte è auspicabile che l’artista si ponga prima il problema; tuttavia è ancora in suo potere decidere se addivenire a compromessi e plasmare la propria opera sulla base della vendibilità oppure no).

La sussunzione formalistica non è un processo che riguarda solo l’opera d’arte. Ancora nell’Ottocento, e in certe zone del mondo anche più tardi, la produzione – specialmente di tessuti – non era gestita da un capitalista. Il capitalisti entravano nel processo di produzione solo in un secondo momento, acquistando i prodotti finiti. Per il produttore era del tutto indifferente ciò che il compratore avrebbe fatto con la merce: poteva rivenderla per guadagnarci oppure utilizzarla. L’importante per lui era che qualcuno la comprasse.

Cambpell

Questa modalità di produzione ha però ceduto il passo, abbastanza presto, a un’altra forma di relazione tra lavoratore e capitale. Il capitale è entrato direttamente nel processo produttivo, ha iniziato a definire i modi, i tempi, i luoghi della produzione. A organizzare la produzione. Ha sussunto, ossia piegato alla propria logica e ai propri bisogni, il processo di produzione. La sussunzione formalistica ha ceduto il passo alla sussunzione reale. L’industria ha soppiantato la manifattura.

Il processo di produzione ha allora assunto un’altra forma:

D – M – … – M’ – D’

Il capitale è l’alfa e l’omega della produzione: nella forma astratta di ricchezza, di denaro, la precede e ne diviene condizione di possibilità; nella forma astratta di ricchezza, di denaro, la chiude e diviene il fine della produzione.

Un processo affine è avvenuto nell’ambito della produzione di opere d’arte, specie in alcuni settori particolari: la musica, la cinematografia… Pensiamo a ciò che avviene quando viene prodotto una canzone cosiddetta mainstream. La casa discografica commissiona l’opera a un esercito di piccole api operaie rigidamente divise per compiti: qualcuno si occuperà di fare ricerche di mercato per capire i gusti del pubblico, qualcun altro di reperire l’artista giusto, qualcun altro di scrivere le musiche, qualcuno i testi, qualcun altro di fare il mixaggio, e così via fino a che il prodotto, bello e impacchettato, può finire su Youtube o sullo scaffale di un negozio.

Sembra di essere tornati all’epoca del mecenatismo, ma evidentemente è una somiglianza solo formale. Non avendo l’esigenza di farci un profitto, il mecenate aveva interesse solo che l’opera soddisfacesse il proprio gusto personale o i propri fini privati (foss’anche celebrare pubblicamente le proprie virtù). Oggi invece quella merce dev’essere vendibile ad altri. Di più: deve battere la concorrenza. E quindi nulla può essere fuori posto. Da qui le mode, la reiterazione ad libitum di canoni stilistici, l’esser prodotti “tutti uguali” (quanto meno all’interno dello stesso genere): tutte spie di un conformismo dettato dalla necessità di “non sbagliare colpo”, di riuscire a produrre una merce che sicuramente avrà un mercato.

Ma non solo. In generale la produzione di cultura soggiace alla logica del profitto. La produzione culturale è produzione industriale: è il mondo dell’industria culturale, non a caso definito in questo modo.

In questo mondo rovesciato, sottosopra, non solo la bontà di un’opera in quanto opera artistica non è determinante, ma non è determinante nemmeno la produzione dell’opera in quanto tale. Si può produrre un film, una canzone oppure un tavolo o una mitragliatrice: è del tutto indifferente. Ciò che conta è che l’investimento frutti un profitto.

La mia affermazione può sembrare un’esagerazione. Non è così. Pensate ad esempio che la più importante casa editrice di riviste scientifiche, Elsevier – il cui giro d’affari cinque anni fa era di 8 miliardi e 240 milioni di euro – è di proprietà della multinazionale RELX Group, che a sua volta è un’azienda quotata in borsa i cui investimenti vanno dall’editoria alle banche dati legali (LexisNexis), ai servizi finanziari per l’analisi e la predizione degli investimenti a rischio (LexisNexis Risk). Secondo voi i proprietari delle azioni di RELX Group sanno esattamente che cosa ha prodotto la ricchezza che si intascano a fine anno sotto forma di dividendi?

Il ribaltamento che questo modo di produzione compie costantemente tra mezzi e fini non è privo di conseguenze. Innanzitutto, la moltiplicazione infinita di merci, conseguenza inevitabile del fatto che il profitto è il fine della produzione e maggiore è la produzione di merci maggiore è anche potenzialmente il profitto. Come diceva già Gabriele nel suo intervento siamo letteralmente inondati di opere. Di fronte a questa immane raccolta di merci che si accumula di fronte ai nostri occhi è impossibile districarsi. E così, finisce che per lo più ci limitiamo a fruire di prodotti più o meno simili tra loro. Al punto che diventiamo prevedibili, anticipabili, targettizzabili: siamo il consumatore contemporaneo, il fast shopper, il tradizionale, il digitale, il consumatore “omnicanale” (giuro che non me lo sono inventato, l’ho trovato su un articolo del quotidiano Avanti!… e sì, l’Avanti! di cui parlo è proprio il giornale del fu Partito Socialista Italiano).

Non è il consumo che determina la produzione, ma piuttosto il contrario: è la produzione che determina il consumo. Perché la produzione precede il consumo, determina il tipo di prodotto finito che troveremo e soprattutto perché, nel suo complesso, svolge una potente funzione pedagogica: ci educa, ci educa come consumatori. Innanzitutto come consumatori di merci e non di prodotti d’uso.

Ecco che allora il cerchio si chiude. L’opera d’arte, divenuta merce tra le tante altre merci, ci viene buttata in pasto per essere sbranata, proprio come la mela o il mango di cui sopra. Diventiamo indifferenti alla sua specificità, alla sua funzione di opera d’arte. E la nostra libertà, che appariva assoluta, si rivela in realtà niente più che la mera espressione di una fugace preferenza.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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