Parma è, come il suo nome, compatta, liscia e mauve, intrisa «di dolcezza stendhaliana, e del riflesso delle viole». Firenze «miracolosamente profumata e simile a una corolla»; il suo nome evoca affreschi racchiusi in preziose architetture e «il Ponte Vecchio, ingombro di anemoni e giunchiglie». Le città della Normandia e della Bretagna hanno attrattive diverse, da Beyeux, «così alta nel suo nobile merletto rossastro, la vetta illuminata dall’oro antico della sua ultima sillaba», a Quimperlé, «più saldamente radicato, e sin dal medioevo, fra i ruscelli di cui mormora e s’imperla in una grisaille simile a quella disegnata dai raggi di sole che le ragnatele di una finestra trasformano in punte smussate d’argento brunito»[1].
Quale guida turistica proporrebbe le sue mete con queste parole? Eppure sono questi i viaggi che il Narratore della Récherche ricorda di aver sospirato, nella sezione che chiude il primo volume: un lungo vagheggiamento che si cristallizza attorno ai nomi dei luoghi, ricamando, nel suono delle parole, fantasticherie legate alla loro fama e alla promessa di soggiorni di delizia estetica. Purtroppo i preziosi arabeschi che ne nascono, nei quali ciascuna località appare «come un individuo ignoto, […] la cui conoscenza avrebbe dato ristoro alla mia anima assetata»[2], rimangono sogni inesauditi: al giovane Marcel è stata promessa una vacanza in Italia e sembra, a chi legge, che nell’attesa egli abbia dispiegato tutte le sue capacità di desiderare; ma, poco prima della data fissata per la partenza, Marcel cade malato. Non solo, ma parrebbe che questi desideri così ricchi e immaginifici siano destinati a non trovare mai soddisfazione: egli stesso, ripercorrendoli con ironica indulgenza, riconosce che si tratta di immagini «false», che vi è una «contraddizione» nel voler esperire nella realtà qualcosa che la fantasia sola, nella tensione dell’attesa, ha prodotto[3]. Sembra quasi giusto, perciò, che proprio al momento di mettersi in viaggio – momento in cui il Narratore sente avvenire in sé una sorta di disincarnazione – la partenza venga annullata: se è crudele soffocare un desiderio nutrito con tanta tensione immaginativa, ancor più crudele sarebbe stato lasciare che si infrangesse contro un impietoso disincanto.
È vero, infatti, che questo genere di fantasticherie desideranti sono non solo lontane dalla realtà, ma del tutto disomogenee rispetto a essa, per la semplice ragione che nell’attesa si è soli, mentre, nell’“avvento” di ciò che è atteso, un’alterità irrompe da oltre i nostri confini. Il Narratore anticipa che, quando riuscirà a visitare alcune di queste città, rimarrà deluso. È semplicemente vero che l’esperienza che Marcel potrà avere di Firenze, Venezia, Balbec non darà corpo alle immaginazioni che egli ha intessuto: una concrezione di fantasie evocata da una parola non ha niente a che vedere con una città che ha prosaiche strade e case, fogne, rifiuti – e magari abitanti antipatici. Eppure non mi affretterei a leggere nella sua delusione l’ennesima conferma del fatto che diman tristezza e noia recheran l’ore – o, meglio, ci sono due modi in cui questo stesso pensiero può essere inteso: uno completamente pessimistico, per cui la bellezza che l’attesa ha nutrito in sé crolla di fronte alla realtà; un altro, meno netto, per cui quella stessa bellezza non va perduta.
Ritenere che la discrepanza tra l’incontro e l’attesa sognante che lo ha preparato abbia il carattere di una confutazione, operata dal primo sulla seconda, significa assegnare all’attesa il ruolo di mero negativo dell’incontro: essa non ha un volto proprio, è un semplice vuoto, un’assenza, che, una volta colmata, sarà anche vanificata. Se l’attesa è effettivamente questo, il tempo consacrato a un’assenza, come tale essa gioca un proprio ruolo nel rapporto con chi o cosa è assente. Le fantasie turistiche di Proust non appassiscono, dopoché sappiamo che Parma non è liscia e mauve; mantengono in sé un baluginio prezioso, che non risiede meramente nel virtuosismo dello scrittore. Se prendiamo sul serio questo scrittore, possiamo anzi dire che sta mettendo la sua abilità al servizio di un compito arduo, qual è modellare nelle parole un legame affettivo con un pezzo di mondo: la tela che l’attesa fila, è questo incantesimo del desiderio, che prepara la base per un dialogo, in cui si fa posto dentro di sé per l’incontro. La pienezza della presenza della cosa desiderata non lascia spazio per cercare la comunicazione – non ce n’è bisogno. Ma nel tempo che si dedica all’assenza dell’altro, l’altro può essere cercato – attraverso un colore, un odore, un sentimento, una parola, che lo evochi. Può rimanere un gioco che si fa con se stessi, se l’attesa basta a sé e non si espone al pericolo dell’incontro con l’altro – che potrebbe in un istante distruggere i castelli edificati dall’amor de lonh. Se, invece, l’attesa è rivolta al di là di sé a ciò che le sfugge, essa può configurarsi come un tentativo di avvicinarsi a questo reame ignoto che l’attira, non come conquistatrice, ma come chi invita a un dialogo amoroso.
Si può pensare che l’amore si ponga in una sfera differente da quella della sua mera promessa, alla quale soltanto, invece, apparterrebbero tutti gli aspetti “poetici” (comunque questa parola voglia essere intesa): gli amanti de lonh di tutti i tempi, se fossero stati vicini, non avrebbero sprecato tempo intrecciando ghirlande liriche. In questa posizione, per nulla originale, c’è sicuramente qualcosa di vero – ma c’è anche qualcosa di falso. La distanza, nella quale l’attesa si impone, del resto, è costitutiva dell’altro in quanto è altro: nella distanza risiede la ricchezza – e insieme la tragicità – dell’altro, che arriva da dove non possiamo non solo decidere, ma neppure vedere. Nell’attesa si impone l’alterità del desiderato. Se, però, essa si limitasse alla pura estraneità, non avremmo alcun mezzo per incontrarlo – per riconoscerlo quando si fa avanti, per comunicare con lui e, prima ancora, per attenderlo mentre non c’è. L’attesa fa parte del rapporto che intratteniamo con l’altro che giunge dall’al di là di essa. Non possiamo intervenire sulla sua durata, non possiamo che cercare e proporre un inizio di dialogo. Si sa che la virtù “umana” del dialogo è di consentire una comunicazione in cui le parti non vengono fissate, permettendo una continua modificazione reciproca, attraverso lo scambio con ciò che è “estraneo” e che concorre a delineare ciò che è “proprio” come se lo fosse dal principio, creando e rivelando in un medesimo gesto. Ciò che si è detto o pensato – la parola, il colore, il suono – non è mai sufficiente, non è mai definitivamente adeguato; ma, attraverso queste insufficienze dello sforzo comunicativo, il desiderio viene coltivato entro un rapporto amoroso. Così, dopo che si è affermata l’eterogeneità costitutiva dell’attesa rispetto all’incontro, emerge ora il loro legame profondo. L’opera dell’attesa, in cui l’altro è ancora solo promesso e sognato, prende posizione all’inizio del dialogo – e di volta in volta nel rinnovarsi di tale inizio: in mancanza di una via diretta per giungere all’altro, il sogno gli affida un volto, un nome, probabilmente inadeguato, con cui chiamarlo e riconoscerlo fra tutti, con cui invitarlo a risponderci e a venirci incontro – attraverso tale “nome” il sogno stesso si fa più ricco e profondo. Si chiarifica, non raggiungendo la trasparenza, ma portando alla luce dal magma una gemma, che si offre all’altro e a noi come possibilità di amare, di essere amati.
Note
[1] M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. di Giovanni Raboni, Mondadori, Milano 1986, Nomi di paesi: il nome, vol. I, pp. 469-471.
[2] Ibid., p. 468.
[3] Ibid., pp. 470, 472.