Dalla materia al Cielo

L’attesa e l’arte musicale in Schopenhauer

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Nessun grande maestro della filosofia Occidentale, da Epicuro a Spinoza fino a Derrida, Lacan e Sartre, si è sottratto dall’incombente interrogativo sul fondamento dell’esistenza umana. Arthur Schopenhauer, in particolare, ha avanzato una risposta, definendo la vita dell’uomo essenzialmente come una sofferenza che non trova alcun affrancamento, costretto nei vincoli della sua stessa volizione. Per questo l’unico fondamento che gli è proprio in maniera definitiva, secondo il filosofo, è la sua incessante attesa del mondo e dei suoi eventi, che definisce la sua vita come corsa senza fine verso un appagamento irrimediabilmente sfuggevole e parziale. «Il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo»[1], così Arthur Schopenhauer presenta la condizione umana: un’attesa mai soddisfatta.

L’attesa quindi non si presenta affatto come quella condizione di quiete a cui si può intuitivamente pensare, ma al contrario è presentata dal filosofo tedesco come una “tensione senza posa”, a noi innata e da cui ci è impossibile svincolarci. È questo anche il significato originario del termine. Attesa deriva dal latino ad-tendere, cioè tendere (del pensiero) verso qualcosa. Attendiamo perché siamo insoddisfatti. Ed è quella che Schopenhauer chiama la volontà di vivere a relegarci in tale stato.

La Volontà è una brama cieca e inappagabile che non vuole nient’altro che propagare se stessa e che domina tutto ciò che esiste. Ogni cosa è un mezzo della Volontà, la quale se ne serve per riaffermarsi continuamente. Ed è proprio l’assoggettamento dell’uomo alla Volontà a causare la sua sofferenza: nessun oggetto o conquista potrà mai soddisfare la sua volontà, la quale continuerà sempre a ripresentarsi. Fin tanto quindi che saremo soggetti al suo dominio, l’attesa costituirà la nostra condizione esistenziale.

Ma perché gli oggetti del mondo non soddisfano la nostra brama? Il motivo principale, secondo Schopenhauer, riguarda il tempo. Il mondo in cui siamo calati è un mondo prima di tutto temporale, in divenire, che muta in continuazione e si dissolve. Non a caso, la temporalità è definita da Schopenhauer come un nulla da Schopenhauer, proprio perché nientifica tutto ciò su cui si posa. Ogni cosa, cioè, essendo trascinata dallo scorrere del tempo, assume la sua stessa inconsistenza. Ed è proprio il fatto che le cose sono soggette al divenire, a rendere la nostra attesa dell’evento, dal più vicino al più lontano, sempre insoddisfatta. «Ogni fenomeno all’interno del tempo è e non è: poiché ciò che separa il suo principio dalla sua fine non è se non tempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente e relativo»[2].

L’attesa, all’interno della temporalità, si presenta come la volontà che il futuro sia come lo vogliamo. La volontà, cioè, cerca di mettere le mani sull’evento che ancora non si è presentato, spingendoci sempre oltre il momento presente. Tuttavia, una volta che l’atteso perviene, non facciamo in tempo ad afferrare la sua presenza, che subito è scivolato nel passato, lasciandoci con la stessa insoddisfazione che cercavamo di colmare.

I celebri versi di John Milton che compongono la poesia On Time presentano meravigliosamente tale condizione. Milton identifica il regno del tempo con il regno della vacuità e della falsità: il tempo divora tutto ciò che incontra e tutto ciò che afferra diviene vanità terrena e polvere. Così anche l’uomo, finché permane nella sua finitezza mondana, non può trovare alcunché dinnanzi a sé che possa colmare il vuoto prodotto dalla sua volontà. La sua attenzione si rivolgerà invano da un oggetto a un altro, ritrovandosi tra le mani solo della polvere pronta a svenire al primo soffio di vento.

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Da qui il perdurare della Volontà, la quale vedendosi sgretolare tra le dite l’oggetto fino a quel momento bramato, riprende vigore e procede verso una nuova meta. In questo consiste la vita dell’uomo, appesa a un pendolo che passa dal piacere effimero di un appagamento solo apparente al dolore di una perdita definitiva. Siamo dunque destinati ad attendere, in quanto siamo destinati a volere, in virtù del sentimento di una mancanza costitutiva, che non trova alcuna cosa del mondo adatta a colmarla. Riprendendo le parole del filosofo «finché siamo abbandonati alla spinta dei desideri, col suo perenne sperare e volere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo»[3].

Allo stesso tempo, però, solo l’essere umano può svincolarsi dalla ruota del tempo e quindi liberarsi dall’attesa del divenire. È la dimensione estetica a permettere tale liberazione, fungendo da momentaneo affrancamento dal mondo temporale, sottomesso alla volontà. Se l’attesa è sofferenza e trova la sua condizione d’esistenza nel tempo, nel momento in cui ci svincoliamo da questo, anche l’attesa dilegua. Al di là del tempo, viene meno il correlato della tensione che ci spinge all’azione, ovvero l’oggetto del nostro desiderio. Riprendendo ancora i versi di Milton:

Consumerai la tua brama, da ultimo;
L’eternità si avvicinerà salutando
Recando il bacio invisibile
[4]

Una volta che il tempo ha reso nulla tutto ciò su cui si è posato, quello che rimane è l’eternità, che giunge recando il suo bacio invisibile. La spiegazione del passaggio dal tempo all’eternità è presentata da Schopenhauer nel terzo libro del suo Mondo: «Il mondo come rappresentazione, la rappresentazione indipendente dal principio di ragione: l’idea platonica: l’oggetto dell’arte»[5].

Nella contemplazione estetica dell’opera d’arte l’uomo trova un affrancamento dal dolore dell’esistenza. Dinnanzi all’opera d’arte, in particolare quando ci abbandoniamo all’ascolto della musica, ci sciogliamo dal mondo dell’individuazione, che costringe ogni essere a coincidere con se stesso, differenziandosi da tutti gli altri.

Nella contemplazione la ruota del tempo si dissolve e si aprono le porte dell’eternità. Questo perché cessiamo di essere propriamente individui atomistici, possessori di una conoscenza delle cose solo apparente, per divenire uomini universali, o meglio, quello che Schopenhauer definisce il soggetto eterno della conoscenza. Se prima conoscevamo l’oggetto solo come motivo della volontà, mezzo per un fine, ora lo possiamo contemplare nel suo essere reale, in cui scorgiamo l’essere del mondo intero, ovvero l’Idea.

Nell’arte avviene quello che Schopenhauer definisce il miracolo per eccellenza, ovvero la perfetta identificazione tra soggetto e oggetto. «L’arte è sempre alla sua meta; ella strappa l’oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene dinnanzi a sé: […] a questo singolo ella s’arresta: ella ferma la ruota del tempo»[6].

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Se prima conoscevamo il mondo come un che di estraneo a noi a cui ci rivolgevamo con posa predatoria, ora che il tempo è dileguato, anche l’evento futuro che prima attendevamo impazienti cessa di presentarsi dinnanzi a noi. L’artista, divenuto tutt’uno con il suo oggetto artistico, può ora affermare: «Non mi serve a nulla». La spinta verso il mondo, che costituiva l’attesa, ora può trovare pace nella serenità contemplativa dello spettacolo artistico.

Come dicevamo, è propriamente la forma d’arte musicale a permettere il salto dal mondo del divenire a quello dell’eternità. La trattazione schopenhaueriana della musica prende largamente le mosse da un testo, con cui il giovane Schopenhauer è entrato per la prima volta a contatto nel 1806, dal titolo Le fantasie sull’arte dagli amici dell’arte, scritto dall’autore Wilhelm Heinrich Wackenroder.

Ciò che del testo colpisce in particolare Schopenhauer è l’esposizione della leggenda orientale del santo ignudo. Il mito narra di un santo, che passava le sue giornate all’interno di una caverna vicina allo scorrere di un ruscello. La figura mitica viene descritta come una creatura meravigliosa, che tuttavia era impossibilitata a trovare pace, perché sentiva di giorno e di notte l’incessante movimento della ruota del tempo. Soffocato fino allo stremo da profondo senso di impotenza nei confronti del vorticoso giro della ruota, che si riversava su di lui come «una cascata composta di migliaia e migliaia di onde mugghianti»[7]. Alla fine, arrivarono la musica e il canto a salvarlo dalla sua sofferenza.

È per mezzo del suono della musica, quindi, che il santo riesce a trovare conforto dall’avvicendarsi doloroso del tempo. Una volta che la nostalgia ignota, il dolore senza nome sono superati, «l’incubo è rotto. Alla figura del santo subentra una forma spirituale di angelica bellezza che si libera dalla caverna, mossa da leggera brezza per tendere le braccia colme di ardente desiderio verso il cielo»[8]. Così anche l’uomo di genio, quando abbandona il suo orecchio all’ascolto delle note musicali, può liberarsi dall’attesa piena di brama e dolore che lo incatenava al regno della Volontà e volare nel Cielo dell’eternità.

E così, lungi dal limitarsi a constatare la sofferenza che costituisce necessariamente la vita umana, Schopenhauer scorge nella musica una via di liberazione, la possibilità per l’uomo un momentaneo rilassamento dalla sua perpetua attesa del tempo futuro.

Note

[1] A. Schopenhauer, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, trad. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 226.

[2] Ivi, p. 207

[3] Ivi, p. 226

[4] J. Milton, On Time, On Time by John Milton – Poems | Academy of American Poets

[5] Ivi, p. 195

[6] Ivi, p.215

[7] W. H. Wackenroder, Phantasien über die Kunst, für die Freunde der Kunst, in Wilhelm Heinrich Wackenroder. Opere e lettere. Scritti di arte, estetica e morale in collaborazione con Ludwig Tieck, trad. La Manna Federica, ed. Bompiani, Milano 2014, p. 358-578

[8] Ivi, p. 358-578

di Lucrezia Santa Maria

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