Armonia e follia

Pause e attese dall’armonia classica a John Zorn

armonia

Attendere.

Attendere non è vano sperare.

Attendere è dietro il palco, dietro il sipario che si ha sempre un po’ timore a spostare, anche solo per uno sguardo. L’attesa che sia il tuo turno, che arrivi il momento in cui sei tu a suonare, o che ci sia il giusto tempo di attesa prima di riproporre quelle note.

La Pausa, in musica, determina una dei più bei concetti esprimibili nell’arte, è la fondamentale risposta alla proposta, il contraddittorio necessario per far sì che quella forma sia vera, umana. L’attesa è poco corrisposta, sottovalutata. L’attesa, in realtà, disegna i confini, crea davvero il momento: è l’attesa che pone le basi per le emozioni che verranno. Sarebbe da distinguere il significato di attesa o di pausa, ma cerco di agglomerare tutto in un concetto di vuoto, di involucro d’aria dalla quale poter prendere respiro.

Come è bello, quanta bellezza nel musicista che utilizza la pausa tanto quanto la nota; quanto è vera l’idea di colui che non ha bisogno di ostentare competenza ma, semplicemente, dire, respirando nel farlo. Quando è evidente la contrapposizione, la costruzione di un dualismo, di due lati e non uno, vi è un segnale forte, un contributo vero poiché instabile.

Quando si studia musica spesso si sente parlare di tensione e rilascio, intesi come due poli su cui basare costantemente l’idea musicale. Il proposito è quello di creare una sorta di sinusoide deforme e irregolare, dentro la quale i contenuti possono essere espressi in maniera non monotona, esattamente come si fa con qualsiasi tipo di linguaggio, dal parlato a quello di altre forme d’arte. Essenzialmente succede questo: si parte con un tema (con tutte le accezioni che il termine può avere), un’idea base, che si protrae aumentando il grado di tensione, di interesse, per poi concludere con quella che in musica viene definita risoluzione, cioè quel momento in cui la melodia e gli accordi tornano a essere consonanti, accomodanti.

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È importante che ci sia un su e giù costante dettato dalla necessità del compositore, utile a formare dei concetti, a raccontare delle storie. Anche nella letteratura, nel linguaggio del cinema vi sono queste idee: pensateci, nei film c’è sempre il momento, verso i due terzi dall’inizio, in cui le cose sembrano non andare bene, c’è un grado di indecisione o irresolutezza, per poi concludersi con il gran finale che porta tutto alla normalità, “e vissero tutti felici e contenti”, “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.

Questo moto ondulatorio è un paradigma evidente di ciò che viene dall’uomo, cioè quel contraddittorio costante tra il fare e il non fare, il bene e il male, la forma e il contenuto, l’attesa e la proposta, la pausa e la nota.

Ho sempre immaginato la musica come una chiara rappresentazione del mondo in forma insiemistica, una serie di cerchi più o meno concentrici o sovrapposti, a volte frattali, testimoni di un sistema complesso dalla chiarezza disarmante: la musica è un frutto degli esseri umani, li rappresenta. Si può quindi dire che possa avere simili caratteristiche a tante altre invenzioni umane. Ciò che importa è la vicinanza tra la musica e i rapporti quotidiani, vorrei dunque passare in rassegna due esempi di questo.

Il primo esempio è questo: entrando in una breve parentesi più tecnica ma non troppo, potremmo dire che un caposaldo dell’armonia classica che permette il suddetto rapporto tra musica e natura è la cadenza. Questa consiste nel susseguirsi di accordi che, come detto, portano tensione e poi risoluzione. La cosiddetta cadenza perfetta consiste nell’accordo che sta sul quinto grado della scala di riferimento, che si risolve con l’arrivo del primo grado. Mi spiego meglio:

Se il brano, come si usa dire, è in Do, significa che la scala di riferimento è quella di Do maggiore. Le sette note della scala vengono chiamate gradi nel momento in cui rappresentano sette accordi, non solo note, i quali formano i suoni della tonalità, gli accordi di quella scala. L’armonia classica ci insegna che la cadenza più forte, dunque la perfetta, è V – I, quinto – primo, Sol maggiore – Do maggiore.

Perchè mi sono spinto in digressioni sull’armonia di base? Perchè l’elargizione di alimento ha il suo tempo e bisogna attenderlo, dice l’I Ching. Perché questo, come tanti altri processi del mondo musicale, non è nient’altro che un forte richiamo al reale, uno dei numerosi suggerimenti che la musica, per vie traverse, dà, per cogliere il quotidiano, la relazione umana, il sentimento, il senso del tempo e dello spazio, i ruoli.

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L’accordo di Sol maggiore in questa descrizione rappresenta sì il momento di maggiore intensità, quindi si potrebbe dire di maggiore entropia, ma in realtà in musica viene spessissimo utilizzato come forma di attesa, di cripticismo, proprio perché crea delle basi instabili su cui attendere l’arrivo della risoluzione finale.

Un altro esempio potenzialmente interessante è la figura di un musicista americano nato a New York nel 1953, attualmente in attività. Il suo nome è John Zorn, un celebre compositore, sassofonista, arrangiatore, con un’idea di musica e stile inconfondibili. Stiamo parlando di uno dei sassofonisti più prolifici della storia, più curiosi e avanguardisti per la sua epoca. Zorn ha creato molti progetti musicali, di varia forma e genere: vorrei prendere in considerazione una delle sue idee più geniali.

Fonda una band dal nome Naked City nel 1989. La band, oltre a Zorn al sassofono, comprendeva Bill Frisell alla chitarra, Wayne Horvitz alle tastiere, Fred Frith al basso e Joey Baron alla batteria; in varie occasioni comprendeva pure il cantante Yamatsuka Eye. Il genere musicale era un miscuglio Swing, Surf-Rock, Free Jazz, Country e Thrash Metal, con elementi di Ambient e musica classica. Il gruppo era famoso per le hardcore miniatures, brevi e intense composizioni della durata di circa un minuto contenenti riferimenti a più stili musicali. Queste miniature sono letteralmente sconvolgenti, di impatto devastante, una serie di brevi brani dove nulla può minimamente essere previsto dall’ascoltatore, nulla può essere lasciato al caso dal compositore, poichè tutto pensato e scritto nota per nota: del materiale musicale inaspettato che soprattutto al primo ascolto lascia in uno stato di incredulità e interesse.

C’è da parte dei musicisti e del compositore un grande lavoro sul rapporto musica e silenzio, tensione e rilascio, attesa prima del suono: i brani durano molto poco e sfruttano spesso le chiusure secche, immediate; c’è un forte utilizzo delle dinamiche, per il quale i brani assumono una forma unica, molto simile al racconto verbale, a una discussione, a volte un litigio. In questo senso John Zorn rappresenta in maniera diretta questa contrapposizione che fonda la musica stessa. Zorn è un esponente di un linguaggio che aderisce al reale più di altri, riuscendo a portare un’atmosfera dialogica perfetta per i tempi che corrono: l’idea frenetica, sovraccaricata di impulsi e materiale, la rapidità. Essere tra il pubblico ad uno di questi concerti enfatizza il ruolo del silenzio, dell’attesa: una palese arma da fuoco.

Per concludere, direi che non importa se non ho parlato di pause, di attesa vera e propria come fosse silenzio prima del tuono, credo infatti sia importante sottolineare l’andatura, il vento, gli elementi naturali del mondo che influiscono fluidamente sul processo di vita, dando e togliendo, creando tensione e poi rilascio. In questo, la musica è un paradigma perfetto del reale. In ultima istanza, anche grazie all’armonia o ad un Zorn di passaggio si può cogliere come la musica, nelle sue contrapposizioni, nelle sue attese, sia a tutti gli effetti un’alta rappresentazione della natura.

Tutti gli esseri hanno bisogno di essere alimentati dall’alto. Ma l’elargizione di alimento ha il suo tempo e bisogna attenderlo. Questa pioggia verrà a suo tempo.

di John De Martino

Autore

  • Studia batteria jazz alla Civica di Milano. È un musicista nato, anche se per capirlo ha dovuto studiare per un anno filosofia. Ora vive praticamente nel suo box, dove si esercita e invita gli amici musicisti.

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