«La coscienza è il tramite fra ciò che è stato
e ciò che sarà, un ponte gettato
tra il passato e il futuro»
Henri Bergson
«[…] être le propre du musicien de Cinéma:
celui-ci est un “acteur de musique”,
qui souvent aimerait jouer les plus
de rôles différent possibles […]»
Michel Chion
D’abitudine concepiamo l’attesa come qualcosa di statico e immobile; se dico «attendo» voglio dire che per un po’ mi fermerò. Eppure l’attesa è cambiamento e chi attende non può star fermo e nemmeno potrebbe. È un’intuizione antica questa, dato che etimologicamente la parola «attendere» significa «tendere a». Per quanto chi attende tenti e ritenti l’immobilità, infatti, qualcosa si muoverà con lui e in lui: il tempo.
In effetti ogni attesa non è che una Durata, nel senso filosofico che a questo termine dava Henri Bergson. Il genio francese aveva capito che la nostra concezione del tempo è viziata dal modo in cui lo misuriamo. Dalle meridiane agli orologi digitali, il Tempo, che è pura qualità, l’abbiamo sempre rappresentato mediante i suoi opposti, ovvero lo Spazio e il Numero, le pure quantità. Così Crono è stato confuso con Ermes.
Per Bergson invece «Ieri» e «oggi» non sono simili a «là» e «qui». Il tempo è un cuneo di passato e presente (la punta) orientato all’avvenire. Ogni presente ha in sé tutto il passato; un po’ come se la strada percorsa fosse rimasta tutta attaccata alle suole e la divisione numerica può essere utile a cogliere il passato (cioè tempo che s’è fatto materia) ma è inutile per capire il presente, che è movimento, o il futuro, che è apertura alla differenza. La misura numerica del tempo non ha senso perché ne fa perdere le peculiarità.
È noto che se ci si diverte il tempo si contrae e se ci s’annoia si dilata. Bergson, colta questa specificità del tempo, capisce che una qualità è divisa e separata solo da altre qualità e concepisce la Durata come una messa in relazione fra differenze, come misura singolare d’un mutamento. Non solo ogni attesa è una Durata, ma ogni Durata è in sé attesa. Devo attendere che la zolletta di zucchero si sciolga per carpirne la Durata.
Ne deriva che l’attendere sia una sorta di «movimento sul posto» di un soggetto che tende a una differenza. Differenza (il nuovo, il futuro) che è assente ma che, in qualche modo, è anche presenza; infatti s’attende (cioè si tende a) qualcosa proprio perché s’è coscienti che qualcosa non c’è, perché ce ne si para innanzi il fantasma. Se s’attende, insomma, si ha coscienza della presenza di un’assenza.
«Cos’è rapinare una banca a paragone del fondarla?» si domandava Brecht; ecco, se è vero che il tempo è denaro allora la differenza ne è il banchiere brechtiano, perché cos’è mai l’attendere se non aspettare un cambiamento, ovvero ciò che s’accaparrerà il presente? L’attesa del futuro può essere benevola o malevola (a seconda di quanto amiamo il presente) ma al cambiamento è sempre bene prepararsi (come ci insegna l’esagramma n. 5). Se attendete, insomma, mettete «mano alla fondina».
In effetti chi attende è una specie di duellante e non c’è niente come un duello in un western per comprendere in un attimo cosa sia un’attesa o una durata. Anche perché il cinema con la questione dell’attesa ha dovuto farci i conti fin dal momento in cui registi e montatori si son domandati: «quando sarà il momento di presentare una nuova immagine?». Per Bergson la risposta è semplice: ogni Durata filmica ha una sua qualità, mettetela in relazione con un’altra Durata qualitativa e lo capirete.
In termini pratici e meno astratti quest’operazione al cinema s’è sempre fatta grazie alla musica. La musica ci offre direttamente un ritmo e un’immagine sonora del tempo che un film invece non può che darci in modo indiretto, in genere attraverso il montaggio. Per questo la Durata e le qualità ritmiche di un brano musicale sono spesso state utilizzate da registi e montatori per cogliere e farci cogliere la tempistica interna dell’immagine in movimento.
Dal punto di vista del timing un film è spesso l’esito di un triello, d’uno stallo alla messicana, fra il regista o il montatore, lo spettatore e la musicalità e il ritmo di quella scena filmica; un triello fra il presente filmico (cioè quel che si visto fin’ora) il «movimento sul posto» (ovvero l’attesa di una nuova scena) e, infine, il futuro filmico (ovvero la scena seguente): presenza, presenza di un’assenza e assenza; tutti all’appello al O.K. Corral della Durata filmica.
Il duello è quindi come una metafora dell’attesa e della Durata di una scena? Non solo. In molti film è sia un esercizio tanto di stile sia un espediente utilizzato dai registi per educare lo spettatore all’importanza del tempo e dell’attesa nei film.
Se è nelle scene di duello western che il cinema s’è più esercitato a porre in questione il timing è, guarda caso, nelle scene di duello che la musica s’è rivelata la vera unità di misura della Durata filmica. Tutto ciò è particolarmente evidente nei western all’italiana di Sergio Leone (regista ossessionato dal tempo). Basterebbe pensare al Carillon di Ennio Morricone nella scena finale di Per qualche dollaro in più, oppure immaginare il famoso triello de Il buono, il brutto e il cattivo senza musica.
Soprattutto però, per capire questa relazione tra musica e durata, bisogna guardare a come è inserita l’armonica nella scena iniziale di C’era una volta il West, brano d’antologia sull’attesa filmica per antonomasia. Qui la musicalità è data da suoni diegetici (le pale d’un mulino, il cigolare dei cardini, i passi ecc.) finché al fischio del treno si sostituisce un’armonica invisibile che introduce il protagonista che, con un espediente già utilizzato da Fritz Lang in M – Il mostro di Düsseldorf, si presenta con la musica prima che in immagine (alla fine si capirà perché).
Il che aiuta a comprendere un elemento spesso sottovalutato nell’analisi filmica: il fatto che la musica sia una sorta di «personaggio acusmatico». Abbiamo un acusma ogni volta che suoni, musica o voce siano scollegati da chi li emette. Sono in sé acusmatici Tv, Radio e tutti i dispositivi elettronici di riproduzione musicale (comprese le chitarre elettriche); al cinema sono acusmatiche le musiche della colonna sonora (se non diegetiche) e la voce off.
La grandezza di Morricone sta nel modo in cui assieme a Leone ha introdotto e usato l’acusmaticità nelle partiture per film. Si pensi all’incipit di Per qualche dollaro in più:unuomo a cavallo fischietta nel deserto; in realtà non fischietta lui, ma il killer invisibile che gli spara. L’acusma «misura» la scena. Soprattutto c’è poi la scelta di Morricone di usare il registro Pop, genere contemporaneo acusmatico per eccellenza, con delle chitarre elettriche stile Shadows. Del resto, prima dei western Morricone già arrangiava successi commerciali. Così, quando nella musica da film (con l’eccezione dei musical)la faceva ancora da padrone lo stile classico sinfonico (come del resto fa sempre ancora oggi e basti pensare ai cinque Oscar al grande J. T. Williams) Morricone invece esaltava e portava al successo la forma canzone (La ballata di Sacco e Vanzetti) oppure il refrain ossessivo (Indagine su un cittadino…) oppure ancora gli strumenti etnici (scacciapensieri nei western, flauti di Pan in Mission) cioè un po’ tutta la musica popolare. Esemplari, in questo senso, i titoli di testa di Uccellacci e uccellini (cantati da Modugno) che integrano acusmaticamente i titoli nel film suggerendo, inoltre, che il film sia il racconto d’un cantastorie.
Michel Chion, grande studioso di musica, afferma che ogni compositore di cinema è una specie di «attore musicale» (attore invisibile) che interpreta un personaggio sonoro. Nessuno più di Morricone ha reso evidente questo aspetto. I suoi personaggi invisibili e le sue sperimentazioni hanno dato il ritmo e la misura dell’attesa filmica di tantissimi film, non solo western. È un peccato che l’Accademy sia rimasta a attendere l’ennesimo acusma alla messicana per assegnargli un Oscar.