Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)
CAPITOLO IV – Prelest [прелесть]
Arrivo a Mosca molto tardi e rischio subito di perdermi nell’arabesco di metropolitane, prima di arrivare a Trubnaya. Cammino verso sud, di fianco a un grande “ресторан” etnico con interni da mausoleo egizio finché trovo un piccolo tunnel che mi scarica di fronte all’albergo. Il ragazzone all’ingresso, con quell’atteggiamento atono che da queste parti non è mai ben imputabile a boria o noia vive un piccolo decollo emotivo quando gli dico di avere il passaporto ma non la Immigration Card. Compone al volo un numero di telefono, mentre con l’altra mano mi chiede indietro la carta per ridarmi i soldi. Io ritraggo la mia e dico:
«Dove posso andare a dormire?».
«Non lo so», risponde scongelando ancora un po’ gli occhi, «nessun hotel in Russia può ospitarla senza quel documento. Non so come abbia fatto a Pietroburgo».
«Un momento», replico secco mentre prego l’immaginazione, la stessa cui spesso chiedo di rivelarsi, di oscurarmi il pensiero di cosa significhi dormire per strada nella periferia moscovita. Apro la tasca superiore dello zaino, cavo fuori cartacce come paglia dal fienile e la scarico sul bancone.
«Eccola!», festeggia il menscevico vinto dal mucchietto un piccolo tagliando reduce da un origami acheropita. «Wow, man!», commenta poi sbuffando sollievo. Ero riuscito a scuotere l’atarassia di quel boiardo, a quanto pareva. Fra le squame di carta, ancora lì ad agitarsi sul tavolo come il katsuobushi dei piatti giapponesi, intravidi la lettera che mi aveva scritto Sasha prima di salutarmi.
Il giorno dopo, la marcia forzata che mi impongo sempre di fronte al banchetto di un nuovo luogo da visitare, in quel caldo giorno di agosto, si è tutta sfogata intorno al Cremlino. Dal giardino nei pressi del Grotto, alla cinta muraria attorno alla tomba di Lenin e alla Chiesa del Salvatore, sino alla parte interna imbottita di cannoni, i miei movimenti in tutte le direzioni hanno avvolto quella residenza zarista, sulle cui vette spunta ora una stella rossa al posto dell’aquila bicipite, come fosse un pacco per un regalo speciale.
Nel cuore della piazza interiore, perso fra le forme di ogni tempo della Chiesa dell’Annunciazione, dell’Arcangelo Michele e della Dormizione, fra richiami ortodossi e mediorientali, mi sentivo sperso come se, al momento di chiudere quell’immenso pacco, un lembo che doveva star sopra si trovasse invece sotto, lasciandomi indeciso su che nodo inventarmi per dare un senso a quella grande illusione religiosa cui forse non partecipavo. L’abbaglio mi ha accompagnato fino all’indomani, fra le stanze del museo Tret’jakov. Che emozione vedere da lontano un dipinto di Nesterov in cui, pur sfocato dalla miopia, avevo riconosciuto il ritratto di Florenskij che passeggia assieme a Bulgakov. E di fronte a un dipinto di Lagorio, il singulto di un piccolo ricordo di quando da piccolo nella campagna dell’Agro Pontino mi portavano alla fonte a prendere l’acqua. Il contrappunto fra le immagini intorno a me e piccole storie antiche o irreali era così affamato, quasi da non potersi saziare del volume di una tela.
Guardavo con ingordigia le forme pingui, i mezzi busti in maiolica modellati da Vrübel su figure di ninfe e demòni, o i volti scavati nel legno da uno scultore di nome Konenkov. Uno, in particolare, che ritrae un giovane uomo coi baffi e gli occhi convessi. Il titolo: “молодой слепой”, veniva tradotto con Blind man. Il pensiero a Sasha, alla sua afasia e alla lettera atterrò su una strana sensazione di sollievo all’idea di potersi liberare un istante della vista, poter ricevere magari una bastonata sulla nuca abbastanza forte da far rotolare a terra i bulbi oculari come due biglie di vetro. Libero dall’esubero delle cose, avrei ballato a tentoni fra quelle sale piene di meraviglie eclissate dalla follia, come nella poesia che avevo scritto per Sasha.
Alla fine della visita, dopo un pranzo memorabile a base di zuppa di pasta profumata all’aneto, il mio amore per le forme ha rasentato il culto per le immagini in seguito a un minuscolo episodio. Nella sala con le opere di Rubliev, quando la guida si è avvicinata a una delle sue icone per descriverla alla comitiva di turisti, lo ha evocato: “San Andrej Rubliev”, con il corpo chino, segnandosi la croce dalla fronte giù fino al busto. Eruppe in me questa fantasia: un Cristo in miniatura sta crocifisso dietro la nuca di qualcuno, nella posa languida e scivolosa già vista una volta in un Antonello da Messina, trasformata ora in una presenza sofferente e sinistra, quasi l’incarnazione della nostra coscienza inchiodata lì, sul retro della testa. Impalata alla mente. Quella era l’icona giusta per il racconto di Sasha. Ora dovevo trovare qualcuno capace di disegnarmela, ma il fato si è tirato indietro, lasciando che la casella vuota venisse occupata dall’intraprendenza.
C’era una ragazza nell’ostello di Mosca. Darina. Alta, magra, un piercing al naso. Nelle chiacchiere del giorno prima ci siamo scoperti devoti entrambi del violoncello: lo suonavamo da piccoli, per interromperlo e poi riprenderlo da pochi anni. Stessa storia. Ecco nato fra noi un momento di esaltazione. Breve, di certo, ma Darina ha fatto in tempo a immortalarlo con il disegno di un violoncello sulla lavagna della cucina. Pensando fosse lei quella giusta, tornavo adesso a casa per chiederle di disegnare, ma avrei scoeprto che era partita subito dopo pranzo. Addio, Darina.
Per salvare la mia sciocca illusione, andai in giro intorno al quartiere del Bolshoy come un setter in pieno fiuto, nonostante il raffreddore. Mi aiutava almeno a pronunciare meglio il “sì” russo. Incontrai solo un fotografo che, senza bisogno d’altro che di un mio cenno di saluto, estrasse da un astuccio una custodia con piccole immagini dei suoi scatti. Affatto brutte, alcune. Una che mostrava le gocce di pioggia sull’obiettivo mi ricordava i lavori di un fotografo russo. Eduard Gordeev. Purtroppo non era ciò di cui andavo in caccia.
Quasi deluso mi arresi a rivolgermi a uno dei disegnatori da strada, cui dovetti dare qualche rublo in più per fargli disegnare non un soggetto reale e posato docilmente di fronte a sé, così com’era abituato, ma su commissione della mia fantasia e forse anche sulla sfiducia nella mia capacità di esprimermi in russo. Confesso che ne venne fuori un disegno molto convincente. Ero soddisfatto, ma se fossi ancora così illuso dal fato, non lo avrei saputo dire in quel momento.
In fondo alla Nikolskaya, prima di arrivare al Cremlino, si sfiora la Chiesa di Kazan. È lì che il mattino dopo sono stato raggiunto dai canti della messa. Una volta dentro, si ha lo stesso shock provocato dal Golfo Mistico: le coriste stanno dietro il transetto nascoste da un Cristo ligneo, mentre gli officianti maschi che intonano la preghiera attaccano dal nascondiglio dell’iconostasi. La musica promana dal nulla, instillando lo stesso sconvolgimento cui Schopenhauer pensava figurandosi il nirvana e ricreando il ribaltamento per il quale cosiddetto “Nulla” divenne il posto dove mi trovavo io e il luogo ignoto dal quale uscivano quelle voci coincideva con il “Tutto”.
Visti da vicino, i diaconi con la lunga barba rimanevano interessanti, ma facevano meno effetto. L’incanto però non si sciolse del tutto e mi accompagnò fino a un’altra chiesa lungo la Lubyanka. All’interno non c’era quasi nessuno. I miei passi rimbombarono al centro della navata come i colpi inferti dai poliziotti in Arancia Meccanica.
Fuori dalla chiesa trovo uno spiazzo che ospita quello che ora mi sembrava a tutti gli effetti un monastero. Solo una ciocca di selciato sotto il ramo di un albero rimaneva lontana dal sole. Mi sono seduto lì sotto a mangiare un pane alla cannella leggendo qualche pagina di Oblomov. In quel momento vedo arrivare un ragazzo con la camicia, lo zaino su una spalla, i capelli abbastanza lunghi, gli occhi chiari, piuttosto incavati e molto espressivi. Sembrava rapito anche lui dalla vista della chiesa. Dopo essere rimasto di fronte a guardarla, prese a girarci intorno un paio di volte. Sentivo che non lontano da me gemmava un’occasione che rischiavo di perdere. Lui si allontanava e io non mi ero ancora convinto a parlarci, ma la piccola badante che è in me mi aveva appena lasciato il compito di salutarlo, qualora avesse completato per la seconda volta la sua ronda attorno alla chiesa. Per un attimo sembrava sparito, tanto che tornai da Oblomov senza accorgermi di lui se non quando invase di nuovo la ciocca d’ombra dove stavo acquartierato.
«Are you russian?», sbottò la badante dentro di me.
Lui scuote la testa. Si avvicina. Punta un ditone e mormora possibilista.
«Français?»… mais oui!
Gli sento così aggiungere: «Je… un peu», mentre mima con la mano qualcosa di piccino e ingrandisce intanto la dimensione del sorriso.
Dargliela, quella mano, mi conferma che il ditone era solo l’estremità di un badile a cinque punte. Scopro che fa il carpentiere, la sua specialità sono: izbe e chiese in legno. Le seconde sono il motivo per cui il fisico fibroso e uso alla fatica stava accucciato quel giorno in un’elegante camicia: Nikolai, così disse di chiamarsi, aveva un appuntamento con il suddiacono per definire i dettagli di un progetto per una piccola chiesa poco fuori Mosca.
D’impulso mi propone di andare con lui all’appuntamento, promesso che m’avrebbe poi accompagnato per la città. Non faccio in tempo a chiedergli il quando e dove di quell’incontro con il prelato, né quasi lui a indicarsi i piedi e mormorare maintenant,che il suo ditone prese la tangente fin oltre le mie spalle per intersecare la figura in nero di un essere capace di farmi scansare sorpreso.
Quanto sarà stato giovane l’uomo nascosto dentro quel suddiacono fra le pieghe di una divisa millenaria? Occhi chiari, sguardo vacuo e piccoli movimenti nervosi delle mani dietro una maschera lunga e scura, cappello e folto antistress sul mento a forma di barba. Dopo una stretta di mano piena di impegno, senza stupirsi né della mia presenza né del fatto che non accompagnassi il mio cenno di saluto con parola alcuna, si rivolse direttamente a Nikolai quasi bisbigliando, per poi voltarsi e allungare il passo. Lui gli tenne dietro mimandomi un incoraggiamento con il suo badile di carne.
Senza pensare, camminai. Camminai oltre la cinta del monastero, camminai oltre una porta e poi dentro alcuni uffici, fino a una stanza in cui trovammo già in piedi un ragazzo alto, capelli corti, sguardo furbo o stupido. Con noi entrò anche un uomo alto e largo, con il viso astuto e protervo. Ci fu un rapido rondò di strette di mano poi, come nel gioco della sedia, tutti guadagnarono un posto. Io e Nikolai sconfitti e raggiungemmo la nostra massa a riposo spartendo un divanetto. Nikolai, in apnea nel suo ruolo, si sporse subito in avanti azzeccando al secondo tentativo sequenze di comodità artificiali per fingersi a suo agio.
Io, dal mio non luogo di testimone, accomodato nella fortuna di sembrare invisibile agli occhi di tutti, mi allungai sul divano composto ma rilassato. Solo nel muovermi il suddiacono dilatò un’occhiata su di me, che le sue due metà per un attimo quasi non si scollavano. Mentre l’officiante cercava di sfinire nello sguardo corrucciato torva imperturbabilità, il ragazzo dentro di lui trovava nel suo stesso acciglio la giusta espressione di curiosità verso di me. Il terzo invece, che passò tutto il tempo a condurre la conversazione controllando documenti, visionando piantine e scrutando tabulati, sembrava proprio l’uomo tutto d’un pezzo.
Da molto tempo non tenevo accesa la luce così a lungo sulla radiografia umana: barba e capelli curati, non leziosi, eccetto un ciuffo in cima che poi si pentiva subito a scalare. Aveva appreso come non dargli troppa importanza. Una camicia rinnegava l’uniforme per non sembrare un impiegato né insieme troppo stravagante da amare i propri interessi più dell’ufficio, ed essa scontornava bene le grosse spalle e altrettanto l’addome bombato di chi non ha più modo di allenarsi da quando lavora troppo. I suoi occhi avrebbero meritato un ritratto, lo sguardo invece uno schiaffo, le labbra un frutto da mordere e il profilo del naso una goccia di sudore. Mi sembrò di capire che fra lui e Nikolai fosse nata una discussione su alcuni dettagli tecnici. Il terzo uomo sembrava obiettare qualcosa armato di principi, sostenuto dall’autorità del diacono che citava con sguardi marginali, mentre questi sempre affaticato con l’adesivo delle sue personalità, mostrava una ieratica acquiescenza che recalcitrava succube.
Nikolai, dal canto suo, non mostrava nulla di affettato. Le sue obiezioni ritmate da pacche di dorso sulla mano opposta incitavano: Zu den Sachen selbst!… eppure, quanta cauta riverenza sul suo viso. Si vedeva un’indole coraggiosa che mal collaborava col nervosismo causato dall’incontro. Abituato a non conoscere paura sembrava spiazzato di fronte a una sensazione ignota come lo stress, indovinavo ora il motivo per cui aveva chiesto la mia compagnia.
La trattativa pareva interminabile e rendeva sempre più surreale la mia muta presenza, impralinata com’era nella mia espressione atona con la quale cercavo di reggere il gioco a Nikolai. Alla fine, superata l’ora di pranzo, il summit finì in un’ultima kalinka di strette di mano e bisbigli al suddiacono. Una volta rimasti di nuovo in due, Nikolai mi chiese scusa e io per rassicurarlo gli raccontai alcuni dei moventi “letterari” che mi portavano in Russia e che tramutavano per me quell’apparente ora di noia appena trascorsa in un’autentica miniera di zinco. Su Nikolai quella prospettiva diede la stura a una serie di accenni a opinioni personali, con allegato il rinvio a un approfondimento nel corso di quella giornata che sembrava entusiasta di trascorrere insieme.
C’era il sole, le oblaka riposavano altrove e il vento sostava forse a Pietroburgo. La Piazza rossa si tingeva di giallo, le gialle cupole delle chiese d’oro intenso e l’oro sulle icone al loro interno si ambrava sotto i riflessi della luce inghiottita dalle vetrate. La nostra passeggiata divenne presto una marcia al piccolo trotto, dopo che i giorni scorsi a girare per Mosca e Pietroburgo avevano disseppellito in me la passione per le camminate, senza contare che a Nikolai la fatica non era stata forse mai insegnata. Quando gli chiesi se avesse mangiato, rispose che nei giorni in cui non lavorava era difficile gli venisse fame. In seguito, parlando di lavoro, lodò l’attività indefessa degli operai uzbeki rispetto a quella di russi e ucraini, non certo delle mammole.
Per Nikolai quell’appuntamento di lavoro era l’ultimo prima dell’estate. Il giorno dopo sarebbe andato in Francia con la famiglia per due settimane, avrebbe visto Parigi. Ripensai a Diane e alla Strega di Endor. Gli chiesi poi della sua famiglia, ma lui depistò di nuovo verso il lavoro dicendo che sua moglie era una donna molto intelligente e che non era facile vivere con lui. Gli chiesi come mai e lui rispose che amava il suo mestiere più della famiglia. Sua moglie l’aveva capito. Da lì è partito a briglia sciolta verso la sua passione per le costruzioni in legno: andava personalmente in Siberia a scegliere materiali come larice e cedro per costruire le izba e si offerse addirittura di portarmi con lui alla prima occasione. Superando la Cattedrale sul Sangue versato, senza oltrepassare il ponte, deviammo verso un piccolo parco finché ammisi il bisogno di una sosta.
Seduti su una panchina, la mente di Nikolai aumentò le proprie falcate per compensare il riposo immeritato delle gambe. Ritrovando i fili interrotti dei vari accenni alla sua vita come una ragazza scova le doppie punte in fondo ai capelli, uno di questi mi passò attraverso con una domanda sulla mia attività di scrittore, Nikolai era interessatissimo. Chissà perché, non ritenni necessario dirgli del gioco di metamorfosi fra disegni e racconti, ma gli rivelai di voler sfruttare le tappe della transiberiana come appuntamenti in cui raccontare o far tramandare storie diverse collegate fra loro. A quel punto lui mi rivelò che la madre era una scrittrice e suo padre era stato giornalista. Tutta la sua famiglia, per la verità, svolgeva attività letteraria e lui stesso sapeva il francese per gli studi di letteratura in università.
«Come mai non hai seguito quel mestiere?»
Sradicando di nuovo i badili come di fronte al suddiacono, lui mi fece capire che preferiva fare qualcosa di pratico. Passando più tardi per una grande libreria mi mostrò orgoglioso i romanzi di sua madre esposti sullo scaffale. Notai che si trovavano nella sezione di letteratura religiosa. Quella passeggiata con Nikolai sembrava una di quelle lungo il mare a ridosso della rena, dove la sabbia resta come melma tiepida e fresca sotto i rintocchi delle onde, i piedi trovano il morbido sotto di loro immergendosi e poi denso nel proseguire il passo, quasi a voler sostare un istante di più pur nel timore di affondare, mentre il fiato a denti stretti della risacca che inspira l’onda successiva non rende enigmatica la predizione della sua stessa durata. La prima onda, per Nikolai, era stata l’appuntamento di quella mattina, piena dell’inquietudine di chi entra in acqua e teme di trovarla torbida, prima di sapere dove si poseranno i piedi. La seconda invece era il pensiero del viaggio a Parigi l’indomani, un passo verso l’acqua più limpida ma anche fonda e ignota.
Su quel momento insieme, invece, si sgombrava ancora una porzione di fondale, già puro ma ancora accessibile, e come quando trasposti dalla corrente contraria che promette il ritorno dell’onda, puntiamo le caviglie nella sabbia sfruttando la sua consistenza, così Nikolai cercava l’arresto nella densità di un tempo schiacciato e infinito nel quale io, la sua sabbia, ero sabbia di una clessidra sventrata che vomita l’eternità di un paese fuori dal suo mondo.
Per questo irreale e realistico motivo mi propose allora di stare ancora insieme e di mangiare qualcosa fuori. Di fronte a un vascello di carni galleggianti su un abisso di verdure grigliate sopra una chiglia di tocchi di pollo sovrastata da un tre alberi di spiedini di manzo, Nikolai affondava il timone dei baffi in un piccolo golfo di limonata cinta da una costa di vetro. Dopo aver atteso a lungo la giocata del mio asso col rischio di bruciarmelo, giunto alle prese finali sapevo che a non intavolarlo ora la sequenza delle mie storie avrebbe fallito il tre di napola e non avrebbe proseguito la serie. Così impegnai sul tavolo la mia atout: il disegno dell’artista di strada. Anche Nikolai fu coinvolto nel mio gioco, un gioco che spiegato man mano gettò luci e ombre sul Cristo crocifisso dietro la nuca, così come l’avevo immaginato: sconcertato e capovolto se visto dalla mia posizione, come un San Pietro indegno di misurarsi con un compito più grande di lui.
«Sembra la storia della mia famiglia», commentò Nikolai dopo aver fissato il disegno e rimesso mano al timone nell’istmo di limonata per non andare alla deriva mentre doppiava i suoi ricordi. «Mio padre faceva il giornalista, ma poi ha intrapreso la carriera ecclesiastica. Adesso è prelato di una chiesa qui a Mosca».
Ci eravamo passati accanto quel pomeriggio. Solo ora intuivo che non ci era voluto entrare apposta. Mi spiegò anche il motivo.
«Da piccolo avevo cominciato anch’io a officiare alla messa, partecipavo anche ai collegi clericali».
«Poi?», azzardai mentre lui mi lasciò veleggiare in solitaria sui resti di carne. La piccola maratona del pomeriggio non era durata abbastanza da giustificare la sua fame.
«Poi basta. Ho avuto un periodo difficile, non ero più sicuro di niente».
«E ora?», replicai limitandomi a palleggiare l’iniziativa.
«Ormai penso che una cosa sia la Chiesa, Dio un’altra».
Di lì, Nikolai si sgravò di alcuni retroscena con la circospezione di chi butta nel cassonetto un oggetto di cui non conosce il materiale. Raccontò del fatto che quelle chiese in legno che spesso gli venivano commissionate in campagna in molti casi erano “accompagnate” da una sauna o altri edifici molto secolari e non tanto secondari, a quanto pareva. Era proprio di una sauna che s’era tanto discusso quella mattina.
Mi raccontò poi del legame fra suo padre e il diacono Tichon, a sua volta in stretta amicizia con Putin, cui Nikolai aveva stretto ben tre volte la mano nella propria vita. Infine ricordò di suo padre il cambiamento intervenuto nel corso degli anni, da un’autentica vocazione spirituale all’affaccendarsi temporale, talvolta ambiguo e decisivo nella scelta di Nikolai verso l’abbandono della carriera ecclesiastica, per mettere le mani sul legno a testa bassa.
«Dividiamo un dolce, ti va?», chiese lui alzando ora quella stessa testa dal legno e dai pensieri. Titubanza di prammatica prima di acconsentire. Nella frase che rivolse alla cameriera avevo percepito la parola “два”, infatti i dessert che ci furono serviti erano due. Io lo guardai puritano, lui finto cirenaico, poi ci incontrammo nel vizio, nell’etica, nell’humanitas. Poco dopo tirò fuori dal suo pacchetto una delle due ultime sigarette. Me la offrì. Estrassi dal mio frigorifero russo una parola tenuta in conserva da qualche giorno.
«Prelest!».
Lui mi guarda stranito. Io ripeto.
«Ah, “Preliest”», corregge di pronuncia.
«Sì», dissi, «è vero che può significare anche delusione religiosa?».
Ci pensa un po’, poi risponde: «Di solito vuol dire “bellezza”, forse meglio charm. Però in ambito religioso… sì, è una disillusione spirituale. Dove l’hai imparato».
«Leggendo Florenskij», avrebbe colto di sicuro, «volevo usarlo per uno dei capitoli dei miei racconti».
«Credo che per descrivere la mia famiglia sia perfetto», sospirò risvegliando l’ultima sigaretta del pacchetto.
«Ti vorrei chiedere un’ultima cosa», aggiunsi al momento del conto che si ostinò di pagare una volta superato il breve imbarazzo, come un dosso di cui abbiamo già visto il simbolo su un cartello di avviso qualche centinaio di metri prima.
«Dimmi».
«C’è un episodio in particolare che ricordi legato alla tua… delusione religiosa?».
Speravo di concludere il mio capitolo su Nikolai con un racconto avvilente, persino scomodo magari, che già nel pomeriggio mi aveva parlato di un direttore di banca che anni prima gli aveva commissionato una chiesa privata. In Russia accade sovente che novelli Scrovegni si facciano erigere piccoli templi ortodossi personali. Peccato che il preclaro banchiere l’avesse poi pagato in nero.
«Un direttore di banca!», ripeté di nuovo incredulo.
All’esito di una mia grande illusione sui richiami del fato, fra contrappunti di coincidenze racchiusi nella grave nota di profonda prelest,ciò che mi confidò infine il mio nuovo amico al termine della serata nel segno della carne grigliata e della transustanseazione del mio disegno, epilogo di una giornata meritoria di parentesi dal tempo, non fu un autentico racconto come speravo, quanto uno di quei dettagli su cui si potrebbe scrivere un romanzo intero – e perciò tanto più inutile – da collocarsi durante un conciliabolo fra esponenti del clero moscovita, all’epoca il cui il giovane Nikolai era ancora chierico. Si discuteva della possibilità di detassare le entrate dell’ecclesia, per la qual cosa i presenti votarono a maggioranza per l’introduzione della formula di donazione all’atto della vendita di oggetti sacri all’interno dei templi. La vendita ovviamente cessava di considerarsi tale.
Nikolai era indignato per la freddezza con cui i preti valutavano i mezzi di schivare il fisco. Guardava verso suo padre sperando vi fosse qualche dissenziente, ma trovò in lui la tunica, il cappello, la barba e non già più il viso.
Mentre Nikolai finiva di raccontare, ero tornato mente e corpo ai bagni del museo Tretjakov, dove il giorno prima avevo contemplato una secchiata di ghiaccio rovesciata nell’orinatoio. Uno zampillo bollente e acido di prelest riprese a colare su quella piccola montagna di cristallo, tingendola di oro sacro e sciogliendola ancora…
– Amore a strisce –
Torace gabbia,
mani manette,
testa secondino,
felicità ora d’aria.
Ricordi ergastolo,
amore a strisce.
Un’anima,
alla finestra.
Sulla finestra strisce
e di buio sui vestiti
stesi nudi.
Nudo sdraiato.
Si accoppiano i pensieri
con le cimici per terra.
Giovinezza che indovina ancora
figure sui muri nelle crepe.
Un vecchio d’intonaco,
decrepito mi guarda.
Dimentica poesie.
Ricorda poesie dimenticate.
di Federico Filippo Fagotto
Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, quinto, il sesto, il settimo capitolo e l’epilogo.