OBLAKA – I racconti del realismo magico – Capitolo I


Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)

Oblaka Vestnik

CAPITOLO I – Vestnik [вестник]

Le nuvole più belle che abbia mai visto!

Bisbigliavo riempiendo e svuotando il cucchiaio dalla ciotola di coccio, almeno due o tre volte prima di portarlo in bocca. Stavo anche per comprarlo un cucchiaio, di rame stavolta, sulla bancarella ai giardini dell’Ermitage, di fianco a vecchie stoviglie incise.

Senza concludere l’affare ho fatto due passi. Qualche metro più in là su un’altra bancarella gli stessi cucchiai. Deluso, feci ancora qualche metro, così che la Neva debuttasse con le sue acque ammaestrate dal vento nel golfo di Pietroburgo, mentre il suo maestro soffiava sulle nuvole per raffreddarle. Da fuori scappavano, si gonfiavano dentro, scoppiate si impastavano in ricette nuove, così il mio cucchiaio mestolava in cerca di ricordi sul fondo di coccio.

«Questo è l’ultimo posto», gli disse la cameriera indicandomi accanto, «se il signore acconsente a dividere il tavolo», e stavolta indicò me.

«À partager», ci mise in coda il cliente appena entrato, in buon francese.

«Pozhaluysta», feci io.

«Ah, ma lei parla russo!», esclamò accomodandosi, mentre scrutava il mio volto.

«Non più del francese», stentai l’accento sulle note della performance.

«Mais, c’est dommage!».

Si servì un sorso di kvas senza averlo ancora ordinato.

«Vuole anche un po’ di questo?», gli allungai il mio amato cucchiaio, non ero certo avaro.

«No, conosco quella roba. Vengo spesso qui al Rus-Zabava… e ancora non mi riservano un tavolo!», l’ultima frase ovviamente ad alta voce, «mi deve scusare, comunque», riprese, «l’ho interrotta».

«Di nulla. Ho quasi finito». Per convincerlo, mi portai il cucchiaio in bocca senza rigirarlo nemmeno una volta. Che bravo.

«No, intendo dire… che stava pensando!».

«Non esageriamo».

«Se parlava sottovoce».

«Appunto, stavo solo…».

«Solo?».

«Ritrovando…».

«Solo ritrovando?».

«Immagini!».

Pausa. Sguardo. Tacita richiesta fra due occhi di puro assenzio, ammalianti ma non come il vino o quei liquori poco gradati di cui ci si inebria poco a poco. Alcol puro. Sbattono le palpebre e da astemio ti fanno ubriaco.

«Delle cose che ho visto oggi», aggiunsi sperando di poterlo accontentare con un piccolo sorso.

«Per esempio?», disse alzando col sopracciglio il vento appena corso in cielo.

«L’armeria, la Statua del Cavaliere». Presi il tono da lista della spesa. Non c’è niente di più noioso del turista.

«Eppure lei diceva sottovoce una parola… oblaka!».

Non c’era cascato.

«Sì, c’erano anche le nuvole», dissi con sufficienza in aggiunta a un sorso dal bicchiere di kvas, sempre il mio.

«E perché in russo?».

«Lei non ha esordito in francese, poco fa?».

«Per farmi capire».

«Non credo. Lo ha fatto perché… è più bello!».

«E anche oblaka lo è?».

Annuisco.

«Non ci avevo mai pensato! Mi dica: c’è di più?».

La cameriera gli porta intanto un piatto di ravioli. Lui non li degna e insiste: «Quelle forse non erano nuvole normali, dico bene?».

Pur di non finire la sua frase, sto zitto.

«Le più belle mai viste… così diceva!», aggiunse chiamando sull’attenti anche il secondo sopracciglio, per lasciarmi la parola.

Non avevo voglia di mentire, ma neanche di rispondere. Cosa voleva da me questo russo mezzo francese così indiscreto, forse a causa del peggior vizio dei pietroburghesi, cioè la noia. Anch’io mi annoio. A chiacchiere, però. Forse per questo faccio lo scrittore.

«Lo chiedo perché sa, io faccio lo scrittore», esclama.

La cameriera portò ancora del kvas e lui ci si bagnò subito le labbra, per insaporire quella sua confessione estemporanea.

«Davvero?!», reagii d’impeto.

«Non mi dica! Anche lei?…».

«No, io…».

«Massì che l’ho scoperta, ammetta!».

«Mah, ogni tanto».

«Ah, di mestiere proprio!». Quello sconosciuto aveva persino il fiuto dello scrittore. «No perché sa, io solo per piacere».

«Questo vale anche per me», dissi ritrovando la calma e segnando finalmente un punto dalla mia.

«Coraggio, allora!», aggiunse per riaprire la partita, «mi dica di quelle nuvole».

«Ma le avrà viste anche lei, no?».

«Non ho visto le sue…».

Prima un sorso di kvas, per sbucciare la pellicola dei ricordi, poi un altro per svitare il filtro del linguaggio.

«Stavano al di sopra del fiume, là sulla Neva, come un nido intorno al sole da cui uova di gas si schiudevano imparando a volare».

«Oh!… questa l’ha scritta spero».

«Inutile cercare di descriverle, le nuvole. Le guardi e loro cambiano forma».

Come i nostri sentimenti.

«Cosa c’è sotto?», azzardò il mio ospite, cambiando tono e scostando i ravioli con la forchetta alla ricerca del fondo nel piatto.

«Sotto?».

«Une femme?».

È riuscito a zittirmi, finalmente.

«Proprio non riesco a descriverla», mi vendico parlandone.

«È per un romanzo o è reale?».

«Lei è uno scrittore, non mi deve fare questa domanda».

L’ospite fece intanto cenno alla cameriera di togliere il piatto, negando la grazia agli ultimi tre ravioli. «Questa donna è come una nuvola, quindi… la “nuvola della testimonianza”», citò aggrappandosi alla sua recente qualifica di scrittore.

«Non ha capito», la mia risposta era già pronta, «è l’immagine di lei nella mia testa che non sta ferma un minuto».

Come la fetta esce dal tostapane e fa la marmotta, il suo dito sbucò in mezzo alla sala.

«Desidera?».

«Mi porta un’altra tovaglietta?».

«Certo, signore».

«E una penna!».

«Cosa vuol fare?».

Andai a pesca nei suoi occhi, che non ci stavano a perdere il ritmo del dialogo e andavano un po’ da tutte le parti per non raccogliere le mie domande, contando perfino le oscillazioni del tempo.

Giunto l’occorrente, sentenziò: «Pronto a fermare il vento?».

«No, davvero», rifiutai, «ci ho provato già troppe volte».

«Non deve scrivere».

«Ah no?».

«Me la disegni!».

«Non…».

«…sono capace! Uno scrittore non dovrebbe mai essere prevedibile, sa? Ho visto un pittore oggi fuori dalla Chiesa del Salvatore che non era proprio niente di che, eppure tutti lì a guardare. Quindi, bon courage!».

Mi calò la penna nella destra e questa delegò alla sinistra per contenere la figuraccia.

«Avessi almeno una matita», lamentai.

«Si disegna meglio quando non si può sbagliare. Scrive forse a matita lei?».

«Penna».

«Lo vede? Se tira una riga su una parola e ci scrive sopra sta migliorando la sua storia, se cancella con la gomma ne sta scrivendo un’altra!».

«L’ha voluto lei. Dovrà andare di corsa all’Ermitage per riprendersi da questo».

Facevo linee in fretta e furia per non pensare al senso del tutto, al contempo mi ero accanito sugli spazi bianchi. L’ammasso di ramoscelli prima o poi diventa un nido, come quello del pomeriggio fra le nuvole gassose e deformi intorno al sole, e molto presto il nido svezzò dei lineamenti sopra il foglio, che tergiversavano ancora imbarazzati lontano dai crocevia degli occhi e delle labbra del ritratto, come un bambino che non vuole buttarsi nell’acqua fredda. Vedendomi ricalcare sui primi tratti, il mio ospite mi confiscò il foglio.

«Vediamo un po’…», tentennò corrucciato. «Oh!», intonò poi girando il foglio di centottanta, «è proprio la nuvola della testimonianza questa!».

«Ha finito di citar versetti?».

Cominciavamo a farci notare dagli altri clienti. Una bambina ci cuciva gli occhi addosso.

«Mi stupisco perché tutto questo mi ricorda una storia».

«Una delle sue?».

«Una delle mie. L’ho scritta a Parigi», disse fiero il mio ospite allungando le braccia per contemplare meglio il mio capolavoro. Sembrava un camionista al volante.

«Che c’entra?», sbottai confuso da quello sconosciuto che, dopo avermi svuotato il bicchiere di kvas, pretendeva anche la mia attenzione.

«Di fianco al Pompidou c’era un pittore da strada che vendeva piccoli ritratti. Ne ho preso uno ed è nata la storia che mi è venuta in mente».

«Come si intitola?».

«La Strega di Endor».

«Un nome sinistro».

Forse ero incuriosito davvero, dopotutto.

«Non si spaventi, solo il titolo lo è. Vuole sentirla?».

«Sempre che non ci caccino dal locale».

Il mio ospite prese allora a raccontare…

[***]

La Strega di Endor

– Ti piace?

– Sì, molto.

Ti eri ipnotizzata davanti al quadro… non è vero, amica mia? Di fronte a quel vecchio e la sua lunga veste bianca, accanto alla maga circondata da scheletri e presagi.

– È il re Saul, – mi hai detto – chiede alla strega di Endor di evocare il fantasma di Samuele per sapere l’esito della battaglia contro David.

– Come fai a saperlo?

– Vengo spesso qui, Silvie.

Ti ricordi quel giorno, adesso? I due padiglioni del Louvre erano stati appena ricostruiti. Subito dopo siamo uscite.

– Hai conosciuto qualcuno, finalmente?

C’era già la Terza Repubblica, al posto dei fuochi. E dietro? Restava l’aria secca, compatta. Non passeggiava più, la gente: si trasportava da un luogo all’altro, e anche noi. Io ti inseguivo, quasi, che volevi scappare dalla mia domanda.

– Allora?

– No, no… lo sai, non m’interessa.

– Sei così bella.

– E questo interessa invece più gli altri che me.

– Anche giovane.

– Non per sempre.

– Appunto!

– Quindi dovrei farlo solo perché… è ora?

– Ascolta: Philippe non, non è…

– Non è. Punto.

– Ma…

– Non c’è nemmeno una sua foto, un suo ritratto.

– Forse questo ti può aiutare.

Un’improvvisa stizza del vento, offeso dalle colonne della Comédie-Française, lo stallo di chi trattiene il respiro durante uno sforzo. In quel momento trascorso hai pensato alle tue parole.

– Andrò a Montmartre, stasera.

– C’è qualcuno?

– I pittori, come sempre.

– Hai visto cosa fanno, ormai? Così esatti, quasi veri!

– Perciò vado lì.

Abbiamo raggiunto il Théâtre. Speravo venissi con me a Place Vendôme, invece non scherzavi… hai tirato dritto! Per qualche giorno non ci siamo viste. Tutti con dei problemi, in quel periodo. Louis ha avuto più fortuna di Philippe, durante i combattimenti: n’è uscito vivo, più o meno. Oltre ad aiutarlo, però, toccava lavorar di più, anche al posto suo. E poi c’era freddo, sempre più freddo. I cavalli non volevano piegare le zampe, cambiava il rumore delle scarpe per terra e i pittori si preparavano alla sfida di raffigurare la neve. Quando ti ho rivista nella brasserie eri già seduta. Anziché salutarmi, sei sbottata:

– I riccioli chiari e lunghi dietro che, accanto alle tempie, scansano appena la punta delle orecchie!

– Come?

– Gli occhi non molto grandi, castani, appena difesi da quelle piccole sopracciglia sempre alzate… gli davano un’aria così furba!

– È Philippe?

– Nessuno riesce a rifarmelo!

– Ma chi? I pittori?

– Perché sono andata a Montmartre, se no? C’era un vecchio maestro. Tutti lì a guardare i suoi quadri, così reali, perfetti. Gli ho chiesto di dipingere Philippe. “Vedrà!”, mi assicura lui, “nemmeno Alma Tadema!”. Si è messo a trafficare per mezz’ora, ha sfiancato tutti i pennelli, scomodato l’intera tavolozza, che un colore vergine sembrava un peccato da ghigliottina!

– E invece?

– Ah! Un dipinto bellissimo, ci mancherebbe. Sembrava di toccarlo, quell’uomo dai riccioli biondi. Magari qualche donna avrebbe potuto amarlo, ma…

– Ma?

– Non era Philippe.

– Be’, potevi andare da qualcun altro.

– Ci ho provato! C’era anche una donna. “Forse lei può capirmi”, ho pensato. E allora vai, ripeti tutto: riccioli, occhi, sopracciglia…

– Niente?

– Peggio! Ecco un ragazzo più bello, vero, più attraente forse. Ma non lo conoscevo.

– Oddio, tutto qua? Avevi una faccia!

– Per me è importante.

– È pieno di pittori, a Montmartre. Tornaci stasera.

– Non so neanche cosa cerco davvero.

– Infatti. Insegui un fantasma.

– Cerco di liberarmi, da un fantasma!

– E la pittura ti libera?

– Mostra altri mondi.

– Ma non ti ci fa arrivare! Le prigioni prendono la realtà che sta fuori e si limitano a costruire le sbarre. La pittura fa l’esatto contrario, con un po’ più di lavoro forse, ma l’effetto è uguale.

– Ci torno stasera!

– Lo sapevo.

Ricordo ancora che hai finito il tuo chausson in silenzio. Volevo parlarti ancora, senza un motivo. Mi venivano in mente soltanto i miei problemi, sempre legati a quelli di Louis, e non volevo ricordarti che un ragazzo ferito in guerra è sempre meglio di un ragazzo morto. Ho bevuto il tè e basta. Sbaglio o è passato appena un giorno, prima che mi chiedessi di rivederci? Che serata strana quella. Il freddo s’era annoiato un po’ e ha tolto entusiasmo al vento. Così le luci hanno preso coraggio: dappertutto i bottegai accendevano qualcosa. In quel vicolo di fianco al Pantheon, però, c’era penombra. I ciottoli a terra si trasformavano in ranocchie e il rumore dei carri prestava loro il verso.

– Ecco qui! – hai posato sul tavolino un pacchetto piccolo, squadrato e sottile.

– È il ritratto di Philippe?

– Ah, non so. Lo spero!

– Cioè?

– Ho fatto la conoscenza di quasi tutti gli imbrattatele del Sacro Cuore, sei contenta? Ho collezionato cinque o sei dipinti che dovrebbero somigliargli.

– Forse ti devi accontentare. Non è una fotografia.

– Ma se sono i pittori a dire di poterne fare una copia perfetta?

– In ogni caso?

– Dunque, c’era un ragazzo!

– Ah! Bello?

– Non importa, pittore anche lui.

– Bello, ho capito.

– Fatto sta che mi ha osservato tutto il tempo e l’ho visto anche parlare con gli artisti da cui ero già passata. Poi è sparito.

– Sparito…

– Quasi. Stavo andando via, ero già in cima alla scalinata, ma lui era lì.

– Ti aspettava!

– Mi ha dato un pacchetto.

– Questo pacchetto?

– Sì, questo.

– Cosa c’è dentro?

– Non l’ho aperto subito. Mi ha raccomandato di scartarlo a casa.

– E non l’hai ancora fatto?

– Perciò ti ho scritto.

– Aprilo.

– Sicura?

– Coraggio!

– Non me la sento.

– Come sarebbe?

– Non so. Ricordi quel dipinto al Louvre?

– La strega di Endor?

– Forse c’è una profezia anche qui.

– Non dire sciocchezze, questa guerra ci ha proprio scombinato il cervello! Fallo aprire a me, dai!

– È per questo che ti ho chiamata.

– Posso davvero?

Hai aperto la mano sinistra, niente di più. Lentamente. E anch’io, con la stessa lentezza, ho schiuso quel pacco sottile. Morivo dalla voglia, ma volevo rispettare la tua piccola follia. Ricordo così bene la tua faccia! Tenevo il quadretto girato verso di me e tu impazzivi di curiosità.

– Allora?

– Ah no, lascia perdere!

– Che dici?

– Non ho visto gli altri ritratti, ma questo è di sicuro il peggiore!

– Vedere!

Hai mosso appena la mano ma io mi sono avvicinata il dipinto ancor di più contro il viso.

– Ma sì, non si capisce niente! Dov’è la faccia? Mancano tutti i dettagli.

– Lasciami guardare, insomma!

– Ecco, giudica tu stessa. È tutto blu, chissà perché. Si capisce appena che è un uomo, c’è solo qualche linea e…

– È Philippe…

– Cosa?

– Il mio Philippe! Guarda, camminava proprio così! E poi, non so…

– Ah, nemmeno io.

– Sì, un non so che. Sarà impreciso, strano, neanche sembra finito, ma… è lui ti dico!

– Pensa a tutti quei pittori: hanno studiato per anni, mentre questo… forse avrei saputo farlo anch’io!

– No, non credo. Solo lui!

– Quel ragazzo?

– Sì.

– Vuoi rivederlo?

– Rivederlo? E perché?

– Oh, insomma! Ti sei liberata del tuo fantasma?

– Forse adesso sì… È resuscitato!

– No, invece. Si è sepolto! Ha trovato la pace.

Ed eccoti lì. Ti sei rimessa a mangiare in silenzio, questo te lo devi ricordare per forza. Lo fai sempre quando vuoi far morire la conversazione. Quella volta stava bene anche a me. Mi sono rigirata il disegno fra le mani. Proprio non capivo cosa ci trovavi, eppure qualcosa c’era, l’ammetto.

Per questo ti scrivo di nuovo a distanza di anni, amica mia. Non ci siamo più viste da allora, mi sono rimaste però le parole che hai detto uscendo dal locale.

– Forse ci torno.

– A Montmartre?

Conversazione finita. Mi sono dovuta accontentare.

Adesso però voglio saperne di più. Tutta l’arte è cambiata, ormai. Quel mondo impreciso, strano e confuso è stato eletto e io ripenso al mio stupore come a quello di un’ingenua. Me ne rendo conto solo ora.

E tu invece? Tu che hai forse provocato la fine di quella pittura, la morte di un re troppo classico e antico per sopravvivere, mia piccola strega, hai trovato poi il tuo David?

Con affetto, Silvie.

Paris, 2 décembre 1890.

[***]

Oblaka la strega di Endor

«Zakryta, zakryta!».

Una parola che avevo già sentito. La cameriera ha le mani giunte e il sorriso lontano.

«C’est fermé», ci pensa il mio ospite ad arricchirla.

«Sì, è tardi».

«Karashov!», esclama lui con l’espressione più amata dai russi, aggiustandosi la giacca sui fianchi. Non credo cerchi il portafogli.

«Si ricordi che lei è mio ospite», mi prendo la libertà di fraintendere il suo gesto e intanto cavo i soldi di tasca. Ad abbondare coi rubli potevo comprarmi persino qualche minuto in più. Di fronte all’offerta, il mio ospite rilancia slacciandosi di nuovo il bottone della giacca.

«Non sarebbe fantastico», dice sfilando il mento dal colletto, «se tutte le scoperte dell’umanità dipendessero da piccole faccende personali?».

«Come nel suo racconto?».

«Esatto».

«E se fosse già così?».

«Qualcuno dovrebbe raccontarlo, allora». Per mettere il cuore in pace alla cameriera sul debito siglato dalla nostra mancia, il mio ospite si accese l’ultima sigaretta.

Il forte vento si era sfogato e, come sempre, l’esito fra un cielo terso o del tutto coperto era stato incerto fino all’ultimo. Le nuvole avvolgevano ora un aborto di autunno in pieno agosto come il sipario tutela le prove generali. Il viale Nevskij si era svuotato per mostrarne il nome sulla mappa, nelle chiese gli uomini scaldavano le voci e sulla Neva l’acqua scordava i colori…

«Io invece non scorderò il suo racconto», dissi solo a margine dei miei pensieri, sperando in un po’ di comprensione da parte di quello scrittore.

«E se poi se ne scorda, al massimo farà come le nostre nuvole lassù»

«Mi trasformerò anch’io?».

«Già, questo sembra proprio il gioco senza nome».

«Che gioco?».

Perché mi sforzavo ancora di non farmi sorprendere da quell’uomo?

«Un gioco di società che ho imparato a Parigi. Ci si mette tutti al tavolo, in cerchio, ognuno con un foglio e una matita, pardon… una penna».

«Si deve disegnare quindi!», indovinai.

«Anche scrivere. Anzi, per prima cosa si scrive una frase qualsiasi e la si passa al compagno di sinistra, che su quella ci deve fare un disegno».

«Ah, ho capito! Poi si nasconde la frase e si passa ancora il foglio…».

«Precisamente! Così il giocatore successivo deve scrivere un’altra frase ispirandosi stavolta soltanto al disegno, e così via».

«Sì, lo conosco. Ma…», rimasi lì come la sigaretta del mio ospite, o come i ravioli che non si era degnato di giustiziare, in lenta moria dentro il posacenere. Appena vinto dal bruciore sul filtro della mente uscii dalla mia ipnosi.

«E se continuassimo lo stesso gioco, usando il mio ritratto e il suo racconto?».

«Intende dire?».

«Una serie di scambi fra piccole storie e altrettanti disegni, ciascuno ispirato al precedente».

Per il sollievo della cameriera, il mio ospite si alzò di scatto rinchiudendosi meglio la giacca.

«In questo caso», esclamò, «sarebbe ora di trovare un nome a questo gioco, una buona volta!».

Afferro la giacca anch’io, senza indossarla, e lo raggiungo scettico verso quel falso autunno. Il cielo fuori era saturo, ma non piatto. Vedevo nuvole cannibali, si stratificavano divorandosi a vicenda per mostrarsi sotto un ventre famelico.

«Oblaka!», le indicavo. Ero in vena di battesimi.

«Oblaka…», come rotolava bene sulla sua lingua la bolla delle consonanti, «ma un gioco valido solo per due persone non è un gioco, si ricordi».

«Lei dice?».

«I giochi non si accontentano degli accordi, vanno sempre in cerca di regole».

«Dobbiamo proseguire la catena, quindi».

Un gruppo di marinai ubriachi ci passò in mezzo agitando una bandiera. Era l’anniversario della marina militare. Quel bucato ambulante di magliette a righe si allontanò in fretta, verso qualcos’altro da prendere a calci.

«La lascio a lei questa sfida», concluse il mio ospite, «io devo scrivere una serie sulle scoperte dell’umanità!».

«Ah, già, le scoperte casuali».

«Non casuali! Provocate da piccoli insignificanti episodi, lo tenga a mente. Piccoli e insignificanti».

«Come il nostro incontro», lo provocai.

Non si fece deludere.

«Quasi nessun incontro lo è».

«Vero, ne ho fatto uno giusto oggi che mi può aiutare a proseguire la storia», gli rivelai infine dopo essermi a lungo risparmiato.

«E allora auguri! Ne avrà bisogno», predicò già al di là di qualche passo.

«Lei crede?», interrogo alzando la voce per raggiungerlo oltre l’oscurità che stava gemellando le nuvole, vietando loro di resuscitare.

«Altroché! Non dimentichi che questo è il paese dei pittori che ricopiano le icone sempre identiche, secolo dopo secolo».

Fino al mio albergo, ogni altro passo dentro le nuvole grigie salmodiava senza sosta.

Secolo, dopo secolo.

Dopo secolo…

di Federico Filippo Fagotto

Trovate qui il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e il settimo capitolo.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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