Il 20 ottobre 2021, alla Corte dei Miracoli di Milano, si è tenuta “COS’È UNA CRISI? – Agorà a cura di Philosophy Slam”: la prima di una (lunga) serie di momenti di discussione collettiva sui temi oggi “caldi” nel dibattito politico, culturale, sociale: dal concetto di “crisi” a quello di “cultura”, dalla funzione della scienza al problema della libertà… Potete trovare due interventi di quella sera qui e qui.
La seconda serata di discussione, dal nome “Sic et Non – Simpliciter“, si è invece tenuta il 13 dicembre scorso e ha avuto come tema il concetto di cultura. Seguirà una seconda parte il 14 gennaio p.v., sempre alla Corte dei Miracoli. Pubblichiamo ora il secondo intervento: «Wall Street ha rafforzato il mio amore per l’arte», di Gabriele Stilli. Qui trovate il primo: L’arte non è inutile, di Rudy Toffanetti.
COS’È CULTURA?
Cultura è una parola che contiene tutto e il suo contrario. Culturale è la produzione scientifica, tecnica, artistica. Cultura è il folklore e la riflessione filosofica più raffinata. Tutto ciò che fa l’uomo sembra essere, in qualche modo, “cultura”. Ma se tutto è cultura, allora tutto si equivale? Cosa distingue un’opera d’arte da una merce qualsiasi? Un Picasso da uno spazzolino da denti? C’è davvero differenza? Nel caso, è una differenza, a sua volta, culturale? E se è una differenza culturale, da cosa è determinata?A partire da queste domande, e da tante altre, tre relatori si confronteranno con il pubblico declinando ognuno a modo suo il concetto di “cultura” e in particolare il rapporto “cultura e arte”:
1. Rudy Toffanetti – L’arte non è inutile. In cui si traccia un breve excursus sugli antropologi funzionalisti e su De Martino e si ragiona sulla necessità del linguaggio poetico nella narrazione della realtà.
2. Gabriele Stilli – «Wall Street ha rafforzato il mio amore per l’arte». In cui ci si domanda qual è il rapporto tra mercificazione e arte nella società contemporanea.
3. Jacopo Bagatta – Il canone letterario scolastico. In cui si discute la storia del “canone” letterario insegnato a scuola, le cause storiche e culturali che lo hanno creato e come (NON) è cambiato nel tempo.
Diamo appuntamento al 14 gennaio per la seconda parte di questo “Sic et Non – Simpliciter” dedicato al tema della cultura. Si terrà sempre alla Corte dei Miracoli, in via Mortara 4, h. 18-20. Ingresso gratuito.
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Chiunque fosse interessato a contribuire al dibattito con un proprio articolo può inviarlo per mail a: collabora@latigredicarta.it.
«Wall Street ha rafforzato il mio amore per l’arte»: è una frase di Jeff Koons, il più ricco artista del mondo. Avrete sicuramente visto qualche sua opera: le più famose sono dei palloncini a forma di cane (o cani a forma di palloncino) o statue di metallo iridescente a forma di uomo o di T-Rex, o di qualche personaggio dei cartoni animati – insomma, degli affari scintillanti di dubbio gusto che però vengono pagati molto bene e hanno un enorme successo. Certo, a Jeff Koons Wall Street può piacere sicuramente: gli ha dato di che mangiare creando da anni le stesse cose. Anzi, nemmeno creandole, ma soltanto pensandole, ideandole, dato che demanda la pratica a servitori fedeli, che si occupano dello sporco lavoro di realizzare le sue opere: lui ci mette l’idea e la firma, mentre il resto viene fatto da altri, come degli oggetti di design o di artigianato, o come le antiche botteghe cinquecentesche: tanti piccoli Umpa Lumpa dediti alla costruzione di statuette di metallo lucido color gomma da masticare. L’arte è questo, oggi: una questione di progetto, di concept, che serve a comunicare un messaggio, o a fare qualcosa di nuovo, insolito, accattivante. E si lega al concetto di moda: non nel senso di arte del vestiario, ma nel senso di “tendenza”: un anno è la moda della vaporwave, poi è arrivato il cyberpunk, poi ancora arriverà un’altra cosa, e così via. Cosa regola questi processi? Il desiderio di novità, e il desiderio di attirare, di stupire, di essere figo, al centro del momento. Poi, dopo, però, verrà dimenticato, nel grande mare di opere che si accumulano l’una sull’altra.
Ve lo ricordate Quarto Potere, il film di Orson Welles? (Se non ve lo ricordate, ricordatevi di guardarlo): ecco, la nostra realtà culturale assomiglia alla villa del protagonista del Cittadino Kane, il protagonista di Quarto Potere: un’enorme villa ricolma di opere, statue, oggetti, beni di ogni tipo, forma, valore, che si accumulano uno su l’altro, seppellendosi a vicenda. Un’immensa, gigantesca babele di oggetti, così tanti che nemmeno Kane può ricordarseli tutti, e di cui, in fin dei conti, non sa che farsene. Li accumula per puro desiderio di possesso, e non vi è altro motivo. Oggi, sembra lo stesso: la produzione di opere d’arte non è mai stata così sterminata, e nello stesso tempo le arti non sembrano ricoprire un ruolo centrale nella vita di nessuno di noi. Non c’è né un riconoscimento professionale da parte degli artisti, e nemmeno un riconoscimento a livello culturale.
Ciò si lega alla decadenza della cosiddetta cultura umanistica, che sta venendo sempre più messa da parte: è decennale il dibattito sullo studio del latino; sempre più spesso politici e accademici si pronunciano sull’inutilità della storia o della letteratura, ed elogiano il sapere tecnico e il sapere scientifico, come se fosse realmente possibile separare questi ambiti, quando, al contrario, il sapere tecnico pone sempre domande umane, esistenziali (la biotetica, per esempio) e il sapere cosiddetto “umanistico” in realtà riflette anche e soprattutto sulla natura, sulla realtà extra-umana. È il risultato di un sapere che ha sempre diviso l’essere umano dalla realtà che lo circonda, dalla “natura”. Non c’è da stupirsi che se separiamo uomo e natura, arte e scienza, il sapere ci appare come diviso in due grandi categorie: una che “funzona”, che è immediatamente utile, perché si occupa della realtà, perché è “oggettiva”, e l’altra invece che si occupa di cose più impalpabili, che è “soggettiva”, e dunque non immediatamente utile, non funzionante. È proprio il caso della cultura umanistica: un non-sapere, che si studia più per tradizione che per necessità, e in cui ogni affermazione è “opinione”, e dunque qualcosa di apparente, di accessorio.
L’arte sembra apparentemente salvarsi, visto che se ne produce molta, ma ciò è vero solo in apparenza: sì, si continuano a produrre libri dischi, libri, film… ma, se andiamo a vedere, non conta tanto il contenuto di ciò che viene prodotto, ma il fatto stesso di essere prodotto. Capiamo meglio. Siamo circondati di opere che denunciano il nostro sistema economico e politico (Squid Game o Joker per fare due esempi, ma se ne possono citare a centinaia), che si avvalgono precisamente di quel sistema economico per la loro produzione e diffusione, e non possono non farlo, a meno di essere ridotte alla minima circolazione delle opere “indipendenti”, che però, per quanto “indipendenti”, sono sul mercato esattamente quanto le altre, solo con una potenza di fuoco infinitesimamente minore. Il fatto che non si possa uscire dal cerchio, è spia di uno strettissimo legame tra arte e mercato nella nostra società, al punto che la prima è impensabile senza il secondo (il secondo no, invece, è pensabilissimo senza l’arte, ovviamente). È per questo che ci sono signori come Jeff Koons, scrittrici come Isabel Allende o cantanti come Myss Keta, che con pochissime idee artistiche, con una poetica molto ristretta e limitata o scarsissime conoscenze tecniche possono avere enorme successo: ciò che conta è saper comunicare, vendere bene l’opera o il proprio personaggio: poi gli Umpa Lumpa o l’autotune si occuperanno del resto. Ciò che conta è l’essere “prodotto”, dell’arte, il suo essere merce: qualcosa che si può comprare e che si può vendere. È questa caratteristica (più difficile in un’opera filosofica, o in una ricerca storica o antropologica) che permette una rapida e ampia diffusione dell’arte, ma nello stesso tempo è ciò che la incatena. Sì, si comprano tante opere d’arte, ma si consumano. Di tutte le serie TV di Netflix, quante verranno ricordate? Di quante serie TV spazzatura degli anni ‘90-2000 ci ricordiamo oggi? Forse di quelle che vengono prodotte anche per qualcosa di più, e di diverso rispetto alla semplice diffusione, alla semplice affermazione di se stesse e relativo incasso… ma non possiamo saperlo. Possiamo augurarcelo, ma se l’affermazione di un’opera si basa sulla pura vendita, non c’è alcun criterio affinché questo accada.
Oggi, infatti, l’arte ricopre una funzione per lo più decorativa della nostra vita. È un accessorio che la rende migliore, ma che potrebbe non esserci. Serve a divertirci, a farci passare il tempo. A “intrattenerci”, come si dice. Venuto meno, infatti, l’uso propagandistico da parte di un potere centrale come poteva essere un re, un mecenate, un grande principe, (anche se si sta riaffermando una sorta di neomecenatismo da parte delle grandi aziende) e venuto meno, per via dello sviluppo scientifico, anche tutto l’aspetto cultuale-sacrale-religioso dell’arte, questa non può ricoprire alcun altro ruolo, apparentemente. Non ci sarebbe nemmeno nulla di male, in teoria: ognuno di noi legge, guarda film o ascolta musica per distrarsi. È umanissimo e pacifico.
Però.
Però viene meno un aspetto, e cioè l’uso dell’arte come atto culturale.
Cosa vuol dire atto culturale? Vuol dire che l’arte può servire a definire la forma della vita di una determinata società, di un determinato popolo, i suoi pensieri, le sue credenze, la sua mentalità. Se l’arte è un appagamento, diviene un modo con cui fuggire dalla propria vita, un breve sogno per poi tornare nel grigio della propria esistenza quotidiana. Una pausa, un momento di ricarica tra una giornata di lavoro e l’altra.
All’appassionato di letteratura nulla di più è richiesto, né all’artista. Non è strettamente necessario né un pensiero critico sulla realtà, né sulla propria esistenza o sui sentimenti. Un artista che si limiti a ricoprire questo ruolo non metterà mai in discussione il mondo, non desidererà mai cambiarlo, migliorarlo, farlo vivere. Si limiterà al suo ruolo, come un buon soldato. È anche per questo che la cultura umanistica è in crisi, in favore di un sapere tecnico: ciò che importa maggiormente, infatti, è l’adempimento di una mansione. Anche scrivere un libro o una serie tv diventa un compito tecnico: l’importante è creare storie efficaci, che piacciano.
Un’opera fatta solo per essere comprata e venduta, una pura merce, non ci permette una trasformazione interiore. O meglio, se lo farà, lo farà per caso, per effetto collaterale. Ci sono grandi opere create per fini commerciali, ma sono grandi nonostante i fini commerciali, e non per via di questi.
Inoltre, se chi ama l’arte pensa solo a consumarla, e non ne fa un uso culturale, la cultura in sé non sparisce: la società continuerà ad avere una determinata forma, determinate credenze, determinati pensieri. Semplicemente, saranno altre entità a determinare queste forme: sarà il mondo della televisione, sarà la comunicazione mordi e fuggi dei social, saranno le pubblicità delle grandi aziende a riorientare il nostro sguardo, a farci crescere come persone. Ed è questo, in realtà, il punto, e ha a che fare con la nostra idea di democrazia.
Il fatto che l’autotune permetta a tutti di registrare una canzone decente, così come il fatto che sia il mercato a decidere chi ha successo e chi no, sembrano elementi di grande democrazia: tutti possono divenire artisti, tutti possono decidere chi verrà ricordato e sarà nelle librerie e nelle classifiche per anni, e chi no. Ma in realtà non è così. In realtà ciò che viene eliminato non è la gerarchia tra artisti, o l’esclusione o la discriminazione, bensì la fatica. Se uno strumento permette a tutti di diventare artisti senza fatica, non significa che tutti possono diventare davvero artisti: significa che tutti possono fare qualcosa di simile a un artista: significa che possono imitarlo, un artista, che possono fare il suo lavoro. Un animale che impara a collegare degli ideogrammi cinesi con la loro traduzione in inglese non sta effettivamente imparando il cinese o l’inglese, anche se, visto dall’esterno, può sembrare in grado di capirli. Allo stesso modo scrivere un libro, fare un film o incidere un brano musicale, di per sé, non dovrebbe voler dire nulla. A meno che (ed è il caso specifico) ciò che conti non sia proprio il prodotto film, il prodotto libro (non a caso si è inventato il termine “libroide” per indicare tutti quei libri che non hanno alcun tipo di valore) e così via. Se un artista è uno che produce oggetti, allora sì, chiunque produca oggetti è un artista. Ma l’arte sta davvero in questo? Sta nel semplice atto di produrre oggetti, di espellere fuori dalla propria mente cose?
Un abbozzo di risposta l’abbiamo in realtà già dato, ma dovrebbe essere approfondito, e non è questa la sede. Il problema, però, è che da molto tempo la critica (le critiche, anzi: la critica letteraria, la critica cinematografica ecc… dato che non esiste esattamente una critica generale dell’arte) ha smesso di chiederselo, trincerandosi dietro a frasi come «Arte è tutto ciò che consideriamo arte» o alla considerazione che ogni società ha il suo modo di intendere l’arte, e che tutti questi modi sono equivalenti e degni dello stesso rispetto, e dunque perché mettere in discussione una società in cui l’arte è un semplice prodotto che si vende e si compra? E questo si traduce, nei fatti, alla morte della critica e della riflessione sull’arte. A che serve la critica se chiunque, attraverso l’acquisto, è critico a sua volta? O svanisce nel nulla, o al massimo si ricicla come capobastone, come influencer, che di volta in volta indirizza la critica sul tale prodotto o sul talaltro. Una riflessione aperta, seria e disinteressata su cosa sia l’arte non è permessa. O meglio: non è utile, e dunque viene abbandonata.
In altre parole, il potere dell’industria culturale è talmente pervasivo da generare una critica che ha come unico compito la giustificazione di quella stessa industria culturale. Apparentemente, il potere lo ha il cliente-fruitore, che con il suo acquisto può decidere chi premiare. Nella realtà, è la stessa industria culturale a determinare le scelte del cliente-fruitore, da un lato producendo essa stessa le opere, in modo sempre più centralizzato (Netflix è un esempio, ma pensiamo anche che in Italia il 98% del mercato del libro è in mano al duopolio Feltrinelli-Mondadori), e dall’altro affidandosi alla critica addomesticata degli influencer. Così il fruitore si trova nella situazione più desiderabile: non sceglie davvero nulla, ma ha sempre la sensazione di scegliere davvero tutto. Che è la stessa sensazione che sperimentiamo in qualunque supermercato. La libertà è ciò che si sceglie dallo scaffale, non qualcosa che si costruisce.
Della democrazia, mancano infatti molti elementi centrali e determinanti. Manca, innanzitutto, l’obiettivo, il senso dell’industria culturale. Se non ci domandiamo più cosa sia l’arte, non sappiamo più nemmeno perché la facciamo. Diventa, appunto, un oggetto di consumo tale e quale a un gelato o a una buonissima torta. Buona, sì, ma che non ci fa crescere, non ci trasforma, non ci dà nulla. Dopo averla mangiata, la nostra vita scorre tale e quale. Con un po’ di glicemia e serotonina in più, ma tale e quale. Manca, quindi, anche la riflessione, lo studio e l’esercizio, sia per diventare artisti, ma anche e soprattutto per diventare fruitori. Se tutti siamo giustamente chiamati a decidere del successo di un’opera d’arte, ed è ingiusto che a farlo sia una casta ristretta di persone, non possiamo farlo su una base istintiva, sul “a me piace così”, sul gusto personale. Il gusto personale si coltiva, si affina, si discute. La massima «de gustibus non disputandum» è solo uno dei tanti luoghi comuni che servono a far germogliare la nostra pigrizia mentale: in realtà discutiamo tutti i giorni di questioni di gusto, solo che non sappiamo farlo, perché nessuno ce l’ha insegnato. Al massimo si crea la moda, la tendenza: perché se è difficile capire perché ci piace una cosa, imitare quello che piace agli altri è facilissimo. E ci fa sentire molto bene e accettati. Dietro a tutto ciò, in fondo, non vi è altro che la noia, la noia di questo mondo capitalista, dove non conta la tua idea, ma conta che quell’idea ti dia abbastanza clienti da far mangiare te e da far mangiare quel sistema che gestisce la tua idea, e ne fa un prodotto.
Ci siamo disabituati a percepire. C’è anche, alla fine, questo enorme problema. Sentire, essere colpiti, passare una giornata a pensare o parlare di ciò si è visto o udito, essere attraversati da un’idea, uno stimolo, che così facendo prende corpo e anima, è qualcosa di non naturale, non spontaneo nella nostra società, proprio perché siamo in tutti i momenti attraversati da idee stimoli pensieri, che si traducono in rumore di fondo, e portano poco a poco all’apatia. Apatia dalla quale dobbiamo essere risvegliati da una buona scarica di emozioni con il nostro film o fumetto preferito, per poi tornare a fare la nostra vita di prima, essere colpiti attraversati da altre cose che diventano rumore di fondo e così via. Fare un uso culturale di ciò che ci attraversa, renderlo strumento di espressone in grado, in potenza, di creare comunità è qualcosa che ci sfugge, a cui non siamo abituati. Non sappiamo che farcene di ciò che percepiamo: siamo portati a fare indigestione di emozioni che poi però non riusciamo a portarci nella vita di tutti i giorni, e dunque rimangono lì. E invece le storie, o le opere, diventano importanti quando ci accompagnano, quando diventano parte di noi. Non è questione di gusti: mi piace non mi piace. È questione di emozioni, percezioni. Di esperienze che si aprono oppure non si aprono, di strade che si percorrono o di strade che invece sono illusorie, come quei dipinti illusionistici che mostrano una finestra con un bel paesaggio, e invece è tutto disegnato, è fatto tutto per il luccichio, per il lusso, per amore dello spettacolo. O di Wall Street, come dice Jeff Koons.
E quindi mi domando: che tipo di arte vogliamo? Questo tipo di arte glamour, ammiccante affascinante che si vede nelle riviste, che vediamo continuamente su Instagram nelle librerie di consumo, a cui chiediamo continuamente «dammi emozioni, dammi emozioni, dammi emozioni…», o l’arte di cui si è appropriata la pubblicità, e che invece ti sussurra: «Compra. Guarda che bello, guarda che gioia… è tuo. Compra…» oppure… qualcosa di diverso? Un salto nel buio? Un ricordarci dell’ignoto, un ricordarci che noi non sappiamo tutto, e dobbiamo capire la vita, e percepirla, sentirla dura sulla pelle? Che la vita si vive percependo?