*nota
Le scelte lessicali operate per scrivere attorno al desiderio saffico, in questi due brevi contributi, sono state a lungo pensate: parlare di donne può essere riduttivo – anche se nei casi dei nomi specifici citati nel testo si rivela corretto – e parlare unicamente di lesbiche può voler dire mettere in atto un meccanismo di “bicancellazione”, ovvero rendere invisibile le soggettività bisessuali. Nella stesura del testo si è dunque cercato di prestare attenzione al linguaggio, preferendo termini ombrello quali “saffica/o”, “queer” e l’uso della schwa (ə) per maggiore inclusività, anche perché la letteratura sul tema pare essersi curata poco di questo aspetto preciso.
In ultimo, è necessaria una breve nota circa uno dei testi citati, in quanto l’autrice, con altre colleghe, è stata recentemente indicata come TERF. Non essendo in grado di valutare la situazione specifica, aggiungo queste righe per esplicitare il mio completo dissenso verso atteggiamenti transescludenti e per ricordare che nella realtà dei fatti non c’è niente di femminista o di radicale nella transfobia.
Scrivere è sempre trovarsi in bilico tra la sfera del pubblico e quella del privato e scrivere del proprio desiderio, quando questo non rientra nella norma vigente, può voler dire essere obbligatə a collocarsi unicamente nell’ordine del discorso privato o dover mettere in atto strategie di mascheramento per poter attraversare anche quello pubblico.
Una ricerca importante in questi termini è quella di Laurie Essig, dal titolo Queer in Russia, in cui l’autrice indaga il modo in cui lə soggettə queer russə si sono collocatə in questo difficile equilibrio e dunque anche come il loro linguaggio ha affermato un proprio lessico, cercando di uscire dalla sovradeterminazione e dall’essere dettə unicamente da discorsi, scelte lessicali e immaginari altrui.
Il passaggio dall’essere dettə al dirsi è sempre complesso, si tratta di costruire e far vivere una contro-narrazione che è personale e collettiva, pubblica e privata, propria e altrui, necessariamente politica perché situata storicamente nel piano socioeconomico, linguistico e giuridico.
In Russia, gli atti omosessuali sono esposti all’occhio pubblico della legge per la prima volta nel 1716 dal Codice Militare che già aveva preso forma un decennio prima sotto il regno di Pietro Il Grande. Successivamente, si stabilizzerà il termine muzhelozhstvo per nominare l’atto di sodomia tra due uomini, che sarà oggetto di criminalizzazione nell’intera Russia con l’articolo 995 del codice di legge dello zar Nicola I, promulgato nel 1832.
La scelta lessicale non è casuale e ci dice esplicitamente che si parla non di un certo soggetto, bensì di pratiche e nello specifico di pratiche compiute da uomini, le cui vite sono le uniche prese in considerazione giuridicamente. A restare invisibili sono quindi le donne, i loro desideri e atti. Considerate non pienamente soggette, più deboli e maggiormente suscettibili a perversioni, non hanno bisogno di essere punite dalla legge, quanto più di essere affidate alla scienza medica che correggerà i loro corpi curando i desideri che incarnano.
Non si tratta di una peculiarità russa e si rimanda a questo proposito all’opera Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ di Maya de Leo, in cui viene sottolineato come sia solo dal XVIII secolo in poi che la sodomia omosessuale passa dall’essere una condotta all’essere caratteristica dell’identità di una parte di popolazione, di una natura specifica; così come è proprio dal Settecento che la stessa dicotomia maschile-femminile viene costruita culturalmente nella cultura occidentale.
Prima del 1905 – e dunque dei cambiamenti che la prima rivoluzione ha messo in atto – la medicina russa considerava necessariamente intrecciate il lesbismo e la prostituzione femminile, non solo per una questione ideologica che vedeva una potente componente di perversione sessuale in entrambe le situazioni, ma anche per l’effettiva presenza di non poche donne lavoratrici sessuali che avevano relazioni amorose ed erotiche con altre sex workers.
Dan Healey nella sua opera Homosexual Desire in Revolutionary Russia, riporta diverse esperienze e voci di “tribade-prostitute” nei bordelli pietroburghesi di fine Ottocento e mostra come esistesse anche un lessico specifico interno: per esempio, nel definire due prostitute in una relazione sessuale si faceva uso della parola koshki, letteralmente “gatta femmina”. Questa nota linguistica rende evidente che non solo le relazioni saffiche nei bordelli di Pietroburgo esistevano, ma anche che era in uso un lessico specifico nel vocabolario delle sex workers per potersi nominare.
Pur senza dimenticare questo importante spazio fisico, amoroso e linguistico, c’è da tener conto del fatto che chi esercitava sex work viveva in condizioni spesso deleterie e in cui la sorveglianza medica era brutale e invasiva. Come sottolineano Simon Karlinsky e Dan Healey, le cose non migliorano nemmeno negli anni dei Soviet.
Negli anni dopo e durante le due rivoluzioni russe, si passa infatti a una retorica per cui la donna lavoratrice sessuale è vittima dello sfruttamento economico, un soggetto passivo che facilmente cade anche in bassezze perverse come le pratiche sessuali con altre donne.
Nel 1922, viene promulgato un nuovo codice di legge in cui vengono proibiti rapporti sessuali con minori di 16 anni e la prostituzione maschile e femminile. La mancata menzione tra i crimini delle relazioni omosessuali tra adulti consenzienti significa dunque che l’omosessualità diventa legale: le persone queer non sono più sotto il dominio della legge, ma ancora sotto quello della scienza volta a curarle. Come anche Diana Lewis Burgin nota, la classificazione come patologia si legge anche nella sostituzione del verbo essere con quello “soffrire di-” nell’Enciclopedia Medica Sovietica sotto la voce sull’attrazione sessuale di persone dello stesso sesso, così come in quella dedicata all’amore lesbico (lesbiiskaia liubov) – che compare per la prima volta nel 1896 e viene esplicitamente definito come perverso, innaturale e unicamente in termini di pratica sessuale.
Volendo però fare un passo cronologicamente indietro: negli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo si apre un momento in cui la Russia sembra rinascere. Sulla scia del passato grande Ottocento letterario, chiamato infatti Età dell’Oro, il passaggio tra i due secoli vive di nuovi fermenti religiosi, filosofici, artistici e anche politici ed economici, venendo così definito Età d’Argento.
Nel 1906 fa il suo debutto letterario Mikhail Kuzmin (1872-1936) con il suo racconto autobiografico Kril’ia (tradotto con Wings), la storia del lento percorso di un uomo nella realizzazione della propria omosessualità, che diventerà l’opera di riferimento per le soggettività gay in Russia. Negli anni subito successivi sarà anche enormemente importante la pubblicazione delle opere di Lydia Zinovieva-Annibal, narranti amori lesbici e utilizzanti un lessico e un immaginario che richiama al decadentismo francese.
È in questi anni che nascono anche diversi circoli artistici, frequentati dalle classi medio-alte, in cui il desiderio delle donne per le donne ha finalmente la possibilità di manifestarsi e dirsi. Sono spazi di visibilità possibile, ma pur sempre limitata e regolata da uno sguardo maschile indubbiamente dominante. Ne è esempio la relazione tra le poete Marina Tsvetaeva (1892-1941) e Sophia Parnok (1885-1933) che, per quanto non fosse celata agli occhi degli altri compagni letterati e artisti, era comunque obbligata a mettere in atto tattiche mimetiche, nel proprio manifestarsi fisico così come nella propria forma testuale.
Non è dunque un caso che i versi della voce dichiaratamente lesbica di Parnok, composti negli anni della relazione con Tsvetaeva (tra la fine del 1914 e l’inizio del 1916), non videro la pubblicazione fino al 1928. Analogamente, il ciclo di poesie intitolate all’amata (“Podruga”) e composte appunto da Tsvetaeva vennero pubblicate per la prima volta nel 1979, negli Stati Uniti.
Riporta Burgin che la stessa definizione di cosa fosse la “poesia femminile” era stata dettata da un uomo, il poeta decadente e critico Innokenty Annensky (1855-1909), che operò una divisione binaria della poesia in maschile e femminile, riflettendo pienamente la divisione sessuale che vigeva come norma nella cultura e letteratura russa dell’Età d’Argento. Da qui si può facilmente immaginare anche la difficoltà per le voci lesbiche di uscire dallo spazio isolato in cui venivano relegate dalla critica. Come accennato prima, si trattava molto spesso di scritti di donne che mettevano in atto una serie di tattiche di mascheramento della propria identità per poter ritagliare spazio nello scenario culturale. I lavori di Burgin identificano tra queste la scelta di narrare le relazioni saffiche in termini allegorici tramite personificazione di nomi astratti e il rendere esplicitamente non di donna la voce dell’io poetico o, meno comunemente, della figura destinataria, eteronormando e rendendo “innocente” (nevinnye) la scrittura e il testo.
L’accesso al canone letterario non è mai stato facile per le voci non maschili e anche dove le donne erano (e sono) riconosciute in quanto scrittrici, non è da sottovalutare l’ingombrante necessità di chiedersi sempre quando veloce sarà la cancellazione successiva delle loro voci. Per i testi di autrici, sarà possibile l’inserimento in antologie come lo è per i lavori di autori? Verrà data la stessa possibilità di circolazione, di ristampa, di traduzione? Non sono interrogativi che si possono facilmente ignorare e non affrontare, se si è donna.
Rimane chiaro comunque che lo sforzo normalizzante, compiuto per esempio modificando i pronomi delle voci poetiche, è problematico anche perché rischia di distanziare l’amore narrato dalla sua specifica e genuina espressione lirica, snaturandone il sentimento. Inoltre, si ottiene così una riproduzione di ruoli di genere, contribuendo alla costruzione di una figura lesbica stereotipata, quasi come se il testo poetico non fosse che una performance imitativa della poesia narrante relazioni eterosessuali.
Anche nei decenni successivi, le donne con capitale culturale ebbero la possibilità di costruirsi attorno un ambiente domestico in cui poter vivere i propri desideri saffici, a condizione che il tutto fosse gestito in maniera discreta e, molto spesso, che vi fosse parallelamente una famiglia eterosessuale e gender-conforme che le inserisse con una certa dignità nello spazio pubblico. Ancora, dunque, esposte e nascoste.
Bibliografia
– Brian James Baer, Russian Gay and Lesbian Literature, in The Cambridge History of Gay and Lesbian Literature, Cambridge University Press, 2014, pp.421-437
– Burgin, Diana Lewis, Laid Out in Lavender: Perception of Lesbian Love in Russian Literature and Criticism of the Silver Age, 1893-1917, in Sexuality and the body in Russian Culture, Stanford University Press, 1993: pp.177-203
– Essig, Laurie, Queer in Russia: a Story of Sex, Self and the Other, Duke University Press, 1999
– Healey, Daniel, Unruly Identities: Soviet Psychiatry Confronts the ‘Female Homosexual’ of the 1920s, in Gender in Russian History and Culture, Palgrave Macmillan UK, 2001, pp.116-138
– Healey, Daniel, Homosexual Desire in Revolutionary Russia. The Regulation of Sexual and Gender Dissent, University of Chicago Press, 2001
– Karlinsky, Simon, Russia’s Gay Literature and Culture: The Impact of the October Revolution, in Hidden from History. Reclaiming the Gay and Lesbian Past, New American Library, 1989, pp.348-364
– De Leo, Maya, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi, 2021
di Francesca Gabutti
Immagini di Francesca Gabutti
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