Stappare la vasca dell’Io

La pratica teatrale come aiuto alla dissoluzione dell’ego

ego

L’ego, ovvero l’illusione dell’essere umano di essere separato dal tutto, è alla base delle immani tragedie che affliggono il nostro mondo odierno. Il senso della vita è quello di svelare quest’illusione ai propri occhi, per risvegliare l’uomo a una più ampia comprensione di se stesso e del proprio ruolo nell’universo. Ci sono infinite vie per poter arrivare a questo e ciascuno, consapevolmente o meno, sceglie la propria. Visto che a scrivere questo articolo è un attore, regista, drammaturgo e pedagogo teatrale, vorrei parlare delle professioni artistiche, in particolar modo di quella teatrale, come via verso la dissoluzione dell’ego. A differenza della pittura e della scultura, le quali sono arti individuali, il teatro è un’arte collettiva, espressione quest’ultima, che dal participio passato di colligĕre significa “arte che raccoglie”. Ma cominciamo con calma.

Il linguaggio teatrale consiste in un una terminologia variegata dettata dalla pratica del mestiere. Ad esempio, si dice “impallare” quando in teatro un attore ne copre un altro, nascondendolo alla vista del pubblico. Spesso si fa senza volerlo, se un attore non è ancora esperto nel muoversi in scena e dunque non si accorge della propria posizione. Ma più di frequente veniva (e viene) fatto consapevolmente anche dagli attori professionisti, i quali volendo risaltare sui propri compagni di scena, “facendosi vedere”, assumevano una posizione predominante sul palco finendo per coprire gli altri. Vittorio Gassman, uno dei più grandi rappresentanti del teatro occidentale del secolo scorso, fece scrivere sul proprio epitaffio la frase ironicamente vanitosa: “Non fu mai impallato”.

ego teatro

Il pensiero teatrale trova ancora difficoltà a familiarizzarsi con quella semplice realtà per cui due teste possono formare una sola mente. «È invece illusoria la separatezza delle differenti teste, o persone, che collaborano in un processo creativo. […] Il vero autore è la struttura in moto d’una relazione, è il “fra” che ha connesso le azioni delle diverse componenti»[1].

Il teatro quindi è un’arte che raccoglie attorno a sé molte figure professionali distinte, le quali immettono il loro personale apporto in sinergia con gli altri, creando un distillato dell’esperienza comune dei partecipanti alla creazione che viene chiamato spettacolo. In quest’esperienza omogenea e unitaria è difficile trovare e isolare i singoli apporti artistici (drammaturgo, i vari attori, regista, costumista, scenografo ecc.) poiché sarebbe come voler trovare e separare il rosso e il giallo nell’arancione. Per poter formare questo colore nella tavolozza, serve che il rosso stemperi un po’ della sua durezza e il giallo l’assorba. Non è quindi possibile che l’ego personale resti intatto in una creazione collettiva, ecco perché dell’importanza del lavoro comune: bisogna essere disposti ad ascoltare, ad ascoltarsi, a controllare i propri impulsi automatici e a diventare umili servi di una storia universale che è più grande di noi presi singolarmente, perché il risultato finale sia maggiore della somma dei suoi addendi.

Non è però tutto così lineare. Ci sono molte persone – soprattutto tra gli attori stessi, questo è il dramma – ad avere un’idea a dir poco distorta del mestiere della recitazione e di coloro che lo professano. Si è convinti che a fare questo lavoro possano essere solamente e soprattutto persone “di bella presenza”, con un “talento naturale”, che amano “apparire”. Si giustifica questo istrionismo dell’attore, il suo narcisismo patologico, il suo ego smisurato, come un tratto inevitabile – non si sa bene se come causa o effetto – del mestiere.

ego training teatrale

Invece l’attore, per poter creare un personaggio credibile, deve allontanarsi da se stesso, deve “cedere” tratti della propria personalità, deve dissolvere l’indole, annullare le inclinazioni del corpo a favore dei tratti e delle caratteristiche del personaggio. Deve cambiare tutto: il modo di camminare e muoversi, la proprietà linguistica, persino il tono di voce, per poter servire al meglio il ruolo. Deve, per poter essere credibile, pensare a quello che dice, e in questo pensare, capire le ragioni del personaggio, ovvero comprenderlo. Da questa comprensione scaturisce una maggiore consapevolezza dell’animo umano, il classico “mettersi nei panni degli altri”, e l’attore lo deve fare letteralmente, anche se “gli altri” sono personaggi e non persone. In realtà poco cambia: ciascuno di loro porta il proprio dramma.

Non bisogna abbassare ad esempio Amleto al proprio livello, dobbiamo essere noi a innalzarci verso Amleto: è in questo tentativo di arrampicarci che serve lasciar andare quanto ci è di peso, se vogliamo raggiungere la meta della verità scenica. Per arrivare alla cima, qualcosa deve dissolversi.

Qui arriva in aiuto il training teatrale, pratica quotidiana di allenamento fisico-vocale, che si propone di liberare l’attore dai propri automatismi quotidiani, dalle proprie preferenze, dalla limitazione fisica e mentale che la sua personalità gli ha messo addosso. Un attore libero fisicamente diventa libero anche mentalmente, poiché le posture del corpo sono sempre le stesse e generano posture corrispondenti nella mente e nel sentimento, imprigionandoci nell’illusoria sensazione di essere “a se stanti”. Il training teatrale è in grado di interrompere l’infinito circolo delle proprie attitudini fisiche e liberare anche la mente dagli schemi abituali permettendo di esplorare nuovi punti di vista su se stessi e il mondo intero. Il corpo dell’attore diventa un canale attraverso il quale le energia più nobili passano. Un attore libero e ben allenato, non avrà problemi ad assumere le posture che il personaggio gli richiede. Un attore libero diventa di rimando anche un essere umano libero.

ego

In questo caso sorge un altro problema, un colpo di coda dell’ego. Va bene, «abbiamo l’idea ottimistica del lavoro teatrale che diviene lavoro su di sé, cambia e migliora la persona. Ma quest’idea proietta un’ombra: un affezionarsi dell’“io”, a ciò che attraverso di lui è fluito, l’illusione del canale di essere lui stesso il (nobile) messaggio. Illusione rafforzata dagli spettatori, che proiettano indietro sulla persona dell’attore l’immagine che di lui s’è fissata nella loro testa»[2]. Probabilmente, checché ne dicano le leggende, nessun attore ha mai visto sperdersi la propria personalità a causa di quelle dei personaggi. Molti attori, invece, han certamente corso il rischio di credere che quel che erano in grado di fare in scena rivelasse aspetti del loro essere “io”[3].

Questo rischio è mitigabile dall’umiltà, tratto fondamentale del mestiere, serve costantemente lavorare su questo. All’arte teatrale non piace chi si compiace di sé, per questo manda, a chi ha una scintilla di risveglio, un maestro che lo spoglia da ciò che crede di essere, aiutandolo a creare una distanza dal proprio corpo e dalla propria mente, facendo comprendere che sono solamente degli strumenti, e non sono l’esecutore. Non identificandosi con il messaggio, ma rimanendo degli umili messaggeri, si riesce a non essere un intralcio al fluire delle idee attraverso di noi. L’evoluzione dell’uomo è l’evoluzione della sua coscienza. Se vogliamo evolvere dobbiamo farci da parte, bisogna dissolversi.

A volte penso che sarebbe bello sciogliermi nell’acqua,
sparire lentamente in questo tepore. Un giorno arriverai,
vedrai la vasca piena d’acqua, toglierai il tappo.
L’acqua scorrerà via dal fondo, e io con lei[4].

Note

[1] Ferdinando Taviani, Cieslak promemoria, Teatro e Storia, vol. 10, aprile 1991.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Gabriele Salvatores, Nirvana, 1997.

di Mateo Çili

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