Ziye Ge – Le canzoni di donna mezzanotte

Donna Mezzanotte

Poche dinastie hanno imposto alla corte imperiale cinese un tributo di vergogna più gravoso di quella dei Liu Song (420-479), fiorita – come fiorisce la cicuta – all’epoca delle Dinastie del Nord e del Sud (420-589). Nei suoi ultimi trent’anni, una disastrosa successione di sovrani il cui minor difetto era l’incompetenza regalò agli storiografi un intero catalogo sensazionalistico di scandali e congiure, di sterili, grottesche crudeltà degne di una sezione commenti sui social. E però anche in un libro come il Song shu, la storia ufficiale della dinastia compilata pochi anni dopo la sua caduta, un libro in cui nessun umano eccesso dovrebbe più stupirci una volta superata la quarta pagina, la seguente annotazione è ancora capace di far inarcare qualche sopracciglio:

Negli anni del regno Taiyuan dell’imperatore Xiaowu (376-396), un fantasma cantava la canzone di Donna Mezzanotte (Ziye ge) in casa di Wang Kezhi a Langye. Quando Yin Yun era governatore di Yuzhang, un altro fantasma cantava la canzone di Donna Mezzanotte in casa di Yu Sengdu, uno degli emigranti, che viveva a Yuzhang.[1]

La notizia è curiosa, eppure l’autore del testo non ha ritenuto necessario corredarla di ulteriori dettagli. Invano cercheremmo nel Song shu una risposta alle nostre inevitabili domande su chi fosse Donna Mezzanotte, quale fosse il tenore delle sue canzoni e per quale motivo riscuotessero tanto successo fra gli ectoplasmi del quarto secolo. Ad altre fonti dovremo rivolgerci per appagare la nostra curiosità – ma non prima di aver tracciato un breve quadro del contesto storico in cui le misteriose canzoni e il genere a cui appartenevano, i canti di Wu, furono partoriti al mondo. Signore e signori, la vostra pazienza.

Nell’anno 280 si concludeva il breve periodo della storia cinese noto come epoca dei Tre Regni, un sessantennio che aveva visto il territorio dell’impero contemporaneamente soggetto all’autorità di tre diverse dinastie. Nelle regioni settentrionali, dominate all’inizio dagli imperatori Wei, l’intrigante famiglia aristocratica dei Sima aveva usurpato un trono dall’avvenire incerto e trasformato il regno in una vera superpotenza militare: in pochi anni, gli altri due regni meridionali furono scortesemente invitati a deporre la propria indipendenza ai piedi dei vittoriosi eserciti del Nord. Con fatica, i Sima riuscirono infine a ricondurre tutto l’impero sotto l’ala di un’unica dinastia di sovrani da loro fondata, quella dei Jin Occidentali (265-316). L’ultimo a capitolare (appunto nel 280) fu il vasto regno meridionale di Wu, un paese che, in realtà, i più duri e puri fra i cinesi avrebbero stentato a reclamare come roba loro. Lontane dall’influenza e dalle raffinate preziosità culturali delle corti centrali dell’impero, le regioni a sud del Fiume Azzurro avevano sviluppato col passare dei secoli un codice di usi e di costumi affatto diverso dai loro vicini. Ed ecco perché, quando le armate dei Sima ne varcarono i confini, si ritrovarono a calcare le arene di quello che dovette apparire ai loro occhi quasi come un paese straniero: un diverso dialetto per comunicare, un diverso guardaroba per vestire e, per cantare, un diverso tipo di musica.

Per quanto sgradevoli suonassero al loro orecchio imbambagiato le canzoni tipiche del paese di Wu, i Sima e i loro sudditi settentrionali dovettero presto farci l’abitudine. Nel 316, una micidiale combinazione di tensioni interne tra i feudatari dell’imperatore, rivolte contadine e invasioni di tribù nomadi sconvolgeva le terre soggette ai Jin Occidentali, conducendoli alla rovina. A sud del Fiume Azzurro, e proprio nel paese di Wu, il generale Sima Rui tentava di assicurare la continuazione della linea dinastica, proclamandosi imperatore di quella che gli storici definiscono convenzionalmente dinastia dei Jin Orientali (317-419) per distinguerla dalla sua prima fase. Le regioni a nord dell’impero, un tempo faro di cultura e di civiltà, ospitavano adesso un gruppo raccogliticcio di corti barbare animate da signori della guerra non cinesi; col querulo tono di voce di un adolescente costretto a chiedere soldi alla madre dopo averle sbocciato la macchina, i loro vecchi occupanti si riducevano a mendicare ospitalità in quegli stessi paesi del Sud che quarant’anni prima avevano riunito all’impero col ferro e col fuoco. Nel lungo periodo successivo a questi avvenimenti, detto delle Sei Dinastie per sottolinearne il carattere dispersivo, la letteratura e le arti trovarono mille fertili terreni in cui produrre nuovi frutti; e, per tornare allo scopo principale del nostro articolo, è proprio in questo contesto che la volatile Donna Mezzanotte cominciò a dare voce al proprio canto.

Dobbiamo ai sudori di un personaggio sconosciuto, l’erudito Guo Maoqian (XII sec.), quasi tutto ciò che sappiamo sulle canzoni del paese di Wu: la sua monumentale antologia Yuefu shiji (Raccolta di poesie dell’Ufficio per la musica) ce ne ha conservati più di trecento esemplari.[2] Fino a che punto i testi raccolti da Guo si siano mantenuti fedeli alla loro origine sedicente popolare e quanto, invece, le abbiano messo le corna con successive rielaborazioni ad opera di letterati di professione, è materia di dibattito tra gli studiosi. Interessante in questa sede è soltanto il fatto che, dei molti canti di Wu inclusi nell’antologia, ben centoventiquattro siano esplicitamente ricondotti alla figura di Donna Mezzanotte; in una breve nota, oltre a citare il già ricordato passaggio dal libro della Storia dei Liu Song, il compilatore dimostra di aver raccolto in giro qualche informazione in più sul misterioso personaggio:

Dice il “Saggio sulla musica” del libro della Storia dei Tang: “La Canzone di Donna Mezzanotte era una canzone del periodo della dinastia Jin Orientale. A quell’epoca c’era una donna di nome Mezzanotte: fu lei a comporre questa canzone, le cui note erano dolorose e piene di sofferenza”.[3]

Non è ben chiaro quale rapporto leghi le brevi liriche nell’antologia di Guo Maoqian alle Ziye ge, le originali canzoni di Donna Mezzanotte – se mai davvero esistettero, e lei e loro, fuori dalla leggenda. Non sappiamo se, fra i testi che possediamo, ve ne siano di effettivamente attribuibili all’opera della sfuggente cantatrice; le melodie sulle quali venivano intonati, le note “dolorose e piene di sofferenza”, il rumore dei secoli le aveva ormai disperse ben prima che il nostro indefesso collezionista mettesse mano alla propria raccolta. La loro veste poetica, identica per tutte le canzoni, è la quartina pentasillabica, rimata con schema a b c b. È inoltre evidente come Guo abbia cercato di fare un po’ d’ordine, in mezzo a tanto materiale, raggruppando i testi in base alla loro natura tematica con una ripartizione in cinque categorie: canzoni (42 testi), canzoni delle quattro stagioni dell’anno (75), grandi canzoni (2), canzoni di spavento (2), varianti di canzoni (3) – tutte legate al nome di Donna Mezzanotte.

Sommo protagonista dell’intera collezione è l’amore, felice o sfortunato. Mai raccontato, sempre presentato al lettore/ascoltatore col mezzo di un’impressione o di un’immagine, di vignette altamente suggestive che poco hanno di compiutamente narrativo, secondo una tecnica che nel corso del VI secolo troverà nella poesia composta sotto i Liang (502-557) la sua più raffinata applicazione.[4] Agli occhi di noi moderni, rotti a ogni sorta di trito sentimentalismo tanto in poesia quanto in musica, tanta attenzione per il tema amoroso non appare certo sorprendente: togliere l’amore alla poesia, per noi, risulterebbe tanto improponibile quanto togliere la poesia all’amore. Nell’impero cinese del IV secolo, figlio di un’etica confuciana altamente formale cui la dinastia degli Han (206 a.C.-220 d.C.) aveva prestato tutti i caratteri del più bieco puritanesimo, le cose funzionavano diversamente. Nel panorama poetico dell’epoca, i contenuti scopertamente erotici delle canzoni di Donna Mezzanotte tradivano tutta la loro origine popolare o, quantomeno, il tentativo da parte dei loro ignoti autori di inventargliene una. Il gusto dei letterati cinesi d’élite avrebbe molto mal tollerato la sensualità di un’immagine come quella della Marilyn ante litteram che, nella canzone numero 24, si espone senza vergogna alle ingiurie di un venticello birichino:

 Sistemo la mia gonna
              senza stringere il nodo alla cintura;
 Ritocco il sopracciglio,
              ed esco dall’uscio di fronte.
 La mia gonna, di trama leggera,
             ondeggia seguendo la brezza
 E si apre un poco, mentre rimprovero
            l’aria di primavera.[5] 
Donna mezzanotte dipinto

Il punto di vista più frequentemente adottato dalle canzoni di Donna Mezzanotte è quello della donna, amata e (più spesso) amante, seguita con trasporto nei suoi moti di felicità, trepidazione, sogno, anticipazione, melancolia, tristezza. In molti dei versi, la naturale ambiguità della lingua cinese classica impedisce in realtà di distinguere con chiarezza se si tratti di discorsi diretti, effettivi scambi verbali tra innamorati, o se sia invece lo sguardo indiscreto di un narratore esterno a posarsi sui loro momenti d’intimità. E tuttavia, benché tale apparisse alla pruderie degli antichi letterati, la poesia delle Ziye ge non ha per noi nulla di osceno. Anzi. Il sapido giochetto del dire e non dire, dell’insinuare senza mai affermare, si traduce spesso in visioni di grande bellezza, ricche in potere evocativo: tale è quella della fanciulla che muove senza sosta i pezzi di una scacchiera, perché costretta dall’assenza dell’amato a giocare da sola una partita per due (canzone 14); tale è quella che trasporta il lettore, ospite non visto e non richiesto, nel segreto di una camera interna, con grazia veramente infinita (canzone 90):

 Dormono, nel fresco dell’autunno,
             a finestre aperte;
 Brilla in alto la luna
             e fa piovere in terra la sua luce.
 A mezzanotte, non una parola
             suona fra le cortine:
 Solo, nella stanza, la risata
             di due persone.[6] 

All’interno della raccolta, il nucleo tematico più coerente è forse quello rappresentato dalle canzoni dette “delle quattro stagioni”. Gli anonimi autori vi tracciano corrispondenze più o meno evidenti tra i moti d’animo dei loro protagonisti e certe immagini tratte dal mondo della natura, nelle varie vesti che assume col procedere dell’anno; è un espediente che diverrà particolarmente caro ai cinesi, e che verrà sfruttato fino al parossismo dalla poetica giapponese dei secoli successivi[7]. Ed ecco! vediamo la luna autunnale splendere tristemente sulla protagonista della canzone 86, un quadro dominato dall’oscurità della sera che si fa sempre più vago e indistinto, fino a dissolversi in una nuvola di profumo:

 Apre la finestra
             che irradia la luna d’autunno,
 Smorza la lampada,
             sfila la gonna di seta.
 Con un sorriso entra nella stanza,
 Dal suo corpo si leva la fragranza
              dell’orchidea.[8] 

Altrove, i rimandi alle stagioni si fanno più espliciti nel chiamare alla mente dell’ascoltatore le vetuste accoppiate di primavera e giovinezza, autunno e declino, inverno e vecchiaia: nel rammentare una primavera ormai scorsa, che ha ceduto il passo all’autunno, la voce della canzone 87 riconosce nel procedere delle stagioni un promemoria lasciatole dal destino:

 Ho appena finito di pensare
              All’abbondanza della primavera,
 Ed eccomi alla fine dell’autunno.
 Cerco ancora i piaceri
             di tempi ormai finiti,
 Ma se ne sono andati di nascosto
             i miei anni fioriti.[9] 

Forse anche a causa della sua associazione col mondo degli spettri, tutta la collezione delle Ziye ge offre al lettore la visione di un mondo vagamente inquietante, che non conosce il giorno, in cui ogni umana azione si immagina svolta alla tremola luce di una candela. Se però dovessimo scegliere, fra le cinque categorie di canzoni individuate da Guo Maoqian, a quale accoppiare note “dolorose e piene di sofferenza”, la prima sarebbe forse la candidata migliore. I quarantadue canti che la compongono sono altrettante espressioni di un bruciante desiderio, quasi altrettante volte variamente frustrato. Ci sono mille possibili storie, nei quattro versi della canzone 33:

 È notte fonda,
             non posso dormire;
 Com’è bella la luna che risplende!
 Ho creduto di udire
             là, nel buio, la voce del mio amato;Vieni!”, rispondo invano
             e parlo al vuoto.[10] 

Nulla sappiamo di colei che li recita. Non sappiamo se la sua insonnia sia dovuta a qualche triste pensiero, all’attesa, al piacere offerto dalla contemplazione della luna. Non sappiamo se la voce del suo amante l’abbia udita per davvero, o se le sia stata suggerita da un moto di nostalgia. Non sappiamo se quello che chiama il suo amante sia ancora il suo amante. Nessuno di questi dubbi viene sciolto, ma di certo vediamo molte ombre pesare sulla scena, e di un tipo che la luce della luna, per quanto brillante, non basta a dissipare.

Le canzoni di Donna Mezzanotte conobbero, nell’epoca delle Sei Dinastie, un successo durevole. Strani prodotti dei barbari meridionali, sempre guardati con curiosa diffidenza dalla corte tradizionalista dei Jin, seppero col tempo conquistarsi un pubblico anche tra gli schizzinosi esuli del settentrione. Gli antichi storiografi riferiscono con una punta di amarezza come persino nelle stanze del palazzo imperiale vi fosse chi sapeva intonare i lamenti della sfuggente fanciulla: addirittura cinquant’anni dopo la caduta dei Jin Orientali, allorché l’imperatore Gao della fulminea dinastia dei Qi (479-501) invitò ciascuno dei suoi cortigiani a dar prova della sua più grande abilità durante un banchetto, uno di questi non arrossì nell’intrattenere il sovrano col canto di una Ziye ge.[11] Né la memoria di esse si perse del tutto sotto le dinastie successive, quando una nuova sensibilità in fatto di letteratura convinse anche poeti di razza a tentarne qualche imitazione. In fondo, che un genere poetico e musicale tanto misterioso e sinistro abbia conservato tanto a lungo il suo fascino non è cosa che debba stupirci. Non è stata forse la stessa Donna Mezzanotte a dirlo, in una delle sue canzoni?

 Corde di seta e flauti di bambù
               cominciano a suonare: inizia il canto;
 Le note cristalline
               si diffondono grazie agli strumenti.
 Non sai forse perché la canzone
              desti tanto stupore?
 È perché sale, l’onda del suono,
              dritta dal cuore.[12] 

Note

[1] Cit. in Qiulei HU, “From Singing Ghosts to Docile Concubines: Elite Domestication of the Local in the Wu Songs”, in Journal of the American Oriental Society 139. 4 (2019), ed. American Oriental Society – p. 849. Tutte le traduzioni dall’inglese e dallo spagnolo all’interno dell’articolo sono mie.

[2] Per una discussione del genere yuefu e una più ampia descrizione dell’antologia curata da Guo Maoqian, si veda Anne BIRRELL, Popular Songs and Ballads of Han China, ed. Unwin Hyman, London 1988.

[3] Cit. in Russell MAETH, “La canción popular en la China medieval: Las canciones de la Dama Medianoche’ (Primera parte)”, in Estudios de Asia y Africa 20.2 (1985), ed. El Colegio de México – pp. 138-139.

[4] Sulla poetica dei Liang si veda Xiaofei TIAN, Beacon Fire and Shooting Star: The Literary Culture of the Liang (502-557), ed. Harvard University Press, Cambridge (Mss.) 2007.

[5] MAETH, op. cit. (Primera parte) – p. 146.

[6] Russell MAETH, “La canción popular en la China medieval: Las canciones de la Dama Medianoche’ (Segunda parte)”, in Estudios de Asia y Africa 20.3 (1985), ed. El Colegio de México – p. 436.

[7] Non è un caso che, nel presentare brevemente la storia della poesia cinese per poi esaminarne l’influenza sulla sua controparte giapponese di epoca Heian, Helen Craig McCullough scelga anche alcune quartine dalle Ziye ge per rappresentare il genere yuefu. Le sue traduzioni sono in McCULLOUGH, Brocade by Night: ‘Kokin Wakashu’ and the Court Style in Japanese Classical Poetry, ed. Stanford University Press, Stanford 1985 – pp. 27-28.

[8] MAETH, op. cit. (Segunda parte) – p. 435.

[9] MAETH, op.cit. (Segunda parte) – p. 435.

[10] MAETH, op. cit. (Primera parte) – p. 147.

[11] L’aneddoto è riferito da HU, op. cit. – p. 857.

[12] MAETH, op. cit. (Segunda parte) – pp. 441-442.

di Federico Flamineo Franchin

Autore