Noi non possiamo toccare il silenzio – Parte II

Narrative AI and ‘know what’: A New Method

AI brain

La macchia descritta da Gulliver per combinare lettere e parole e produrre letteratura automatica dimostra che il sogno dell’uomo di costruire un arnese capace di emulare la creatività umana precede di molto l’avvento della cibernetica. Oggi, però, il rapporto fra intelligenza artificiale e creazione letteraria posmoderna è ostacolato dalla confusione di livelli: l’AI non è l’analogo del cervello umano ma, semmai, di una delle sue componenti. Occorre perciò puntare a un lavoro di simbiosi nel segno della fusione fra approcci top-down e bottom-up. Prosegue da qui.

Detto questo, è necessario mettere a fuoco il fatto che la macchina, a differenza di quanto si pensi, non deficita affatto nel linguaggio. La macchina padroneggia perfettamente il proprio linguaggio, almeno a partire dai suoi primi codici del tutto strutturati come il Math-Matic Compiler di Remington Rand o il Flow-Matic Compiler del 1958. Il fatto è che, comprensibilmente, la macchina si serve del linguaggio come un mezzo. La definizione che diede Wiener della cibernetica è interessante in questo senso: «La teoria della ricezione, dell’elaborazione e della trasmissione di informazioni». La cibernetica è linguaggio. Questo fatto illumina anche un aspetto fondante del linguaggio stesso, che ci fa ripensare al telaio di Gulliver e che Friedrich Pollock ha così espresso: «La teoria della comunicazione è una teoria statistica».

L’elaborato di questa tesi avviene all’indomani del prezioso studio Narrative Models: Narratology meets Artificial Intelligence,nel quale gli autori argomentano il fatto che la letteratura prodotta dall’AI sembra sfuggire ai modelli narratologici di Propp, il che sarebbe riconducibile alla differenza fra histoire (contenuto del racconto) e discours (esplicazione del contenuto), con l’accento posto dall’AI decisamente sul primo dei due aspetti. Questo fatto è secondo noi spiegabile proprio per l’utilizzo strumentale e non finalistico svolto dalla macchina nei confronti del discours, sotto l’imperativo che il fine giustifica i mezzi.

Prendendola alla larga, si può interpretare l’impiego stesso dei numeri in tal senso. Il numero è per la macchina latore di informazioni, ma per definizione il numero è l’esatta antitesi dell’informazione in quanto tale, poiché ne disperde quasi completamente il contenuto contestuale. I compiti della matematica sono, da questo punto di vista, quasi opposti rispetto a quelli della letteratura. La matematica parte da dati noti e procede verso soluzioni ancora ignote. La letteratura invece escogita i propri soggetti nel segno di un’attraente incognita, e li sviluppa poi conseguentemente non “attraverso” il linguaggio, come si potrebbe pensare, ma “sotto-forma-di” linguaggio. I suoi traguardi sono linguaggio. La letteratura è, nei confronti di se stessa, mezzo e fine allo stesso tempo. Proprio su questa sua ibridazione gioca Derrida nel distinguere fra uso e menzione, definendo la letteratura una «testimonianza» che dice sempre altro da se stessa.

È dunque impossibile per la macchina attuare una scelta coerente fra le parole perché la ricerca di una metrica fra gli stati è frutto di incessanti micro-intuizioni e, come dice anche Max Frisch in Homo Faber, «il robot non ha bisogno di intuizioni». Eppur tuttavia – e qui la nostra di intuizione – il robot può comunque suscitarne, può cioè ingenerare nuove intuizioni.

Anche al linguaggio infatti, a patto di restare nella metafora, si attaglia il terribile e famigerato binomio onda/particella: una miriade di pacchetti discreti sottoforma di grafemi capaci di essere letti e legati secondo sintassi in una prosa fluida. Su questo, è nostra opinione che tale processo possa incrementare la propria virtù attraverso una fusione degli ambiti top-down e bottom-up, dando fiducia a quanto Hans Moravec diceva in proposito della macchina, che cioè i veri robot verranno creati quando si riuscirà a sintetizzare i due ambiti. L’uomo stesso in fondo, come sappiamo, è figlio di un sapiente dosaggio tra la filogenesi evolutiva e la sua personale ontogenesi. Estendendo tutto ciò al suo rapporto con la macchina, dal momento che è essa stessa già inclusa all’interno di tale filogenesi come suo apice evolutivo, uno scopo virtuoso sarebbe quindi non tanto quello di creare un AI pari se non superiore alla mente umana, quanto creare un simbionte uomo-macchina nel segno dell’ibridazione il che, pensato sul fronte della produzione letteraria, punterebbe verso una narrativa al carbonio-silicio.

Un AI capace di emulare in tutto e per tutto la creazione letteraria umana, infatti, quand’anche fosse mai possibile, creerebbe probabilmente una letteratura unicamente per robot, magari scritta in cobol (Common Business Oriented Language) o in algol (Algorithmic Language), e il nostro vecchio e caro “C’era una volta” diverrebbe probabilmente qualcosa di simile a un:

∀ x(R)∃T|x∈T

Dove ‘R’ è il Racconto, da cui deriva che per ogni elemento x del racconto esiste un tempo T, per quanto indefinito, tale per cui x appartiene a T.

Mi chiedo quale lettore umano vorrebbe mai affrontare tutto ciò al principio di una fiaba.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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