La voce del matto

Sulle manifestazioni degli ultimi mesi

La Tigre di Carta accoglie la richiesta di aprire uno spazio di dibattito sulle contingenze storiche e socio-politiche che stiamo tutti vivendo.

Per evitare schieramenti campanilisti, rispolveriamo gli antichi confronti dialettici del Sic et non a cominciare dai due primi articoli, in parte contrapposti in parte complementari, attorno al medesimo tema.

Si tratta di un contributo esterno e della replica di un membro interno alla nostra redazione. Con ciò invitiamo i lettori e gli autori che ci seguono, qualora interessati, ad arricchire il discorso o tramite invio di pezzi coerenti e argomentati, o scrivendo una risposta sotto forma di commento sulle pagine social, all’insegna della stessa etica di dibattito libero e maturo.

manifestazioni

Ottobre 2020. Perché le manifestazioni di questi giorni destano così tanta perplessità? Se lo scenario presente nel suo complesso, data la sua penosa natura irrazionale, caotica e desolante, sarebbe più che sufficiente in una società che gode di buona salute a giustificare una tale mobilitazione, dobbiamo fare comunque lo sforzo di pretendere che queste non siano le cause fondamentali e profonde che la scatenano.

Perché certo non può bastare ridurla alle questioni che tutti sappiamo essere sul piatto: lo stupro della Costituzione, la definitiva demolizione del mondo del lavoro e della scuola così come li abbiamo conosciuti, la demonizzazione dei giovani, il consolidamento dell’individualismo come normale condizione dell’uomo – moderna e sicura –, la scomparsa degli ultimi spazi di aggregazione collettiva, compresa la famiglia, e altri innumerevoli aspetti, soprattutto legati alle contingenze attuali, altrettanto gravi.

Se così fosse infatti dovremmo ipotizzare che la protesta sia frutto di una visione chiara e consapevole nella sua complessità generale. Ma, per quanto estremizzati, tutti i problemi in questo nostro presente sono frutto di decenni di trasformazione della società e della vita sociale al ribasso che ogni individuo ha vissuto sulla propria pelle. E se è vero che la corda è tesa sul punto di spezzarsi, resta comunque intatta la prima questione: cosa non torna di questa protesta? O anche: perché adesso e non prima?

Aggiungiamo che non c’è né un nemico unico contro cui rivolgere la lotta, né un discorso comune se non da un punto di vista tecnico: il risultato è una folla formata da gruppi assolutamente separati tra loro. I lavoratori dello spettacolo, dello sport, i tassisti, i piccoli imprenditori, gli studenti, i militanti delle più disparate aree politiche, i nuovi e vecchi disoccupati, e via dicendo: tutti rivendicano il diritto all’indipendenza economica, all’occupazione, dunque alla possibilità di immaginare un futuro, se non promettente, quantomeno inoffensivo. Ma ognuno reclama questo diritto imprescindibile per sé. È infatti percepibile uno scollamento fisico e mentale all’interno di questa massa, che produce nell’occhio dell’osservatore un dolore e un’ambiguità che non si possono celare.

Sarà per questo che la reputo, tra le altre cose, così potenzialmente pericolosa. Perché senza la mediazione di un’idea, o almeno di una prospettiva, la protesta è energia pura che può trasformarsi in violenza in qualsiasi momento.

Ma non parlo della violenza superficiale ed evidente riportata dai giornali agli inizi di ottobre (quella delle bombe carta e delle vetrine sventrate per intenderci), ma della violenza figlia di quell’individualismo che ha sopito profondamente ogni capacità di comprendere e sentire gli altri, e che diventa un contenitore esplosivo fatto di rabbia, frustrazione, repressione, anni di vita economicamente precaria e svilente. Il tutto senza nemmeno il conforto di una comunità sociale in cui riconoscersi, a cui appartenere.

Un altro punto interessante è che oggi la contestazione si svolge su due livelli: quella che potremmo definire “serale”, dato che si esprime concretamente oltre i limiti imposti dal coprifuoco, e quella “diurna”, che invece si svolge perfettamente entro i confini della legalità. Quest’ultima è formata da specifiche categorie di lavoratori colpite duramente dalla crisi, l’altra invece è contestazione pura, figlia dell’energia, altrettanto pura, non incanalata. Al suo interno troviamo pezzi della società visibili (lavoratori, studenti – gli intellettuali non più –, ma anche contestatori seriali, ovvero frange di persone che non aspettano altro che un buon motivo per “far casino”, in un moto quanto meno fuori luogo, anacronistico) e pezzi di società letteralmente invisibili. Se questi ultimi dovessero vedersi portare via ancora a lungo quel misero pezzettino di indipendenza garantito dal lavoro nero, dall’accattonaggio, dalla delinquenza di basso rango, dalle pensioni minime o inesistenti, non sappiamo in alcun modo prevedere come potrebbe evolvere la loro protesta, e la guerriglia potrebbe raggiungere dimensioni spropositate.

Intanto con i lavoratori in protesta l’opinione pubblica e il giornalismo si esprimono coi toni del pietoso pietismo da quattro soldi. Compatendoli e giustificandoli dietro la vecchia retorica de “il lavoro è sacro” raggiungono due obbiettivi in un colpo solo: da una parte danno l’illusione ai manifestanti di essere ascoltati e presi in considerazione nel merito di ciò che esternano, dall’altra danno ai futuri potenziali contestatori il giusto modello di riferimento. Nel secondo caso invece, cioè contro i violenti, si ricorre alla vecchia pratica del moralismo travestito da santissima morale. Il contenuto e la forma vengono immediatamente demonizzati aprioristicamente così da rendere facile la sentenza: una condanna decisa, univoca e irrevocabile.

Se questi movimenti spontanei appaiono così frammentati, specialistici o confusionari, ciò è dato da un aspetto che i giornali e i mezzi di informazione non si curano mai di menzionare. Perché se è innegabile che ci troviamo di fronte ad una crisi importante, ad una società oramai frammentata per definizione e conformazione reale, è altrettanto innegabile che il vero aspetto che rende queste manifestazioni così dubbie è solamente uno: l’assenza di un individuo cosciente di sé (dei suoi limiti, delle sue debolezze, attratto dai problemi della società nel suo insieme) dietro il contestatore.

Lo dirò più chiaramente: è sacrosanto rivendicare l’attuazione della Democrazia, il diritto alla scuola e al lavoro, la possibilità di sperimentare l’agognata libertà concessa dalla Costituzione, ma tutto ciò è niente paragonato alla scomparsa di un essere umano senziente. La disgregazione in fondo nasce sempre dalla stessa eterna equazione: non puoi conoscere o modificare nulla se non conosci te stesso. Non puoi provare o sperimentare amore, empatia, in definitiva niente che non riguardi la misera tutela della propria condizione personale, o al massimo famigliare, legata agli aspetti concreti e burocratici della vita.

E nel nostro tempo non siamo semplicemente schiacciati da questo aspetto “burocratico” – gli italiani non sono più disposti ad abbandonare quel tanto di benessere e comodità, sia pur miserabile, che hanno in qualche modo raggiunto – ma più di tutto disabituati (di fatto, quindi, impossibilitati) ad avere una prospettiva, cosa che solo un individuo abituato al dialogo con sé stesso può ipotizzare. E la prova provata di ciò sono le richieste prettamente economiche che si avanzano nelle varie contestazioni di questo periodo a suon di slogan.

Una cosa è certa: la tragedia che stiamo vivendo non è unicamente imputabile a fatti e mutamenti concreti. Magari i nostri problemi potessero essere ridotti alla mascherina, al virus, al mondo del lavoro, ad una personale crisi economica o esistenziale, o persino, alla disgregazione e riorganizzazione di un’intera società civile. Colpisce, ancora di più del modo tragico in cui abbiamo ridotto i servizi e i diritti essenziali di una società, lo stato pietoso in cui versa l’essere umano (le due condizioni coincidono perfettamente). Forse chi ha creduto e sostenuto che gli uomini in fondo non sarebbero mai cambiati nella loro accezione bella e profonda, antica e giusta, ha preso un grande abbaglio.

Il lettore mi scusi se dopo aver detto tutto ciò non sono in grado di fare il passaggio successivo, quello che esce dalla semantica e si va ad insinuare nelle ricette e nei consigli sugli acquisti che potrebbero contrastare queste questo stato di cose.

Ma oggi che il caos, (oramai tecnicamente abolito in questa società dei consumi che impone ed esalta l’omologazione), si è riappropriato della scena in una frazione di tempo minima, non posso far altro che constatare il mio stato di lutto profondo. Non avendo la capacità, forse dovrei dire la forza, di ipotizzare un mutamento concreto, mi accingo a muovermi in questo scenario con un sentimento che sfiora miseramente il reazionario, ma che forse è più di tutto sovversivo. Ricorro insomma alla mia voce e alla mia ottica di “artista”, e cioè, come vorrebbe ancora oggi la buona borghesia quando l’artista si fa triste e profetico, quella di un matto. Per questo, contro ogni apparente logica (e persino in maniera sconnessa, poco virile), il mio grido disumano invita a riappropriarci di quei luoghi in cui nessuno mai potrà avere accesso senza il nostro permesso: il luogo dell’anima, dell’intimità, della ragione, dello spirito, dell’intelletto (unici luoghi dove è garantita una vera e piena privacy). È vero, faccio questo invito senza pensare a come organizzarsi politicamente e lavorare affinché chi protesta capisca che la soluzione alla sua miseria materiale e morale non ruota semplicisticamente intorno al consumismo capitalistico, ma bensì al ripensamento e alla riorganizzazione di una società intera. Propongo dunque forse la riscoperta dell’interiorità distaccata dalla lotta per un miglioramento delle condizioni di vita? Si. Lo faccio attraverso la voce del matto, dove alla logica si sostituisce la sensibilità, alla storia l’intuizione e alla lotta pragmatica la fantasia; e proprio perché considerazioni di un matto, andrebbero seriamente ascoltate.

In questo tempo di enorme cambiamento, dove viviamo un vero e proprio salto di specie, preoccupiamoci di ciò che vogliamo portare con noi nel nuovo mondo che ci attende e che ancora non conosciamo. Pensiamo attraverso il pensiero millenario anziché quello tecnico e sterile a cui siamo abituati. Ricordiamoci che siamo stati Dio per un tempo discreto e che si può immaginare felicemente un mondo senza lavoro salariato, ma senza degli abitanti dotati di spirito critico no.

di Alessandro Centolanza

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