«Tutto il potere ai soviet!»

Lenin e la crisi rivoluzionaria

La crisi, scriveva Bensaïd, è l’apertura di un fascio di possibilità. Compito di un partito rivoluzionario, scriveva Lenin quasi cent’anni prima, è trasformare la crisi sociale in crisi rivoluzionaria. Se c’è stato un partito che è riuscito in questo compito, questo è stato il Partito socialdemocratico russo (bolscevico), nel 1917.

La guerra infuriava da tre anni. Lo zarismo, un elefantiaco apparato di dominio in cui vecchie e nuove forme di sfruttamento si fondevano tra loro senza trovare una vera e propria sintesi, era ormai entrato irreversibilmente in crisi. Una crisi antica, a ben vedere, che si era già manifestata nella rivoluzione incompiuta e sconfitta del 1905. E, come all’epoca, la “scintilla che infiammò la prateria” fu la guerra russo-giapponese, così la Grande Guerra, con il suo immenso portato di morti e di distruzione, risvegliò un conflitto sociale in realtà mai sopito.

Le rivoluzioni sono estremamente contraddittorie. Quando le si ricostruisce in sede storica si tenta sempre di individuare l’evento clou che fa dire: «Ecco, questa è la rivoluzione!». La presa della Bastiglia, la presa del Palazzo d’Inverno, lo sbarco del Granma, la Lunga Marcia… E, in effetti, esistono “eventi rivoluzionari”: le insurrezioni, il momento in cui il popolo in armi abbatte i simboli del potere precedente e costruisce un potere diverso, nuovo.

Tuttavia, le rivoluzioni sono essenzialmente dei processi: non c’è un giorno preciso in cui la rivoluzione scoppia, in cui vince. In cui il vecchio mondo muore e nasce il nuovo.

Processi evenemenziali ed eventi processuali, le rivoluzioni aprono la strada a una serie di differenti futuri. È compito di un partito rivoluzionario cercare di realizzarne uno, quello che corrisponde al proprio programma.

Il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo nel calendario gregoriano) viene indetta una manifestazione a Pietrogrado, a cui partecipano principalmente le donne. Nei giorni seguenti, gli scioperi contro la penuria di cibo e la guerra si moltiplicano in tutto l’Impero. Lo zar dà ordine di sciogliere la Duma e di reprimere le manifestazioni. I soldati, però, a differenza del 1905, non solo non sparano sui lavoratori, ma si uniscono a loro.

Rinascono i soviet, letteralmente i “consigli”. Sorti per la prima volta dodici anni prima, sono le assemblee in cui operai, soldati, contadini eleggono i propri rappresentanti e discutono i provvedimenti urgenti. Nascono soviet sul fronte, nelle principali città, nelle fabbriche, perfino nelle zone rurali (in Asia centrale!), solitamente meno permeabili alle – come dire… – “novità”.

Il 2 marzo la situazione è così compromessa che Nicola II, per grazia di Dio Imperatore e Autocrate di tutte le Russie, abdica in favore del fratello Michele. In realtà è un pro forma. Il giorno dopo l’erede al trono fa atto di rinuncia e consegna i poteri a un governo provvisorio presieduto dal principe L’vov.

All’estero, nel frattempo, gli esuli russi seguono gli avvenimenti. Tra questi c’è Lenin che, espulso dall’Impero dopo la rivoluzione del 1905, allo scoppio della guerra aveva riparato in Svizzera. La convinzione che il vecchio mondo fosse maturo per la trasformazione rivoluzionaria era comune nei circoli socialisti dell’epoca. Che le campane che annunciavano la rivoluzione mondiale sarebbero suonate a breve un po’ meno. Ancora il 22 gennaio Lenin ebbe modo di dire a un’assemblea di giovani operai svizzeri alla Casa del Popolo di Zurigo: «Noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione. Penso però di poter esprimere la fondata speranza che i giovani, i quali militano così egregiamente nel movimento socialista della Svizzera e di tutto il mondo, avranno la fortuna non soltanto di realizzare la futura rivoluzione proletaria, ma anche di condurla alla vittoria».

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L’amnistia per i reati politici apre la strada del rientro, tanto più necessario per non restare isolati, per poter intervenire nel processo e provare a dirigere la difficile strada del cambiamento. Ma siamo nel 1917, la guerra imperversa in tutta Europa, i cittadini russi vengono arrestati se si trovano sul territorio tedesco o austro-ungarico e anche la Gran Bretagna e la Francia negano il permesso di passare: temono la rivoluzione e fanno di tutto per evitare una ulteriore destabilizzazione dell’alleato.

Ma se le potenze della Triplice Intesa temono la rivoluzione, l’Impero austro-ungarico e il Secondo Reich tirano un sospiro di sollievo. In nome della Realpolitik, il governo tedesco apre alla mediazione e concede il lasciapassare per Lenin, per la moglie e per altri trenta compagni.

Il viaggio dura sette giorni. Il convoglio attraversa cinque Paesi (Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia e Russia) e arriva nella notte del 12 aprile (secondo il calendario gregoriano) nella capitale dell’ormai tramontato Impero degli zar. Ad attenderlo una banda che suona la Marsigliese, una folla di lavoratori e di soldati e il presidente del Soviet di Pietrogrado, Nikolaj Čcheidze, georgiano, menscevico.

Lungi da noi rappresentazioni messianiche. L’arrivo di Lenin non coincide con la parusia del capo, con l’arrivo, cioè, di un novello Mosè che guiderà il suo popolo attraverso le acque della guerra civile verso il socialismo. Il partito può contare su poche migliaia di militanti, la situazione è confusa, vi sono conflitti tra chi vorrebbe appoggiare il governo provvisorio e chi sostiene invece la necessità di trasformare la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Ancora nella notte tra il 24 e il 25 ottobre la linea insurrezionale di Lenin e Trockij fatica non poco a passare nel comitato centrale (e non è approvata all’unanimità): “oggi o mai più” è l’argomento che alla fine pare risultare decisivo.

Ma molti mesi devono ancora passare e nelle convulse fasi rivoluzionarie il tempo ha la prodigiosa capacità di accelerare incredibilmente. La posizione del partito all’altezza di aprile è molto confusa e in viaggio Lenin stende una serie di bozze da presentare ai militanti. Passeranno alla storia con il nome di Tesi di aprile. In estrema sintesi, la proposta è semplice: forzare le contraddizioni che si sono aperte a febbraio, aprire le faglie del conflitto e trasformare la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Essere coerenti, conseguenti con i propri principi: appoggiare il governo dei soviet e negare legittimità al governo provvisorio[1].

Torniamo così all’incipit. La crisi è l’apertura di un fascio di possibilità e il compito di un partito rivoluzionario è trasformare la crisi sociale in crisi rivoluzionaria. Le Tesi di aprile si prefiggono questo scopo, la tattica bolscevica nel ’17 raggiunge questo scopo. Nell’arco di pochi mesi le masse dei lavoratori si allontanano, deluse, dal governo provvisorio, ma, lungi dal tornare all’“ovile” della monarchia o alla passiva accettazione della fame e della guerra, decidono di imbarcarsi in un nuovo, più radicale, cataclisma sociale: la Rivoluzione d’Ottobre e la guerra civile, primo anello di una catena che avrebbe dovuto – nei loro auspici – far sorgere il «sole della rivoluzione socialista mondiale».

La storia andrà diversamente. La rivoluzione in Occidente verrà soffocata nel sangue dalle squadracce fasciste e dalla socialdemocrazia e la controrivoluzione staliniana ucciderà la repubblica sovietica nel gelo della burocrazia. Ma la rivoluzione non è una strada lastricata a senso unico. È un futuro ottativo pregno del progetto che si intende realizzare e, come non si stancava di ribadire Bensaïd, è sempre giusto ribellarsi.

Note

[1] Ogni fase rivoluzionaria e prerivoluzionaria è caratterizzata, seppur con le differenze del caso, da un dualismo di poteri: assemblea costituente e monarchia, Comune di Parigi e governo di Versailles, soviet e governo provvisorio… Il segreto della vittoria del processo rivoluzionario consiste precisamente in questo, nel fatto cioè che, a un certo punto, la legittimità dell’istituzione nata dalla rivoluzione viene riconosciuta come l’unica avente diritto di esistere e di operare, condannando alla sparizione l’altro centro di potere. Non è un caso che il primo atto insurrezionale di ottobre sia stato l’arresto dei ministri del governo provvisorio e non è un caso che l’Assemblea costituente, figlia naturale del governo provvisorio, sia stata sciolta di imperio nel gennaio 1918 dal III Congresso Panrusso dei Soviet. I soviet, in quel momento, avevano vinto la prima battaglia, quella del riconoscimento come unico potere legale nel territorio dell’ex Impero russo. La guerra civile sarà la seconda grande sfida da vincere. I soviet periranno, anche se non formalmente (fino al 1991 l’Unione si definisce sovietica), con la vittoria, negli anni Venti, della burocrazia e di Stalin come suo rappresentante.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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