Perché per la storia è più facile parlare delle andate che dei ritorni?
Quando Tolkien volle dare un titolo al libro scritto da Bilbo ne Lo Hobbit, cercò un concetto che rappresentasse al meglio l’idea dell’esperienza come fonte di autoformazione e cambiamento. Poiché tutto il racconto faceva del viaggio e dell’osservazione distale delle cose l’origine di quel tipo di esperienza trasformativa che viene esaltata in buona parte dei suoi testi, decise di intitolarlo Andata e ritorno. Sin dai tempi dell’epopea di Gilgameš, fino agli itihāsa indiani, all’Odissea e ai νόστοι raccolti da Eumelo di Corinto nel VII secolo a.C., il compimento di un’impresa presentava nella letteratura e nella coscienza collettiva la stessa importanza che aveva il ritorno dalla stessa. In epoca medievale, la chanson de geste mantenne viva questa suggestione di una progressione geografica dell’eroe verso la conquista della propria inestesa identità, aggiungendo al concetto di viaggio mistico quello biblico di peregrinazione salvifica.
Colui che ha visto molte cose può non trarne la materia prima necessaria a mettere in atto una profonda evoluzione del sé, ma difficilmente non ne trarrà quella necessaria ad affinare la propria visione della realtà. La possibilità che su questo punto ci si possa ingannare e che, per dirla con Leopardi[1] o Guccini[2], da tempo e mare, di fatto, non si impara mai niente, costituisce una delle più meste ipotesi che si possano formulare: essa ha ispirato alcuni tra i testi più acuti sulla futilità delle nostre più elevate ambizioni[3]. Gli antichi avevano questo timore esattamente come lo abbiamo noi – soprattutto perché la visione del tempo nel passato era tipicamente ciclica e questo minava alla radice la possibilità che tanto i singoli individui quanto l’umanità stessa potessero progredire più di tanto sotto qualsiasi aspetto. Erodoto, Platone, Aristotele e Polibio[4] hanno trasmesso alla posterità una concezione della storia dominata dallo spettro di un eterno ritorno suppergiù ineludibile, specialmente in seno alla sfera politica, laddove un principio di ἀνακύκλωσις alternerebbe degenerazioni e rigenerazioni ripetitive delle buone forme di governo. Nell’undicesimo libro dell’Odissea, Tiresia predice che Ulisse, dopo essere tornato a casa, finirà con il rimettersi nuovamente in viaggio. Questo fatto non ci stupisce, perché la fascinazione di Ulisse per l’altro da sé è una cifra fondante del suo carattere tanto quanto lo è il suo attaccamento a Itaca. Il fatto che le due cose siano in conflitto non significa che una debba elidere l’altra, perché forse la libertà umana è garantita solo e soltanto dalla presenza di paradossi nel nostro modo di pensare. C’è però più evoluzione interiore in un Achille commosso dal lutto di Priamo che in tutti i racconti aventi Ulisse come protagonista.
Altre forme di cronaca rafforzano questo dubbio. La famosa Anabasi di Ciro di Senofonte racconta le grosse difficoltà da lui incontrate nel guidare diecimila mercenari greci da Babilonia al Mar Nero in seguito a una sfortunata spedizione militare condotta da Ciro il Giovane contro Artaserse II Mnemone, re di Persia e dell’Alto Egitto, nella prima metà del IV secolo a.C. Questo difficoltoso viaggio durò più di un anno e l’autore ci offre l’idea che il ritorno, o comunque la fine del viaggio, sia ciò a cui maggiormente anela la sua armata. Eppure, appena sembra che la meta sia finalmente raggiunta, lo vediamo raggiungere Pergamo per offrire i servigi delle sue truppe al generale spartano Tibrone, così che possa riportarle insieme alle proprie in territorio persiano per una nuova, analoga spedizione. Senofonte era certamente un cosmopolita, come dimostra anche il suo stile attico arricchito da un agile uso di inflessioni e termini dorici, laconici, ionici e asiatici. Al termine della lettura, però, si ha la sensazione che l’intento apologetico dell’autore verso la propria stessa condotta non sia percorso neppure dall’ombra di un ripensamento o di un cambio di prospettiva. Anche il genere storico e geografico delle periegesi sembra finalizzato più a divertire e stupire il lettore che non a insegnargli qualcosa di edificante. Non sostengo che ciò debba costituire una delusione, perché si può anche accettare l’idea che girare il mondo sia soddisfacente e piacevole a prescindere dalle lezioni che possiamo trarne; ma qualcosa di importante come il senso dell’esperienza sembra sgusciarci via dolorosamente tra le dita.
Da buon campione del pensiero rinascimentale, Giambattista Vico ipotizzò, nella Scienza Nuova, che la storia potesse anche ripetersi, ma con un moto spiraliforme che tendeva comunque a un perfezionamento generale. Barbarie e civiltà si alternerebbero inesorabilmente senza potersi annientare mai, similmente ad Amore e Contesa nel pensiero empedocleo; ma mentre la barbarie distrugge senza creare, la civiltà crea conquiste e rappresenta la mano delicata della Divina Provvidenza. Tutte le conquiste che sfuggono alla barbarie, di ciclo in ciclo, si commutano così in una massa crescente di potenziale che viene trasmesso alle generazioni del ciclo successivo. In un certo senso, potremmo convenire con lui osservando come anche i tentativi organizzati di riportare indietro, nel bene o nel male, le lancette dell’orologio si siano immancabilmente tradotti in fallimenti totali o nella creazione di qualcosa che alla fine era comunque del tutto nuovo. Si pensi alla volontà augustea di rigenerare l’etica della Roma repubblicana, a quella dei fraticelli che speravano di rigenerare la Chiesa all’insegna della povertà evangelica, oppure a quella del Congresso di Vienna di riportare in auge l’ancien régime. Nessuna di queste aspirazioni si è realizzata nella maniera immaginata dai suoi promotori, ma ha piuttosto portato risultati diversi e pregni di impreviste conseguenze.
Eppure è difficile non provare la desolante sensazione che l’eredità del passato sia molto spesso inutile in se stessa o resa inutile dal disinteresse che tende a circondarla. Forse è per questo che la storia stenta tanto ad appropriarsi di materiale che invece la letteratura ama così tanto. Per il romanziere, parlare di un ritorno è l’occasione perfetta per cercare un punto in cui il caos che ricopre l’esistenza presenti una piccola scucitura da cui intravvedere un universale nascosto. Per lo storico, invece, significa affrontare lo spettro della ricorsione, al quale riesce molte volte più agevole soggiacere in silenzio, mentre ci si limita a parlare delle andate, delle imprese, delle azioni che cambiano il flusso degli eventi con la forza imperiosa di una fattualità per nulla riflessiva.
È come se, per fare un esempio, si instaurasse sottilmente in noi l’idea che l’impresa di Cristoforo Colombo si sia esaurita nel suo essere arrivato in America, quando invece l’importanza di questo risultato sarebbe stata nulla senza il compimento del ritorno. Dopo il più celebre, Colombo fece altri tre andirivieni tra America ed Europa. La sua personalità incarna appieno l’inquieta e un po’ folle temerarietà dell’innovatore in quella particolare declinazione che ne è l’esploratore. Innanzitutto perché i suoi critici avevano ragione e lui torto. Infatti, essi non sostenevano quasi mai che la terra potesse essere piatta[5], ipotesi che molti intellettuali avevano continuato ad escludere sin dai tempi di Eratostene, bensì che potesse essere molto più grande di quanto egli la considerasse. Se non ci fosse stato di mezzo un altro continente, una caravella avrebbe percorso la distanza da Palos de la Frontiera al Giappone, salvo imprevisti, in oltre quattro mesi, ma nessuna nave dell’epoca possedeva una simile autonomia. Il fatto che la monarchia spagnola non abbia mai inteso onorare tutti i punti delle Capitolaciones[6] che aveva sottoscritto con lui il 17 aprile del 1492 a Santa Fe, il fatto che egli abbia sofferto diversi ammutinamenti e il fatto che la ricerca dell’oro a cui si diedero i suoi marinai esplose, pressoché subito, in un crescendo di violenza e soprusi contro gli indigeni senza per questo dare i fastosi esiti da lui auspicati non fece mai cambiare il punto di vista di Colombo e non gli conferì mai la malinconica intuizione che gli avrebbe poi messo in bocca De André in una strofa[7] davvero potente. L’individuo può incontrare il cambiamento nel viaggio soltanto laddove rechi in se stesso, in una sua qualche predisposizione a ospitare la differenza nei suoi pensieri, i semi di un possibile cambiamento. Questo tipo di eventi interiori, però, raramente lascia impronte appariscenti sul terreno della storia e pertanto assurge raramente a fatto ricordato.
Note
[1] Cfr. Giacomo Leopardi, Al Conte Carlo Pepoli, poesia composta nel marzo 1826 a Bologna.
[2] Cfr. Francesco Guccini, Gulliver, terza traccia dell’album Guccini, 1983.
[3] Un bell’esempio è il poemetto di Robert Browning Child Roland to the Dark Tower Came, del 1855, che offre un agile affresco ironico dell’epica cavalleresca con un tono assai più tenebroso di quello impiegato da Cervantes.
[4] Alle Storie di quest’ultimo dobbiamo la teorizzazione finale dell’anaciclosi, rispetto alla quale accoglieva l’eccezionalità spartana già evidenziata da Aristotele e vi assommava quella romana.
[5] L’anticattolicesimo di Washington Irving lo indusse a dipingere Colombo come un eroe eretico che sconfisse la Chiesa oscurantista; tuttavia furono proprio autorità ecclesiastiche come il vescovo Alessandro Geraldini a fornirgli l’appoggio decisivo presso Isabella I di Castiglia. La Chiesa si è dimostrata ostile all’eliocentrismo e alla natura materiale dei corpi celesti, ma la sfericità della Terra era spesso accolta come un segno di perfezione del progetto divino.
[6] Il contratto stabiliva che, qualora Colombo avesse avuto successo, egli sarebbe diventato ammiraglio, viceré e governatore delle terre colonizzate, un titolo ereditario, accompagnato da una rendita pari al 10% dei proventi di tutti i traffici marittimi.
[7] Cfr. Fabrizio De André, prima ed eponima traccia dell’album Rimini, 1978.