A chi appartengono il sottosuolo e i tesori che può nascondere?
on potrebbe essere più lapidaria la previsione dell’art. 832 del nostro Codice Civile e orientata a conferire il non plus ultra dei poteri di disposizione e godimento: «Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico».
L’istituto della proprietà ha conosciuto interessanti mutamenti genetici nel corso dei secoli. La sua famiglia di appartenenza è quella dei diritti reali, categoria che contrariamente alle parvenze etimologiche non risale al diritto romano, essendo stata elaborata in epoche successive mediante il ricorso alla figura di iura in rem, utilizzata per identificare e qualificare i rapporti con le cose materiali. I diritti reali si caratterizzano per: (i) immediatezza, il potere di esercitare direttamente il diritto sulla cosa senza l’intervento di terzi; (ii) l’assolutezza, l’obbligo di astensione da ogni interferenza nel rapporto tra titolare e bene; (iii) inerenza, opponibilità a soggetti che vantano diritti sulla cosa.
La proprietà origina come previsione assolutistica, suggellata nel brocardo «cuius est solum, eius est usque ad caelum (ad sidera), et usque ad inferos» (ossia, chi è proprietario del suolo lo è dalle alle stelle agli inferi). Il titolare disponeva di una illimitata facoltà di godimento, non comprimibile né da rapporti privatistici né pubblicistici.
Questo istituto si è poi evoluto sino a incastrarsi con la cosiddetta funzione sociale. L’art. 42 della nostra Costituzione leva un inno giusnaturalistico sancendo che la «proprietà privata è riconosciuta e garan- tita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». I nostri padri costituenti hanno inteso mitigare le esigenze del singolo con quelle collettive. La legge ordinaria disciplina i limiti della proprietà, al fine di garantirne l’accessibi- lità a tutti e di regolamentarne le modali- tà di acquisizione e godimento.
Il legislatore del 1942 si avvicina alle coordinate liberali già tracciate dallo Statuto Albertino, senza interpolarne l’inviolabilità, né le ricadute sacrali, né le garanzie ariose di libertà. L’art. 29 dello Statuto, sostenendo che «tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili», ha consacrato una formula di importanza cardinale per l’iniziativa privata dell’epoca e conferito alla proprietà la carica prioritaria di diritto “innato”, soggetto a limitazioni solo in circostanze eccezionali. Questa tesi è oggi sovvertita dal regime codicistico vigente. Il Titolo II del Libro III del Codice Civile si occupa di enucleare il contenuto di questo diritto e di tipizzare le esperienze legate alla proprietà agli articoli 832-951.
Un altro limite è quello del neminem laedere. Il nostro ordinamento assume una posizione netta nel contrastare gli atti emulativi, ossia finalizzati esclusivamente a «nuocere o recare molestie ad altri». A tale istituto si riconduce per esempio la condotta condannata dalla suprema corte perché consistente nell’istallazione sul muro comune «un contenitore avente aspetto di telecamera nascosta fra il fogliame degli alberi posto in direzione del balcone del vicino» priva di alcuna utilità, come anche la collocazione sul balcone di alti alberi di lauro funzionali a «intercludere la visuale del proprietario dell’appartamento confinante, qualora non derivi da detto comportamento un’utilità concreta o una maggiore amenità del proprietario».
La proprietà si interseca tanto con gli strati più superficiali delle cose, sostanziandosi nel diritto di superficie che rappresenta lo ius aedificandi, quanto con le profondità più verticali dello spazio, codificando accurate previsioni relative al sottosuolo e allo spazio sovrastante. L’art. 840 c.c. che recita che «la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino». Sono salve da tale previsione le norme relative a miniere, cave, torbiere e beni culturali. Inoltre «il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle».
L’estensione del diritto di disposizione e godimento nel ventre della terra incontra i limiti consacrati dalla norma. La proprietà è ad esempio fortemente compressa nel caso di beni di interesse archeologico ancora custoditi nel suolo e giace in capo al proprietario l’onere di attivarsi per il coinvolgimento delle autorità competenti. Nel “Nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” è contemplata una intera sezione dedicata alla tutela dei rinvenimenti di beni di interesse archeologico sul territorio nazionale. Tutto ciò che viene ritrovato nel sottosuolo è considerato di proprietà dello Stato ed è altresì vietato procedere a scavi o ricerche archeologiche senza previa autorizzazione da parte del Ministero dei Beni Culturali. I proventi di scavi illeciti o clandestini sono frutti di un furto ai danni dello Stato e i responsabili sono assoggettabili alle pene previste per quel tipo di reato. Come conferma una recente giurisprudenza di prime cure prevale «il valore intrinseco dell’interesse pubblico alla tutela dei beni archeologici rispetto all’interesse sotteso alla proprietà privata».
Come nel turbine di un pozzo, il nostro codice contempla altresì l’art. 1080 sul diritto alla presa d’acqua, che è esercitabile ogni istante. Tra le servitù prediali figura il diritto di prendere e derivare acqua in ogni istanza senza vincoli temporali per l’esercizio di detta servitù, funzione che esorbita da intervalli temporali prestabiliti configurandosi come disposizione in continuità. La giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che «la servitù di presa d’acqua ha per contenuto le facoltà di prelevare o derivare l’acqua esistente nel fondo servente per condurla, in una determinata quantità, nel fondo dominante».
La proprietà sa essere versatile e accomodante nei riguardi dell’esperienza, slanciandosi verso le frontiere dell’inconsistenza, per abbracciare la tutela dell’inventiva e dell’ingegno umano. Gli strumenti di proprietà intellettuale e industriale mirano a disciplinare diritti di natura: (i) personali e inalienabili, quale quello morale al riconoscimento della paternità di una certa opera creativa o tecnica; (ii) patrimoniali, pertanto trasmissibili e disponibili e legati allo sfruttamento economico e industriale di tale creazione. La branca dell’immaterialità continua a implementarsi e a espandersi, in ragione dei significativi cambiamenti nel progresso e nella tecnologia che involvono il rapporto dell’individuo attuale con l’epoca corrente, permeata dal proliferare di dispositivi e software con cui si interfaccia costantemente.
A livello sovranazionale, la proprietà trova ampia collocazione e straordinaria differenziazione. La stratificazione normativa succedutasi nel percorso di costituzione dell’Unione Europea e dell’affermarsi del mercato unico lascia per certi versi intonsa la taratura domestica di questo diritto. Infatti l’art. 345 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea afferma che «I trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».
di Simona Siciliani
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