Cosa diventa Il pozzo e il pendolo di E.A. Poe sullo schermo?
iocando con un collegamento etimologico, errato ma suggestivo, tra potus e potis-esse, si potrebbe dire che ogni pozzo occulta un «pozzibile», nel senso che è «fonte» di potenzialità inespresse, celate come un ricordo nascosto che riaffiora se mosso da un desiderio latente, dalla “sete” che spinge a calare il secchio (un pozzo nel pozzo) e a estrarre la verità conservata in quel serbatoio.
Un pozzo, insomma, attinge al mistero e, allo stesso tempo, lo può riflettere. È una soglia che collega fra loro due dimensioni ugualmente sconosciute: quella ctonia delle profondità infere e la vastità delle stelle; la memoria e il desiderio. Tuttavia è anche un luogo angusto, una circonferenza che delimita due infiniti. Da qui il rischio, come quello della rana dell’apologo cinese, di immaginare che il pozzo sia il Tutto e di volerlo abitare.
Queste determinazioni, che permangono nell’immaginario collettivo, si sono tradotte nella sfera dell’arte e della letteratura. Il Narciso del Caravaggio, ad esempio, sembra calato in un pozzo oscuro. Il pozzo del desiderio di sé che lo consegnerà al mistero della morte sul fondo dello specchio d’acqua. Mentre Edgar Allan Poe dalla figura del pozzo ha tratto una delle sue più note storie di paura: Il pozzo e il pendolo. Qui, attraverso la storia di un uomo torturato dall’Inquisizione, Poe elabora una complicata metafora dell’esistenza umana e dei suoi pericoli, dai quali ogni volta si scampa per miracolo, solo per essere condotti verso una nuova angosciante stazione, verso nuovi pericoli, ai quali si sfugge proprio evitando il pozzo.
Al cinema, similmente, il pozzo è inteso in genere come una specie di luogo-crisalide, usato come allegoria del posto in cui si elabora il materiale utile alle metamorfosi. Ne Il silenzio degli innocenti, ad esempio, il serial killer tiene nel pozzo le donne da cui ricaverà la pelle per la sua muta.
Casi esemplari di questa concezione del pozzo come luogo di pericolose metamorfosi sono tre film, tutte messe in scena del racconto di Poe. Come se guardassimo giù in un pozzo partiamo da Il Pozzo e il Pendolo (1991) di Stuart Gordon, regista che cerca (come il suo più noto amico Brian Yuzna) di tener assieme l’ironia e lo splatter, tipici dei film horror degli anni Ottanta, con il sottotesto sociologico dell’horror dei Settanta (Rosemary’s Baby, Carrie sguardo di Satana) in cui la dimensione orrorifica è un pretesto per parlare magari della condizione femminile o di quella delle classi subalterne.
Ne Il pozzo e il pendolo Gordon mette in scena gli orrori dell’Inquisizione spagnola. Protagonista del film è Torquemada (Lance Henriksen, il Bishop di Alien – Scontro finale), che a Toledo non risparmia la sua fantasia sadica per processare, grottescamente, anche i morti.
A differenza del racconto di Poe la vittima sacrificale è qui però una donna, un po’ mistica e un po’ strega buona: Maria, la moglie di un fornaio. Dell’anima candida di Maria (ma non solo dell’anima) si invaghisce Torquemada, uomo freddo, cerebrale e di norma avverso a ogni piacere fisico.
Gordon coglie l’occasione del racconto di Poe per fare un ragionamento di carattere storico sull’Occidente contemporaneo e sui nostri presunti valori di tolleranza e democrazia all’alba della prima guerra in Iraq. Non a caso il film si apre con una data, il 1492, l’anno in cui America ed Europa si collegano. Non a caso s’insiste più sulla tortura del pendolo che su quella del pozzo. Anzi il pozzo è sostituito da una fossa comune.
Il pozzo e il pendolo diventano così due diverse metafore del tempo. Il tempo della Storia passata, fatto di cadaveri anonimi che si accumulano e il tempo tortura-meccanica del presente, rappresentato dal pendolo-mannaia (che guarda caso deve dividere in due un umile fornaio).
Il pozzo però è qui anche metafora dei desideri senza nome. Quello sessuale, represso da Torquemada, ma anche dell’utopico desiderio, di minoranze e oppressi, di un mondo migliore, nel quale si rifugiano (mentalmente) le anime belle. Un mondo magicamente illuminato con luce da soap opera.
Registicamente più bello è Il pozzo e il pendolo di Alexandre Astruc, cineasta francese e teorico della camera-stylo. Astruc, coerentemente alla sua formazione sartriana, gira nel 1964 un cortometraggio di taglio esistenzialista. Nel film il protagonista è condotto con una lunga catena, quasi un cordone ombelicale, di fronte a un trio di inquisitori. Dopo la sentenza di morte il protagonista, semisvenuto, è consegnato nella cella più bassa e oscura del carcere, dove si cela un pozzo profondo (popolato da serpi) e in cui evita di cadere per caso, mentre calcola l’ampiezza della stanza.
Si risveglia legato a un letto, con un pendolo tagliente che, a ogni oscillazione, cala sul suo corpo per dividerlo in due. Si salverà grazie all’astuzia. Riuscirà a far mangiar ai ratti le corde che lo legano dopo averle strofinate di cibo. All’ennesimo risveglio però si ritroverà con le pareti della stanza che si restringono e lo spingono verso il pozzo. Solo l’arrivo dell’esercito di Napoleone lo salverà.
Il film ha due meriti: la fedeltà al testo di Poe e la capacità d’interpretarne ambiguità e sfaccettature. A un primo livello il racconto è un’allegoria del fanatismo, fatto di fede irrazionale (il pozzo), d’odio settario che nel tempo separa e divide gli uomini (il pendolo) e della chiusura mentale (le pareti che si restringono). Fanatismo da cui ci salva la Ragione illuminata (portata dai francesi di Napoleone) e simboleggiata dalla finestra su cui scorrono i titoli.
Tuttavia, c’è un’altra interpretazione possibile. Il pozzo e il pendolo è anche la storia del male di vivere (di Poe?) e del rifiuto di nascere (e di rinascere). Il pozzo, luogo di passaggio, è un collo dell’utero e il pendolo una percezione angosciante e distorta del tempo che passa fino al momento in cui le pareti (dell’utero) si restringono e si deve venire al mondo. Il rifiuto del pozzo diventa così il rifiuto di attraversare le fasi, magari dolorose, necessarie per venire alla vita. Vita che viene vista solo nei suoi pericoli da evitare, nelle angustie da cui evadere ma, soprattutto, vi è messo in scena il rifiuto dell’esistenza come passaggio, come mutazione (i serpenti nel pozzo). I francesi, così, sono coloro che ci portano la liberazione, ma è la liberazione del Nulla (sartriano?).
La versione più nota e forse cinematograficamente più bella del racconto di Poe è infine quella girata da Roger Corman nel 1961. Nel film l’inquisitore si fa detective sulla scena di un possibile delitto. Francis Barnard vuole capire le ragioni della morte della sorella Elisabeth (Barbara Steele) andata in sposa a Don Medina (un grandioso Vincent Price). Un segreto di famiglia però si frappone fra lui e la verità, rendendoci Don Medina sospetto. Quando il fantasma di Elisabeth sembra riapparire, però, apprendiamo che da fanciullo Don Medina ha assistito da piccolo alle torture che il padre (inquisitore del regno), pazzo di gelosia, ha procurato alla madre prima di murarla viva. Forse, involontariamente, Don Medina, a causa di un errore del medico di famiglia, ha condannato Elizabeth alla stessa terribile morte.
Il pozzo e il pendolo di Corman è una fantastica allegoria dell’inconscio psicanalitico. Freud, nella prima topica, concepisce i rapporti tra coscienza, preconscio e inconscio come una casa in cui, di stanza in stanza, si procede verso l’intimità e il segreto. Qui le stanze sono quelle d’un castello, nelle cui segrete si cela un pozzo, simbolo del trauma mai rimosso di Don Medina.
Il passato e i suoi traumi però sono sempre presenti nella psiche e sempre pronti a riaffiorare, come acqua del pozzo pompata dal desiderio. In questo caso sarà il desiderio inconfessabile di Elisabeth a imprigionare lei stessa in un muto urlo finale e Don Medina a rinascere nella follia di suo padre.
di Amedeo Liberti
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