Come sono fatti i veri buchi neri?
utto è cambiato dall’introduzione della fotografia: è stato un vero e proprio momento di rottura che si è decisamente riverberato al di fuori dei confini dell’arte. Le fotografie hanno di fatto cambiato il modo in cui l’uomo racconta il mondo. Da quando le abbiamo a disposizione, ritratti gloriosi dei potenti, descrizioni iperboliche e illustrazioni esotico-fantastiche non servono più e si riducono a meri esercizi di stile. Non me ne voglia Anish Kapoor se dirò che dallo scorso 10 aprile[1] l’estro creativo del suo Black Hole ha subìto lo stesso declassamento. Non servono più grafiche computerizzate o rappresentazioni artistiche per raccontare al mondo come sono i buchi neri; ora possono presentarci la propria foto segnaletica e farci meno paura (o forse ce ne faranno più ancora?).
Non è del tutto corretto in realtà parlare di una “fotografia”; si dovrebbe piuttosto dire che si tratta di una “elaborazione grafica” (Figura 1). Non è infatti una immagine come quelle fornite dai telescopi ottici dell’European Southern Observatory del Cile, per intenderci. Un telescopio ottico è paragonabile a un’enorme macchina fotografica, in grado di osservare quello spettro di lunghezze d’onda che corrisponde alla luce visibile all’uomo. L’Event Horizon Telescope (da cui è stato possibile ricostruire l’immagine) si rifà invece a lunghezze d’onda maggiori, invisibili all’occhio umano. Si parla di onde radio, cui sono legati segnali astronomici deboli. Per essere osservata, la luce radio richiede strumenti ad hoc molto potenti: l’Event Horizon Telescope si compone di dieci radiotelescopi sparsi nei diversi continenti, che insieme vanno a formare un unico “telescopio virtuale” del diametro pari a quello terrestre; un po’ come se in fase di osservazione fossero tutti testimoni di uno stesso evento da punti leggermente diversi. Si può dedurre quindi perché il volume di dati generati cresca molto velocemente con il tempo di osservazione: 120 ore di osservazione (spalmate su due anni) corrispondono tra i 5 e i 10 petabyte di dati, pari a una playlist di MP3 lunga qualche migliaio di anni. Partendo da questa quantità di dati, si è ricostruita alla fine un’immagine che non pesa più di qualche megabyte, coinvolgendo centinaia di ricercatori, provenienti da oltre quaranta Paesi («Così il nobile anima il popolo ed esorta gli uomini ad aiutarsi», riporta l’I Ching).
Non dovrebbe stupire il fatto che i giornali ne abbiano parlato come della fotografia del secolo, considerato il fatto che – racconta Priyamvada Natarajan (professoressa di Fisica e Astronomia all’Università di Yale) – «non pensavamo nemmeno potesse essere possibile fare una cosa del genere». Non è un’esagerazione affermare che l’uomo ha osservato l’inosservabile. E se ancora non ho convinto i più scettici della portata storica di questo evento, è opportuno evidenziare come questa immagine permetterà di avere un’idea qualitativa e quantitativa per comprendere i buchi neri e testare la teoria della Relatività Generale in regime di campi gravitazionali estremi, a un livello mai raggiunto prima. «In astronomia le immagini sono molto significative – continua Natarajan – perché hanno il compito di cambiare il nostro modo di pensare». Questo aspetto è ancora più chiaro nelle parole di Heino Falcke, professore di radioastronomia e fisica delle astroparticelle all’Università di Nijmegen: «Vedere la prima immagine di un buco nero è stato come trovarsi per la prima volta faccia a faccia con un vecchio amore; qualcuno che sapevi esistesse, di cui avevi sentito parlare, a cui hai scritto delle lettere, di cui immaginavi il suo aspetto ma che non avevi mai incontrato personalmente. Ora la vedi per la prima volta e sai che è reale. Da quel momento, inizia una nuova fase della relazione».
Certo, non c’è stato qualcosa di sorprendente: un buco nero (come ogni pozzo che si rispetti) è e sempre resterà comunque un… cerchietto nero al centro di una ciambella. Non è una questione tanto di limiti tecnologici, quanto della sua intrinseca definizione[2]: una regione dello spaziotempo in cui l’attrazione gravitazionale vince su tutto, risucchiando persino la luce che solitamente è quella più scaltra e riesce a scappare; e quando non c’è luce, c’è nero. Ciò che ci resta da osservare è il materiale che spiraleggia attorno al buco nero formando il cosiddetto disco di accrescimento, composto da gas e materia in caduta verso questo lavandino cosmico. Accelerando nella propria caduta, la materia si scalda raggiungendo temperature di miliardi di gradi. A una precisa distanza dal buco nero (definita in base alla massa e alla rotazione del buco nero stesso), la materia e la luce superano l’orizzonte degli eventi, un raggio entro cui comincia effettivamente il buco nero, proprio perché nemmeno la luce ne riesce a vincere l’attrazione gravitazionale.
Il buco nero che (non) si vede nell’immagine dell’EHT è quello di una galassia nota ai più come M87, una galassia ellittica supergigante nell’ammasso della Vergine a 55 milioni di anni luce da noi. Questa distanza significa che la luce che abbiamo raccolto era partita da M87 circa 10 milioni di anni dopo l’estinzione dei dinosauri; decisamente “una foto d’epoca”. Questa galassia è nota per un getto ultrarelativistico (Figura 2), particolarmente evidente in diverse bande dello spettro elettromagnetico e legato a specifici fenomeni magnetici (e spesso simpaticamente definito “il ruttino di M87”) che si ricollegano alla presenza, nelle zone centrali della galassia, di buco nero supermassiccio, cui è stato dato il nome di M87* (leggi “M87 star”). Parliamo di un buco nero di 6 miliardi e mezzo di volte la massa del Sole, 2 milioni di miliardi di volte la massa della Terra. Questa massa è confrontabile proprio con la regione nera al centro della ciambella che sarebbe legata al suo orizzonte degli eventi, una zona che racchiuderebbe comodamente il Sistema Solare.
Bisogna però ammettere che gli addetti ai lavori speravano in una immagine che immortalasse un’altra star dei buchi neri supermassicci (Sagittarius A*) che si trova al centro della nostra Galassia, la Via Lattea: circa duemila volte più vicino ma duemila volte meno massiccio rispetto a M87*. Come i personaggi più famosi, Sagittarius A* è tuttavia nascosto tra una “folla” di gas e polveri che forma il disco della nostra galassia, in cui siamo anche noi incastonati. Si tratta dunque di un difficile bersaglio per i paparazzi cosmici e ci toccherà aspettare ancora. Ma forse neanche troppo.
Note
[1] The Event Horizon Telescope Collaboration et al., First M87 Event Horizon Telescope Results, The Astrophysical Journal Letters, vol. 875.
[2] I lettori più affezionati si ricorderanno che di buchi neri abbiamo già raccontato qualcosa nel secondo numero della Tigre di Carta, sulla scia dell’esagramma Il morso che spezza, che manco a farlo apposta è l’esagramma di sviluppo di questo numero.
di Amedeo Bellodi
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