Nel vecchio stagno una rana si tuffa. Rumore d’acqua
oom sugli angoli: ecco visibile la vignettatura.
Si immagini una scatola a tenuta di luce dove, al centro di una sua faccia, un piccolo foro (dal greco stenos opaios) alla stregua di un obiettivo, fa passare la luce che proietta un’immagine capovolta sul lato rivestito di materiale fotosensibile, opposto al foro. Una semplice linguetta di cartone nero fa le veci dell’otturatore coprendo il foro al termine dell’esposizione.
Può essere considerata la diretta discendente della camera obscura medievale, una stanza completamente buia con una piccola apertura su un lato. Al suo interno, il pittore tracciava la prospettiva degli edifici e i principali dettagli del paesaggio che aveva davanti per rifinire successivamente il disegno in bottega. Ma bisogna aspettare gli inizi del XIX secolo prima che le immagini proiettate vengano catturate su un materiale fotosensibile grazie a Joseph Nicéphore Niépce che inventò l’eliografia sensibilizzando una lastra metallica con bitume di Giudea.
L’offuscamento dei dettagli agli angoli dell’inquadratura rimanda all’ombra vertiginosa che delimita l’apertura circolare del pozzo, a quell’ombra che ovatta la vista della rana facendole credere di vivere in uno stato di prigionia. Il pozzo, tuttavia, non è luogo di esclusione ma di nutrimento per gli occhi che si riempiono di immagini del mondo. Anzi dell’universo. La fotografia stenopeica, utilizzata già da Newton per l’esperimento della scomposizione della luce solare, viene tutt’oggi impiegata in astronomia per fotografare pianeti e sistemi solari. Una minuscola pupilla per contenere distanze infinite.
Nitidezza e velocità di scatto sono parametri inconciliabili quando si scatta utilizzando un foro stenopeico perché la ridotta dimensione del foro favorisce la prima (rendendo pressoché illimitata la profondità di campo) ma penalizza la seconda. Pur rimanendo una tecnologia attraente, viene ora usata principalmente per insegnare le basi della tecnica fotografica o per progetti artistici che coabitano felicemente con il risultato spesso imprevedibile degli scatti.
Una curiosità. Nel 2009 è stata pubblicata la fotocamera Rubikon2. Ebbene sì, pubblicata. Si tratta di un file PDF rilasciato da Jaroslav Juřica in CC BY – NC – SA (licenza Creative Commons che richiede la menzione dell’autore, un uso non commerciale e la condivisione tramite la stessa licenza di nuove opere derivate dall’originale) contenente le parti sagomate da ritagliare e le istruzioni per assemblarle. Niente megapixel, raffinati sensori e potenti processori, ma una fotocamera lenta, di carta e totalmente artigianale!
Per quanto rudimentale, la fotocamera a foro stenopeico è diventata il mezzo privilegiato della fotografa olandese Corine Hormann: «Uso ancora la fotocamera che ho costruito nel 1997 nella stanza di un hotel di Helsinki nel cuore della notte. Questa camera è diventata il mio secondo paio di occhi».
Cresciuta nell’area industriale di Rotterdam, scopre un forte interesse per la natura durante i suoi studi accademici. In particolare, è affascinata dal ritmo di un respiro totalmente diverso da quello frenetico di una tecnologia sempre più avanzata che scandisce la nostra vita frammentandola in un plancton di istanti.
Continuamente circondati da oceani di immagini, gli occhi trovano riposo nel foro stenopeico capace di offrire un nuovo sguardo sul mondo, un modo totalmente diverso di guardare la realtà rispetto a quanto potrebbero fare gli occhi o la lente di un obiettivo.
Le lunghe esposizioni del foro stenopeico immerso in un ambiente naturale acuiscono la consapevolezza provocando una differente percezione del tempo e delle cose davvero importanti.
Il risultato finale, per quanto cesellato in immagini esteticamente appaganti, è meno importante dell’osservazione e dell’attesa necessarie a ottenerlo. La vera sfida è fotografare cose comuni in una prospettiva inconsueta, per esempio distorcendo il soggetto con una ripresa ravvicinata o scegliendo un’inquadratura dal basso a occhio di rana, per poterle nuovamente apprezzare.
Nascosta a pelo d’acqua, invasa dalla diffrazione del controluce, sprofondata tra umido fogliame autunnale o circondata da fiori mossi dal vento, la fotocamera di Corine non si limita a fotografare paesaggi. Nelle sue immagini non predominano linee e colori, forme e contrasto ma sensazioni sinestetiche e suggestioni oniriche, veicoli di una personalissima visione del mondo. «La fotocamera a foro stenopeico è in grado di tradurre il mio mondo interiore in un’immagine: essere tutt’uno con la natura accende la mia immaginazione e creare immagini rafforza il mio senso di appartenenza a ciò che mi circonda».
Il piccolo foro diventa un’alternativa porta d’accesso non soltanto alla realtà sensibile ma all’esperienza di tale realtà. La lenta esposizione rende visibile il trascorrere del tempo permettendoci di vedere presente e passato contemporaneamente.
Ogni sua immagine, come sabbia di una clessidra, ci porta a riflettere sulla relazione tra luce, spazio e tempo. Guardata a rallentatore, la natura rivela i suoi segreti e, al contempo, riverbera quelli racchiusi nell’animo dell’osservatore.
Dolci, sonore, rauche rane,
sempre ho voluto farmi rana,
sempre ho amato lo stagno, le foglie
sottili come filamenti,
il mondo verde dei nasturzi
con le rane padrone del cielo.
P. Neruda, Il Bestiario, vv. 84-89,
tr. it. di Giuseppe Bellini, Passigli Editori 2006.
BIOGRAFIA
Corine Hormann si diploma nel 1998 si diploma in scenografia e fotografia presso la Minerva Art Academy di Groningen in Olanda. Lavorando principalmente con una fotocamera a foro stenopeico, ha partecipato a numerose esibizioni collettive e personali tra Olanda e Germania.
Dopo dieci anni di insegnamento presso la Photo Academy di Groningen e, successivamente, di Amsterdam, attualmente insegna presso la Noorderlicht House of Photography di Groningen.
di Anna Laviosa
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