La grande svolta tra Quattrocento e Cinquecento attorno alla figura di Lodovico il Moro e Leonardo da Vinci.
«Sì come una giornata ben spesa dà lieto dormire,
così una vita ben usata dà lieto morire»
Il nome di Leonardo da Vinci evoca nella percezione comune l’immagine del genio; Leonardo è stato un grande intellettuale, dominato da una costante e tenace volontà di conoscenza, che lo spinse a ricercare la verità delle cose e dell’uomo in ogni dimensione della natura e della storia. Egli visse in un’epoca tale per cui cui il contrasto tra le sue aspirazioni e l’inadeguatezza di strumenti e mezzi a sua disposizione mette a nudo tutta la sua umanità e la sua unicità.
L’Italia del Quattrocento era la regione più evoluta in Europa da tutti i punti di vista: nell’arte, nella creazione di manufatti, nell’ingegno, nella creatività, nella mercatura, con la nascita delle prime banche, nell’attività diplomatica. Ma in tutto questo era comunque suddivisa in tanti piccoli staterelli sempre in lotta fra loro; sempre alla ricerca di alleanze con il potente di turno, sia che venisse da Oltralpe, sia che sedesse sullo scranno della corrotta Roma. Mancava un senso di stato unitario, libero e affrancato dal giogo straniero, mentre in Europa, sebbene in contesti meno ricchi e meno colti, stavano già creandosi le fondamenta per la nascita degli stati sovrani moderni.
Questo in sostanza il carattere di fondo del Rinascimento ove si inseriscono le vicende di Leonardo. Nacque il 15 aprile 1452 nel borgo di Vinci, adagiato tra le colline toscane poco lontano da Firenze, figlio illegittimo di una contadina e di un notaio appartenente a una ricca famiglia di proprietari terrieri del contado di Empoli, ser Piero.
Secondo le fonti Leonardo giunge a Milano presso Ludovico il Moro nel mese di settembre 1482, inviato da Lorenzo il Magnifico e accompagnato dal musico Atalante Migliorotti, in qualità di esperto suonatore di una lira d’argento in forma di teschio di cavallo da lui stesso costruita (Leonardo era anche esperto di musica e cantore). A quel tempo Leonardo lascia la poliedrica bottega d’arte di Andrea del Verrocchio a Firenze, dove ha trascorso 15 anni molto importanti per la sua formazione artistica. Intoro a quella bottega orbitavano i maggiori ingegni del Rinascimento fiorentino: Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Pietro Perugino, Lorenzo di Credi.
Il primo documento che attesta la sua venuta a Milano è il contratto con la Signoria stipulato e firmato il 25 aprile 1483: riguarda il lavoro per un’ancona (dipinto su tavola o rilievo in marmo o legno, di soggetto religioso) da collocare nella Cappella della Concezione presso la chiesa di San Francesco grande (oggi distrutta, era allora la chiesa maggiore dopo il Duomo). Si tratta del dipinto che diventerà poi La Vergine delle rocce.
Un secondo documento, contenuto nel Codice Atlantico, è destinato al Gran Rappresentante dello Stato di Milano, Ludovico il Moro. Si tratta di una lunga lettera in cui Leonardo, ben determinato a trovar lavoro presso il ducato, illustra con solide argomentazioni la propria esperienza in fatto di ingegneria, soprattutto militare, le proprie capacità di scultore e pittore e si dichiara pronto a cimentarsi come architetto e ingegnere civile e idraulico, nella costruzione di canali, di edifici pubblici e privati. Quindi, quasi prevedendo che tutto ciò non sarebbe bastato a convincere il duca sulle sue abilità, Leonardo cita il progetto più interessante, la vera ragione per cui Lorenzo il Magnifico lo ha mandato a Milano: un imponente monumento equestre destinato a Francesco Sforza, da realizzare in bronzo: «Ancora si potrà dare opera al Cavallo che sarà gloria immortale e eterno onore della felice memoria del signore vostro padre e de la inclita casa Sforzesca».
Bisogna tener presente che le fortune di Leonardo a Milano sono strettamente legate a quelle di Ludovico il Moro, nato anch’egli nel 1452, figlio cadetto di Bianca Visconti e di Francesco Sforza, il leggendario condottiero che, discendente da una famiglia di contadini,
con il matrimonio si era assicurato il ducato.
L’avventura leonardesca è altresì legata alla politica di mecenatismo culturale già da tempo attuata dai Visconti. In quel periodo, a Milano, si progettano i lavori di trasformazione della nuda rocca Viscontea in Porta Giovia in Castello Sforzesco; si avvia la costruzione della Cà Granda, ora splendida sede dell’Universita Statale di Milano; si rimettono in piedi i lavori per il Duomo di Milano e la Certosa di Pavia; ci si adopera attorno alla cappella di Sant’Eustorgio, che nel 1468 viene affrescata da Vincenzo Foppa.
La corte di Milano, grazie all’ambizione del Moro, che viene eletto duca nel 1494, ma di fatto esercita il suo potere già a partire dal 1480, diviene una delle più ricche e fervide d’italia, tale da poter gareggiare con Firenze. Un raffinato centro di cultura umanistica e anche un polo d’attrazione per scienziati artisti e letterati, fra cui spiccano l’architetto Donato Bramante e il matematico Luca Pacioli. Milano è la citta d’avanguardia in fatto di strutture tecnico-industriali, vie d’acqua, sistemi di irrigazione, fabbricazioni d’armi, ingegneria navale; ed è centro di scambi culturali per uomini di orientamento scientifico-matematico. Grazie poi alla presenza in città di tre regine del gusto la cui fama corre tra le corti europee – Isabella d’Aragona, Beatrice d’Este e Isabella Gonzaga – Milano diviene capofila della moda europea e non solo per sartoria, stoffe, scialli, ma anche per profumi e acconciature. Leonardo, in questa temperie, non si presenta a Milano come colui che ha da insegnare al mondo, ma al contrario desideroso di conoscere e di approfondire le diverse tecniche in campo ingegneristico e delle costruzioni. Il rapporto tra Leonardo e Milano sarà di reciproca influenza.
Durante i primi tempi a Milano, Leonardo si mette in società con i fratelli De Pedris, una famiglia di artisti che possiede già una discreta fama. Nel 1483, come sopra ricordato, Leonardo, Ambrogio ed Evangelista De Pedris si impegnano a eseguire una pala d’altare per la Confraternita della Concezione. I tre artisti, dei quali soltanto Leonardo è chiamato magister nel contratto, devono mettere «l’oro fino» sulle figure intagliate della cornice e dipingere il soggetto voluto dai frati, che lasciano ben poco spazio alla loro fantasia. Nella parte superiore deve essere rappresentato Dio Padre, nel mezzo la Vergine circondata dagli angeli, in basso una prospettiva di montagne e rocce. Gli artisti sono tenuti a consegnarlo per la festa della Concezione, cioè l’8 dicembre 1483. Il compenso viene fissato in duecento ducati e frate Agostino dei Ferrari deve controllare la pala, una volta terminata. A Leonardo è affidata la parte più importante del trittico, quella centrale.
Nonostante i patti siano così chiari le cose non vanno in maniera liscia. I frati della Confraternita pretendono l’opera finita in pochi mesi e che rispecchi pedissequamente il tema da loro scelto. A Leonardo questo tema non piace, e infatti non lo dipinge: prova ripugnanza per i simboli convenzionali degli angeli, della mangiatoia e del presepio; rappresentare Dio Padre con la lunga bianca barba e il vestito d’oro è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sua visione artistica.
Leonardo non rispetta il contratto, e crea La Vergine delle rocce: la scena si svolge in un paesaggio roccioso, costruito in modo quasi architettonico, in cui fiori e piante acquatiche sono resi con grande precisione botanica; in lontananza si intravvede un corso d’acqua: l’angelo guarda verso l’osservatore con un lieve sorriso e indica verso il San Giovannino. Del dipinto scrive Carlo Giulio Argan: «È un quadro carico di riferimenti ermetici: non simbolici, perchè il simbolo manifesta (seppur in modo traslato) mentre Leonardo vuole che i significati rimangano oscuri, adombrati: e visibili sono soltanto le forme: come i fenomeni naturali che si vedono e di certo hanno cause e significati che possono essere indagati e scoperti, ma non dati a priori». Il dipinto è conservato presso il Museo del Louvre a Parigi.
Nell’estate del 1484 a Milano scoppia la peste; l’epidemia divampa senza rimedio, come quelle che l’avevano preceduta dall’arrivo della peste nera del 1348 a Firenze, così magistaralmente descritta dal Boccaccio nell’introduzione al Decameron. Ludovico il Moro per proteggersi dal contagio si trasferisce con la corte a Vigevano, nella sua splendida residenza in campagna, da dove manda denaro agli ospedali della città.
La pestilenza di cui è testimone spinse Leonardo a elaborare un progetto urbanistico volto a mettere il popolo per sempre al riparo dai contagi. Prepara gli schizzi di una citta ideale e li invia al Moro. La città che immagina Leonardo è concepita su due livelli: le strade superiori per il passaggio dei «gientili omini», quelle inferiori invece per la circolaione del popolo con le sue merci, i suoi cavalli, i muli, i cani portatori di sporcizia ed infezioni. Il tutto dev’essere provvisto di fognature e circolazione d’aria. «In questo modo disgregherai tanta congregazione di popolo, che a similitudine di capre l’una addosso all’altra stanno empiendo ogni parte di fetore e diffondendo i semi della pestilenza e della morte». E, per la prima volta nella storia, prende forma una città in una forma che possiamo dire moderna, con i palazzi uno accanto all’altro, adibiti a case d’abitazione borghese e coperti di terrazzi e attici, con i servizi sono ordinati secondo un principio razionale rispetto al traffico e all’igiene.
Ma in questi anni Leonardo si occupa anche di tanti altri problemi, in particolare di quello delle acque verso cui si sente sollecitato anche per l’interesse che suscitano in lui le numerose opere idrauliche ch’egli trova nel milanese. È cosi che i suoi fogli di appunti si infittiscono di note e disegni sull’argomento dove, come sempre, le riflessioni scientifiche si intrecciano a possibili soluzioni pratiche. Leonardo studia la velocità delle acque e il modo di rialzarne il livello, progetta pompe a stantuffo e macchine per scavare canali subacquei ponendo le basi della moderna ingegneria idraulica.
A Milano Leonardo si cimenta anche come architetto. Risalgono al 1487-1488 i suoi disegni per risolvere il problema del tiburio del duomo di milano, conservati nel Codice Atlantico e nel Codice Trivulziano. Opera alquanto impegnativa, perché si tratta di metter un coperchio sulla parte centrale dell’edificio, che Galeazzo Visconti ha voluto ad imitazione delle grandi cattederali d’Europa, emblema della potenza viscontea non meno che divina. Il suo progetto non ha fortuna. In due documenti del 1489 e del 1490 Leonardo risulta debitore della Confraternita di Santa Maria presso San Satiro, fabbrica per la cui costruzione è determinante l’apporto di Bramante, e dei lavori di ristrutturazione architettonica di Santa Maria delle Grazie insieme allo stesso Bramante. Vitruvio nel suo De architectura sosteneva che nel corpo di un uomo appaiono due figure principali, il cerchio ed il quadrato senza le quali non è possibile costruire nulla; Leonardo in un suo famosissimo disegno vuole riprendere questo concetto. Schizza un uomo con le braccia e le gambe comprese in un quadrato ed in un cerchio.
Dal 1488 al 1493 Leonardo, come detto sopra, progetta il modello per il momumento equestre a Francesco Sforza, deceduto nel marzo del 1466, quando Lodovico aveva 14 anni. Anche questa commissione è venuta da Ludovico il Moro, il quale intende così celebrare i fasti della dinastia attraverso una campagna di propaganda, con il fine di dare lustro alla propria immagine di sovrano e legittimare il suo governo. Leonardo ha in mente di fondere la scultura in bronzo con un procedimento sperimentale e innovativo: il modello deve stare in una fossa gigantesca capovolto. Il progetto non viene mai realizzato.
Risalgono agli stessi anni i suoi interessi per l’anatomia umana grazie alla possibilità offertagli di dissezionare cadaveri presso l’ospedale della Cà Granda e di rappresentarli dal vero. Agli studi anatomici possono collegarsi le caricature, variazioni del tema del volto umano. La ricerca del deforme era necessaria per i suoi studi; nel suo laboratorio cominciarono a comparire mendicanti, gobbi, vecchi con il gozzo che alimentavano la curiosità della gente. Alla caricature sono legati gli studi di fisiognomica, nei quali l’artista inverte i rapporti proporzionali del volto, dando espressione a caratteristiche e stati d’animo ben precisi.
Anche il genere del ritratto è in questo arco di anni frequentato da Leonardo; in esso si esprime la sua “teoria dei moti dell’animo”, lo studio dei fenomeni ottici e prospettici e l’uso del colore. È datato 1485 circa il Ritratto di musico, unico ritratto maschile a noi pervenuto, conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Il vertice della ritrattistica viene raggiunto con la Dama con l’ermellino, ora al Museo di Cracovia. La dama ritratta è identificata in Cecilia Gallerani, la colta, bella e raffinata favorita del Duca. Il volto tramandato da Leonardo parla di una giovane donna tranquilla, dotata di una specie di purezza interiore. L’artista per sottolineare questo risvolto dell’anima, le pose tra le braccia un candido ermellino, simbolo d’innocenza.
Leonardo esegue inoltre un altro ritratto della nuova amante del Moro, Lucrezia Crivelli, conosciuto con il nome La belle ferronière perchè secondo alcuni la donna rappresentata era in realtà amante di Francesco I di Francia e moglie di un commerciante in ferro. Nel quadro è possibile ravvisare la magnifica trovata della direzione dello sguardo della donna raffigurata, la quale evita di incontrare l’osservatore costringendo questo a spostarsi continuamente per imbattersi nei suoi occhi, ciò che conferisce alla dama un aspetto tridimensionale, quasi fosse una scultura attorno alla quale è possibile muoversi.
E veniamo a parlare di quell’impresa che può essere considerata la summa della sua opera: L’ultima Cena eseguita nel refettorio domenicano della chiesa di Santa Maria delle Grazie. Nel 1495 venne dato a Leonardo l’incarico di affrescare il reffettorio dei frati predicatori con l’ultima cena di Gesù e gli apostoli. Egli lò terminò in circa tre anni, dal momento che Luca Pacioli, nell’aulica dedica al Moro del suo trattato De divina proportione, affermò, nel 1498, di aver visto il “cenacolo” compiuto: «Leggiadro simulacro dell’ardente desiderio della salvezza» situato «nel degno e devoto luogo della refezione corporale e spirituale nel sacro Tempio delle Grazie».
Il recente restauro, conclusosi nel 1999, dopo vent’anni di difficile lavoro, ha permesso di stabilire la tecnica esecutiva adottata : uno o due strati di pittura a tempera stesi su due preparazioni: quella più interna che aderisce all’intonaco, grossolana, e quella su cui fanno presa i colori, gessosa, ossia a base di carbonato di calcio. La tecnica sperimentale usata, che ha provocato la perdita del colore in diversi punti, ha permesso a Leonardo di lavorare più lentamente di quanto non avrebbe dovuto fare se avesse adottato il più canonico “buon fresco”, dandogli l’opportunità di intervenire a più riprese per cambiare e aggiustare, ma anche di rifinire gli abiti con tocchi di luce e di dare trasparenza ai vetri sulla tavola, cose che in un affresco non avrebbe potuto ottenere.
La fama dell’opera si diffonde e molti visitatori si recano al refettorio per vedere il magister all’opera; tra questi il novellista Matteo Bandello, che in una delle sue novelle (Novella LVIII, 1497) ci dà una vivida descrizione del modo di lavorare di Leonardo: «Soleva andar la mattina a buon ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’avrebbe messa mano e tuttavia dimorava una o due ore del giorno e solamente contemplava, considerava e essaminado tra sé, le sue figure giudicava».
L’ultima Cena è il risultato di un lungo studio iniziato da Leonardo intorno al 1490 sull’iconografia tradizionale di questo tema. Leonardo si stacca dalla tradizione scegliendo, fra i molti episodi, il momento più umano e drammatico: quello in cui il Cristo, interrompendo il pacifico chiacchericcio conviviale, comunica agli apostoli la sua sconvolgente profezia: «Amen dico vobis: unus vestrum me traditurus est», «uno di voi mi tradira». Leonardo volle fermare l’attimo che segue l’accusa, quando gli apostoli, secondo il Vangelo, «si guardavano l’un l’altro… incerti di chi parlasse». Risvegliatisi dal torpore, essi si interrogano, aggruppandosi a numero di tre: il Cristo, nel mezzo, pare una roccia sulle quale si infrange l’onda delle emozioni umane, il punto verso cui convergono i gesti e gli sguardi.
L’espressione dei volti, la postura dei corpi e il movimento delle mani esprimono così quei “moti dell’animo” che furono uno dei campi di indagine più innovativi e importanti del Maestro. Giuda, vicino a Gesù, l’unico che si ritrae, con il sacchetto dei trenta denari ben tenuto dalla mano destra, sembra scivolare sotto la tavola, mentre dalle finestre di fondo penetra la luce, cara a Leonardo, un cielo chiaro, di tardo pomeriggio estivo, cha ha perso la violenza del giorno.
Si può a buon diritto concludere affermando che si tratta del manifesto della pittura lombarda cinquecentesca: l’artista vi ha applicato i suoi studi sulla meccanica, sull’acustica, sulla prospettiva, sulla propagazione della luce e del suono. L’effetto che a prima vista produce il Cenacolo è lo sfondamento della parete su cui esso è dipinto, come se fosse un trompe-l’oeil.
Negli stessi anni Leonardo lavora ad alcuni ambienti del Castello Sforzesco, di cui oggi rimane solo la “Sala delle asse”, decorata nel 1498. Essa presenta quella tecnica di pittura a tempera su muro, già utilizzata dal Genio nel Cenacolo. (La Sala delle asse, riportata alla luce in occasione delle celebrazioni del cinquecentenario della morte di Leonardo è eccezionalmente aperta al pubblico da maggio 20019 ad agosto.)
Il 1499 è un anno funesto per il Moro, e Leonardo registra, sulla copertina di un suo manoscritto, la tragica fine del suo mecenate con parole un po’ asettiche e impersonali: «Il duca perse lo stato e la roba e la libertà e nessuna opera si finì per lui». Il 24 luglio 1499 giunge la notizia che Luigi XII Re di Francia ha varcato le Alpi e assediato con il suo esercito la fortezza di Trezzo, possedimento del Moro. Quest’ultimo fugge a Innsbruck e nel dicembre del 1499 Leonardo, insieme a Luca Pacioli ed al suo paggio Salaì, abbandona Milano e raggiunge Mantova, dove lo attende già da tempo la colta marchesa Isabella d’Este.
Si conclude così un magnifico periodo di diciassette anni di ricerca scientifica e artistica e intorno alle passioni dell’animo umano, che ha visto e vede tuttora il Genio fiorentino aleggiare nella nostra città.