Come le immagini diventano narrazione secondo l’estetica di Scott McCloud
… che dire allora di un mezzo di comunicazione come il fumetto, nel quale trovano un senso gli accostamenti fra immagini e altre immagini e persino fra immagini e parole?
Certo, figure e testo intrattengono rapporti anche in altri contesti, come nelle didascalie, nelle locandine, oppure negli articoli come questo dove sono usate a titolo esemplificativo, ma nel fumetto essi danno luogo a qualcosa di veramente omogeneo eppure straordinariamente complesso. Alcuni studiosi hanno provato a fare luce su questo linguaggio in apparenza molto recente (convenzionalmente si fa risalire la nascita del fumetto al periodo intorno al 1895, anno della pubblicazione di Yellow Kid) e il più importante lavoro sull’argomento è stato recentemente ristampato anche in Italia da Bao.
Capire, fare e reinventare il fumetto, pubblicato nel 2018, raccoglie in un volumone imponente i tre principali “saggi a fumetti” scritti e disegnati da Scott McCloud. Il primo di questi, intitolato in originale Understanding Comics, uscì nel 1993 e divenne ben presto un classico imprescindibile per tutti gli studiosi del fumetto. L’opera infatti si proponeva di indagare la forma e le possibilità del medium fumettistico proprio attraverso il fumetto stesso, osservando i modi con i quali diversi significati si dispiegano a partire da quel particolare linguaggio.
McCloud non è stato l’unico ad avere l’idea di scrivere fumetti non-fiction: nello stesso anno in cui usciva Understanding Comics, Joe Sacco pubblicava i suoi primi reportage a fumetti dalla Palestina, ma già nel 1980 Art Spiegelman con Maus sembrava aver aperto le porte alla possibilità di estendere il linguaggio fumettistico anche a temi “seri”. Il primo però a scrivere un saggio sul fumetto come forma d’arte di piena dignità fu Will Eisner, con Comics and Sequential Art del 1985; sebbene includesse delle tavole a titolo di esempio, il saggio era però scritto in prosa come da tradizione.
Capire il fumetto è invece un vero e proprio saggio scritto e disegnato con il linguaggio del fumetto, che si interroga sulle possibilità del mezzo attraverso la sperimentazione sul mezzo stesso. Scott McCloud compare infatti come personaggio narrante all’interno della sua opera, e il fumetto assume contemporaneamente il duplice ruolo di forma e di contenuto dell’intero volume, secondo l’espediente tipico della mise en abyme. Nonostante ci si possa aspettare un volume “tecnico”, l’autore non si limita ad analizzare i canoni, ma esplora il concetto di fumetto fino a mettere in questione la sua stessa definizione. Passando attraverso i geroglifici egizi, i dipinti greci e le stampe giapponesi, l’autore si interroga sulla “lettura” delle immagini in sequenza in quanto tale, disvelando a poco a poco le modalità con cui la mente umana integra i blank fra una “vignetta” e l’altra al fine di comprendere il senso specifico di quelle transizioni. Ben presto egli si accorge che se alcuni effetti possono dipendere dal retroterra storico e culturale del lettore, altri sembrano dipendere interamente dalle caratteristiche dei segni grafici che impongono un preciso significato. Se la giustapposizione fra immagini è correttamente riconosciuta come intenzionale, ecco che la transizione dall’una all’altra si anima di senso: avviene quella che l’autore chiama una closure. In Capire il fumetto McCloud si propone di mostrare come avviene questo processo di apprensione svolgendolo dinanzi ai nostri occhi, insegnandoci così la grammatica del linguaggio-fumetto nello stesso modo in cui abbiamo imparato quella del linguaggio naturale: usandola.
Il risultato di questo studio è una sintesi perfetta di estetica delle arti figurative (delle quali il fumetto è una branca) e filosofia del linguaggio. Non si limita quindi a fornire istruzioni tecniche sul funzionamento di un medium molto pop, ma conduce a una vera e propria riflessione fenomenologica sul nostro modo di percepire il reale: nel riflettere sul fumetto l’uomo riflette anche su se stesso. D’altra parte, che abisso sarebbe uno che non ci scrutasse a sua volta?
Come ogni linguaggio, il fumetto può essere utilizzato per costruire narrazioni, ma le storie che racconta non devono necessariamente essere realistiche perché possano parlare di noi. Anzi. Secondo Scott McCloud il disegno realistico oggettiva i personaggi, conferisce loro una precisa identità e ne sancisce l’alterità rispetto al lettore, mentre l’utilizzo di uno stile più astratto, semplice e meno caratterizzante favorisce l’identificazione permettendo al lettore di immergersi meglio nella storia. Non è un caso che lo stile “cartoon” abbia fatto la fortuna del fumetto: personaggi come Topolino, Tintin o Charlie Brown parlano al cuore di così tante persone anche perché le loro linee semplici sono così essenziali da permettere a chiunque di riconoscere in loro una parte di se stesso.
Un fenomeno simile avviene anche nel grande racconto che è la Storia con la “S” maiuscola, dove molto spesso accade che pur di riconoscere un senso alla propria vita nel presente si facciano alcune concessioni all’immaginazione, sottraendo alla realtà un po’ della sua fredda esattezza. Ne nasce a volte un paradosso narrativo…