L’Abisso delle molte storie

La storiografia dentro il baule della storia

‹ Vai all’articolo precedente

… una narrazione che si autocontiene e autoconforma al proprio contenuto, inclusivo del proprio stesso autore o di una sua trasfigurazione. Un tale paradosso è proprio all’atto stesso di narrare e riguarda non solo le narrazioni più finzionali, come il fumetto, ma anche quelle che vorremmo immaginare inattaccabili nella loro aderenza al mero dettato della realtà, di quella datità bruta che invece si fa interpretazione nel momento stesso in cui viene percepita.

Nell’agire umano tutto è intenzionale e chi desidera ottenere un ampio consenso entro il proprio corpo sociale non può limitarsi a offrirgli un beneficio, perché deve anche inquadrare tale offerta in una desiderabile dimensione di senso. Augusto fu un politico brillante. Rifiutando la carica di dictator nel 27 a.C. da un lato, divinizzando Giulio Cesare dall’altro, poté presentarsi come il conciliatore dell’ormai ideale mondo repubblicano con la nuova realtà fattuale dell’Impero. In buona sostanza, il suo potere era fatto di prassi più che di carche e titoli. Il Princeps era l’apice dell’inveterato clientelismo romano, ma non un monarca dichiarato. Per giustificare il controllo che de facto deteneva sullo Stato, mise in atto una rivoluzione culturale che si fondava anzitutto su una rilettura delle antichità. Gli artisti raccolti da Mecenate nella propria villa elaborarono un manifesto credibile della visione augustea. Dopo il caos delle guerre civili e dell’instabilità politica, Roma doveva assurgere a centro indiscusso di un’ecumene dominata da pace, ordine e prosperità. Se la Pax poteva essere rafforzata distorcendo tutte le testimonianze contrarie all’esaltazione del suo principale garante, ivi comprese quelle viventi, per molti semplicemente valeva la pena farlo. L’Eneide delineava un legame dinastico tra il principe semidio troiano Enea, figlio di Venere e Anchise, e la gens Iulia, nonché la parificazione epica tra la cultura latina e quella greca, rispetto alla quale vi era stato a lungo un complesso di inferiorità. La prospettiva di quest’opera e di quelle che a essa si richiamarono abbracciava l’intera narrazione dell’ascesa dell’Urbs, trasformandola in una massa di drammi e tragedie illuminate da quel lieto fine che il lettore doveva pensare di stare vivendo. Augusto si fece promotore di una ricerca sulle antichità che interrogava le fonti con cura e completezza soltanto al fine di conformarle utilmente a un’aprioristica visione ideologica. Nel suo mondo i libri di storia dovevano educare e intrattenere, oltre che riportare i fatti; pertanto la sua volontà di creare una prospettiva storica che arridesse alle sue scelte politiche non era cosa tale da scandalizzare nessuno. La prosopografia era stata, sin dai tempi di Erodoto, la via maestra alla trasmissione del sapere storico. Si riteneva comunemente che gli eventi fossero decisi dalle volizioni di singole personalità forti e dalla fatale influenza dei numi, o di quella superdeità che era il Fato. Le macrostrutture sociali ed economiche importavano poco e, del resto, questa convinzione di fondo non è scomparsa di certo con le età più lontane: non solo l’idealista Hegel, ma anche il materialista Marx non smise di vedere dette strutture subordinate al venire in essere del destino ineluttabile dell’umanità.

Virgilio legge l’Eneide davanti ad Augusto e Ottavia, Jean-Joseph Taillasson, 1787, National Gallery di Londra
Virgilio legge l’Eneide davanti ad Augusto e Ottavia, Jean-Joseph Taillasson, 1787, National Gallery di Londra

Il caso augusteo evidenzia come di certa fantastoria ante litteram non si giovasse solamente il leader, ma tutto il suo popolo. Gli dèi dell’Eneide offrivano ad Augusto il mandato cosmico di garantire il rispetto del Mos maiorum, nella cui purezza anticorruttiva si andava cercando la chiave per il benessere e la supremazia romana, ma ponevano altresì nelle mani di ogni cives il compito di pacificare e civilizzare il mondo intero, un destino presentato come una coerente rivelazione datasi alla coscienza tramite un lunghissimo susseguirsi di eventi storici. Nasceva così il culto degli imperatori nel mondo latino, portato avanti dai successivi sovrani in maniera anche più spinta: nel 286, per esempio, Massimiano fece della propria ipotetica discendenza da Ercole un aspetto centrale della sua propaganda e persino nel XVII secolo la famiglia gentilizia romana dei Colonna considerava se stessa la progenie di Enea. Dai primi faraoni agli ultimi monarchi europei, la divinizzazione dei sovrani è servita non solo a consolidare l’ordine sociale che li poneva al proprio vertice, ma anche a inquadrare la vita di ogni suddito nell’appartenenza a una realtà eccezionale. La trasfigurazione dei personaggi storici, anche vicini o persino viventi, in figure eroiche o ieratiche che coniugavano aspetti di stereotipica iconicità a stravaganze e caratterizzazioni divertenti faceva sentire queste figure sia abbastanza sfumate in lontananza da universalizzarsi in veste di exempla, sia abbastanza vicine da poterne indossare i panni almeno sul piano morale. Una meccanica che funzionava in modo analogo alla caratterizzazione volutamente parziale di molti personaggi fumettistici.

La parola “storia” viene utilizzata nell’italiano corrente in maniere del tutto contraddittorie. Può designare tanto un racconto di fantasia, quanto l’oggettiva totalità dei fatti finora distribuitisi lungo quel minuscolo segmento di tempo che ha visto l’uomo muoversi sulla Terra. La natura storica di un fatto, contrariamente a quanto è consuetudine dire, prescinde completamente dalla sua conoscibilità. La conoscibilità determina piuttosto la natura storiografica delle cose, perché un fatto storico è conoscibile solo mediante il fatto storiografico che viene proposto a sua rappresentazione. Si tratta di una vera e propria sostituzione che, nella migliore delle ipotesi, sfocerà in una relativa equivalenza, ma di certo non in un’identità. Persino nella letteratura di settore la storia raramente viene distinta dalla storiografia, ovverosia l’insieme dei modelli di ricostruzione, analisi e interpretazione della storia propriamente detta. Questa distinzione, però, riveste una grande importanza, tanto che il problema da essa costituito dominò molte discussioni filosofiche novecentesche.

È l’eterogeneità delle interpretazioni a rendere possibile parlare di una storia della storiografia e scrivere una storiografia della storiografia. La storiografia è soggettiva, parziale e provvisoria, perché paradossalmente interiorizza ciò di cui i suoi realizzatori già fanno parte e di cui lei stessa sta entrando a far parte nell’essere realizzata, proposta, acquisita e rielaborata in qualcosa di nuovo creato dai suoi “cronotraslati” lettori. Questi ultimi interpretano un’interpretazione di fatti per poi reinterpretare entrambe le cose. Questi contrapposti abissi si misurano l’uno nell’altro all’infinito, perché la storia completamente ignota sarà sempre incomparabilmente più ampia rispetto a quella almeno parzialmente nota, offrendo sempre il destro a un gioco di contenimenti reciproci tra i dati raccolti e il senso attribuitogli. I fatti storici sono irripetibili e alterano la realtà nel momento stesso in cui si verificano: pertanto non ci è dato conoscerli in se stessi, nemmeno nel momento in cui li viviamo, visto il nostro coinvolgimento. Possiamo tornare a osservare diverse volte un reperto, ma i reperti non sono oggetti che raccontano un’unica possibile spiegazione della propria esistenza. Essi sono indizi e tali sono da considerarsi anche le testimonianze dirette di chi era presente a un evento, poiché ogni punto di vista è interno rispetto all’evento stesso ed è condizionato dalla peculiare personalità del testimone. Lo stesso riconoscimento di una fonte in quanto tale è un atto discutibile. A rigor di logica, tutto il mondo è una fonte, poiché l’uomo lo ha influenzato nella sua interezza, facendone un semi-artefatto. Il dibattito sulle fonti assomiglia in ciò a quello sull’arte, poiché molte volte a selezionarle non è altro che la cornice, appostavi intorno sulla base di convinzioni che sono, a loro volta, storicamente collocate. Lo studio del rapporto tra ciò che crediamo vero e la verità, qui come altrove, apre al paradosso e ci lascia con la sensazione di trovarci prigionieri di una galleria di specchi. Ebbene è così: la storiografia interroga la storia per trarne gli strumenti necessari a crearla, ma proprio nel farlo la storiografia rende storica se stessa e muta in quello stesso oggetto che ha appena contribuito a mutare. La differenza tra gli storici contemporanei e gli storiografi augustei consiste nel fatto che i primi sono consapevoli del suddetto problema e questa è sempre la differenza più dirimente.

Tanto le interpretazioni delle fonti quanto le fonti stesse sono dotate di diversa attendibilità, ma l’angosciante farsi ombra del vero non rende qualsiasi affermazione storica egualmente vera o falsa. Anche le ombre, anche il probabile ha una sua morbida solidità. Il fatto che una cosa non sia interpretabile in modo univoco non implica che sia interpretabile in modo omnivoco. La giara che vedi in un museo può essere stata in realtà un salvadanaio, ma non una sedia. I campi di concentramento nazisti e sovietici non erano villaggi vacanza e la collina Visočica non è una piramide di quattordicimila anni[1]. Esiste una verità dei fatti, una verità propriamente storica. Forse non possiamo impugnarla, ma possiamo avvicinarla infinitamente. Se la storiografia è un sottoinsieme lentamente espansivo posto all’interno dell’insieme “Storia”, la storiografia dovrebbe essere vista anche come un analogo sottoinsieme dell’insieme “storia nota”.

Il modus operandi di Virgilio ribaltava queste relazioni di contenimento, configurando una completa mise en abyme storiografica. La storiografia odierna ne configura soltanto una versione virtuale, perché, anche se spesso l’intenzione metodologica non supera il livello regolativo, essa si fonda sulla volontà di non mutare il rapporto di inclusione della storiografia nella storia nell’inverso, né di mischiarlo a tangenze o pur piccole intersezioni. L’esistenza di un dubbio permanente è esattamente ciò che rende il dilemma storiografico moderno una mise en abyme virtualizzabile. Non dico già virtualizzata in partenza, però, perché la storia è qualcosa che ricostruiamo e non è possibile ricostruire senza tentare una previa pianificazione la cui tenuta potremo poi verificare; senza contare il fatto che, banalmente, la fantasia degli uomini è sempre fertile, soprattutto quando ha per scopo l’esaltazione dei suoi proprietari. Talvolta essa distorce direttamente i fatti, talaltra il loro significato e la loro importanza, ma va detto che per lo storico è utile comprendere le motivazioni di chi ha proposto una narrazione posticcia di sé e della sua genìa.

I miti di fondazione sono tra i più potenti anche perché sono tra i più adattivi. Senza considerare l’estremo positivista delle capanne di tronchi “alla Lincoln”, già l’esaltazione umanistica dell’autopromozione fece sì che un’origine divina o cavalleresca apparisse a molti meno desiderabile della mera capacità di salire la scala sociale sin dai gradini più bassi. A Milano, mentre i Visconti rivendicavano una nobiltà risalente al periodo carolingio e i Della Torre si presentavano addirittura come discendenti di Carlo Magno, la dinastia sforzesca rivendicò con orgoglio la propria ascendenza da Giacomo “Muzio” Attendolo di Cotignola (1369-1424), un uomo di umili natali che aveva fatto fortuna come mercenario nelle compagnie di ventura, esaltandone però in modo eclatante la prestanza fisica, da cui il nome della Casa. Si poteva, insomma, provenire da abissi inferiori e avere la forza di emergerne, oppure partecipare di abissi superiori per diritto di nascita: ma l’importante restava il riconoscimento di una dignità superiore che fosse adeguatamente confermata da tutta la simbologia visuale, narrativa e comportamentale connessa a una pretesa superiorità di lignaggio. Il senso di queste mitologie dell’ultima ora doveva essere espresso in un unico colpo d’occhio da motti, sigilli…

Vai all’articolo successivo ›

Note

[1] Mi riferisco alle teorie dell’imprenditore Semir Osmanagić, che nel 2006 ha realizzato degli scavi su un gruppo di colline situate nei pressi di Sarajevo per dimostrarne la natura artificiale, derivandone molto seguito mediatico e nessuna evidenza archeologica.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

    Visualizza tutti gli articoli