Nelle profondità marine. Dalla struttura delle conchiglie alla partenogenesi
… «Là il Leviathan, immenso tra i viventi, nell’abisso disteso, come un promontorio, dorme; o va nuotando e pare un isolotto; e alle branchie respira ed al respiro riversa fuori un mare…»
Nel 2008 nel deserto peruviano di Pisco-Ica sono stati ritrovati da un’équipe di scienziati i resti fossili di quello che venne poi chiamato Livyatan melvillei, un cetaceo preistorico simile agli attuali capodogli. Il suo nome è collegato al leviatano, mostro marino biblico, mentre il nome della specie è un tributo allo scrittore Herman Melville. Era un essere notevolmente più grande dei capodogli, con una mandibola molto potente e ricca di denti acuminati, che lo rendeva un predatore in cima alla catena alimentare.
Un altro fossile interessante, risalente al Paleozoico, è quello del nautilus, specie in realtà osservata per la prima volta nell’Ottocento e considerata un fossile vivente, della quale famiglia Nautilidae rimangono solo cinque specie. La sezione della conchiglia fossile del nautilus è una spirale logaritmica ed è stata apprezzata fin dal Seicento per la sua bellezza e particolarità. Nelle foto in sezione si nota l’inconfondibile omotetia interna e la continua ripetizione della stessa struttura, tipicamente definita come frattale, molto presente nel mondo animale e vegetale. Il motivo interno della sua conchiglia si ripete all’infinito, in scala sempre minore, ma senza perdere i dettagli, anzi arricchendosi di particolari: per questo essa veniva molto utilizzata in oreficeria per creare oggetti di straordinaria fattezza.
Il nautilus si muove sui fondali alla ricerca di cibo. Ha una visione molto primitiva, che funziona come una camera oscura, tale per cui la messa a fuoco svantaggia la luminosità e viceversa: perciò passa i giorni sui fondali mentre di notte si muove verso la superficie.
Il capodoglio che abita gli oceani dei giorni nostri è una specie purtroppo minacciata, a causa della caccia di cui è vittima per la sua carne e per il prezioso olio presente nel capo. È un cetaceo in grado di immergersi da 400 m di profondità fino a 3 km. Lo spermaceti gli permette di inoltrarsi a una profondità così alta e di potersi orientare liberamente. Si ipotizza infatti che la forma quest’organo funga da cassa per l’ecolocazione e che allo stesso tempo consenta di focalizzare e allargare il raggio dei suoni emessi.
Scendendo ancora verso gli abissi più profondi ci si accorge che dai 200 m in poi non penetra più la luce necessaria per mantenere in vita la flora acquatica, e al buio e alla scarsità di cibo si sommano la sempre maggiore pressione e la bassa temperatura. L’adattamento necessario per poter sopravvivere in un ambiente così inospitale è immane: si riscontrano specie acquatiche con denti e bocche enormi, stomaci estensibili per sfruttare in ogni modo le occasioni per nutrirsi. Molte specie presentano occhi telescopici rivolti verso la superficie per distinguere le ombre proiettate dalle prede, oppure sviluppano prolungamenti delle pinne per orientarsi tattilmente. Un adattamento molto frequente e utile contro il buio degli abissi sono i fotofori, organi che emettono luce, presenti nella maggioranza delle specie abissali. Sono funzionali sia per il riconoscimento intraspecifico che per la cattura delle prede.
La bioluminescenza delle specie abissali segue lo stesso processo della chemiluminescenza, secondo il quale alcune molecole, in stato eccitato, emettono energia sotto forma di radiazione luminosa, quindi di fotoni, per tornare al loro stato normale. I metodi per emettere luce sono diversi in base ai vari organismi e seguono procedimenti biochimici differenti, perciò si crede che questa caratteristica si sia sviluppata in modo indipendente nei vari gruppi biologici in base ad habitat e condizioni circostanti. Il processo però implica, in quasi tutti i casi, l’intervento di due composti chimici, il primo che emette luce, la luciferina, il secondo un enzima catalizzatore, la luciferasi. La luciferina quindi in presenza di adenosintrifosfato (ATP), di magnesio e dell’enzima catalitico luciferasi cede elettroni, che passando da un livello a energia più alta a uno a energia più bassa liberano energia sotto forma di fotoni.
Una delle poche specie di polpi che presenta la bioluminescenza è il polpo ombrello, Stauroteuthis syrtensis, che, per difesa, allarga i tentacoli e si gonfia, esponendo tutti i fotofori lampeggianti nel tentativo di spaventare gli ospiti indesiderati. Alcuni fotofori emettono luce in modo continuo, anche se debolmente, mentre altri si accendono e si spengono seguendo degli schemi ciclici o sincronici che creano spettacolari giochi di luce. Ciascuna emissione luminosa è funzionale al tipo di comportamento che l’animale deve mettere in atto di volta in volta. Viene anche per questo chiamato “polpo lampadario”.
Il “calamaro vampiro” invece, per proteggersi, genera una luce bluastra, secondo un fenomeno chiamato controilluminazione. Il mollusco cefalopode si camuffa mentre emette luce dalla parte ventrale del corpo, originando una radiazione luminosa uguale a quella del riverbero che filtra dall’ambiente superficiale.
Esso, il cui nome scientifico è Vampyroteuthis infernalis, è ricoperto da fotofori, organi in grado di emettere luce. Questi possono disorientare prede o aggressori con lampi di iridescenza variabili; sia l’intensità che la dimensione dei fotofori può essere regolata. Questi organi luminosi sono dei dischi bianchi, sempre più grandi e complessi sulla punta dei tentacoli o alla base delle pinne. Sul capo del calamaro si possono notare due macchie bianche che possono essere confuse per fotofori, ma che in realtà sono fotorecettori.
Esistono anche pesci abissali di acqua dolce, che vivono in laghi molto profondi, come il Lago Bajkal o i Grandi Laghi del Nord America e che hanno sviluppato adattamenti simili alle specie abissali marittime. Le tre grandi famiglie endemiche del Bajkal e delle acque circostanti sono: gli Abyssocottidae, di cui fanno parte pesci ossei dell’ordine degli Scorpaeniformes, che vivono in acque profonde anche oltre i 1000 m; i Comephoridae, una famiglia di pesci ossei a cui appartiene solo il genere Comephorus e le due rispettive specie, che si trovano a profondità di circa 1600 m; e i Cottocomephoridae, che sono pesci ossei che vivono sia a profondità abissali che nelle zone costiere. Ma a parte la notevole varietà di specie presenti nel lago si conoscono poco quelle che abitano le zone più profonde. Anche per questo il Lago di Bajkal è sempre stato scenario di storie, leggende simboliche e misteri: i siberiani credono che nelle sue profondità si celino spiriti magici e un mostro mitico chiamato Pesce Drago.
In alcune zone circoscritte dei fondali marini si trovano masse d’acqua con elevatissima salinità. Si tratta di laghi sotterranei originati dalla dissoluzione di depositi salini sottomarini di milioni di anni fa, dovuti a loro volta a variazioni ambientali provocate dai movimenti tettonici.
Le condizioni dei laghi sottomarini sono estreme e si pensava fossero incompatibili con la vita. In realtà vi si trovano alcune specie estremofile. Alcuni batteri sono in grado infatti di effettuare la chemiosintesi batterica per produrre energia senza aver bisogno di luce, e a loro volta si legano in simbiosi con i molluschi bivalvi che vivono ai margini del lago subacqueo.
Le acque sotterranee sono presenti non solo sui fondali marini, ma anche nel sottosuolo: infatti quando si infiltrano nelle fratture del terreno si formano falde profonde che alimentano la vegetazione soprastante. Le falde sono presenti sia in zone di depressione sotto il letto dei fiumi che al di sotto delle zone pianeggianti. Molto spesso la falda può riemergere in superficie, formando una sorgente che si ripopolerà di forme di vita. La sorgente proveniente dal sottosuolo può riaffiorare in base alle oscillazioni freatiche, o per l’eccedenza di acqua nella cavità sotterranea o ancora per la compressione di due strati di rocce in cui è compressa la falda.
Le acque e i laghi sottomarini hanno sviluppato una fauna in grado di sopravvivere a condizioni estreme, e come in un ciclo continuo le acque riemergono e tornano in superficie ricreando altra vita; la natura si oppone in tutti i modi alle condizioni ostili dell’ambiente e all’estinzione.
Da poco è stato scoperto che il pesce sega, Pristis pectinata, sta mantenendo in vita la sua specie per partenogenesi. La specie infatti risulta ad alto rischio di estinzione, e quindi alcuni esemplari femminili hanno autofecondato le proprie uova. Si tratta del primo caso di partenogenesi nella famiglia dei pristidi e avviene quando i globuli polari, anziché essere riassorbiti, si comportano come spermatozoi nei confronti dell’ovocita, fecondandolo. I piccoli che nascono non sono cloni della madre, ma ereditano da lei tutto il patrimonio genetico. Questa scoperta è stata fatta casualmente durante uno studio sui pesci sega in Florida, dove il DNA di sette esemplari rimandava a un solo genitore. Gli scienziati ipotizzano che il fattore scatenante possa essere l’isolamento geografico rispetto agli individui di sesso maschile.
A distanza perciò di secoli, se non di millenni, ci accorgiamo di quanto l’intuizione dell’I Ching sulla composizione del simbolo dell’Abissale come acqua dentro l’acqua sia azzeccata: essa coglie alla perfezione il tentativo di vestire la moderna teoria biologica dei frattali e delle ricorsività naturali, per le quali infatti l’immagine letteraria di una “messa in abisso” calza a pennello. L’acqua infatti viene associata all’origine della vita, è sempre stata il mezzo fondamentale per la propagazione della materia vivente, ed è necessaria per tutti i processi metabolici e le trasformazioni chimiche che avvengono nelle cellule degli organismi. L’origine stessa della vita sulla Terra è databile da quando l’acqua allo stato liquido comparve sulla superficie.
Il passaggio da materia non vivente a composti organici non è stato provocato da un singolo evento, ma da vari processi graduali e complessi. Sicuramente l’abiogenesi ha avuto come base la produzione di semplici molecole organiche, ad esempio amminoacidi e nucleotidi, che hanno portato a sistemi progressivamente più organizzati.
Il tema più difficile da spiegare è come, nel mare di brodo primordiale, semplici composti organici abbiano formato le prime cellule. Molti uomini e scienziati, affascinati dalla pervasività impressionante e incomprensibile della vita in ambienti diversi, hanno cercato di renderne conto con teorie più o meno realistiche: ad esempio si è pensato a lungo che alcune forme di vita si originino…
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