Chi educa l’educatore?

La scatola cinese in divenire fra massa e partito

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…non fu soltanto lo spartiacque che segnò il definitivo tramonto del mondo feudale e la contemporanea alba della società borghese. La Rivoluzione francese fu anche l’ideale punto di non ritorno per i problemi teorici e politici che avevano impegnato le migliori menti nei secoli XVII e XVIII. Tra questi, il problema del potere. Se fino al 1789 la questione era posta nel senso logico-cronologico di ricerca di un irripetibile evento fondante (il contratto sociale da Hobbes a Rousseau), con la Rivoluzione nuovi campi della teoria politica vengono arati. Per dirla con un linguaggio quasi hegeliano, il concetto di potere politico si ripiega su se stesso e nel ricercare il suo fondamento trova le relazioni sociali come presupposto-posto della sua verità. In termini meno fumosi, ciò significa che la questione viene risolta nel divenire storico delle società. Il potere politico si fonda (e si spiega) su nient’altro che la storia dell’umanità: una «storia profana», come ebbe modo di scrivere Marx, senza inizi mitici né promesse per l’avvenire.

Nelle Tesi su Feuerbach, Marx appunta che «la dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata al di sopra di essa»[1]. Questa breve annotazione va qui sviluppata in due sensi o – per meglio dire – in un senso preso in duplice guisa: innanzitutto la questione del rapporto tra soggetto e oggetto; in secondo luogo la questione del rapporto tra avanguardia politica e classe sociale.

Prendiamo le mosse da questa seconda questione. Nel 1902 Lenin pubblica un opuscolo intitolato Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento. L’occasione è dettata dalla polemica interna al POSDR attorno al problema dell’organizzazione e dei compiti politici del partito.

Partito di quadri che – agendo nella clandestinità imposta dallo zarismo – sappia “tradurre” le rivendicazioni economiche in obiettivi politici? Oppure partito modellato sull’esempio tedesco, che lotti per uscire dalla clandestinità e diventare un partito di massa? Come si sa, nel rispondere a questa cruciale domanda il POSDR si spaccherà l’anno seguente in due correnti: bolscevichi e menscevichi. L’opuscolo comunque ha un successo enorme, al punto che nei decenni successivi le indicazioni in esso presenti verranno assolutizzate. Nemmeno le puntualizzazioni dello stesso Lenin, una quindicina di anni dopo, varranno a impedire di considerarlo come il testo fondativo di ogni prassi rivoluzionaria.

Questa santificazione di un’opera tutto sommato legata a una contingenza storica molto precisa ha prodotto più danni di quanti non se ne potessero prevedere. Uno di questi è l’elaborazione di una concezione a dir poco lineare e teleologica del rapporto tra classe e sua organizzazione politica: il soggetto sociale (la classe operaia) esprimerebbe la sua avanguardia politica (il partito comunista), che lo guiderebbe verso il sol dell’avvenire (il socialismo).

Ma il problema principale di questa interpretazione risiede nel fatto che, se il partito educa le masse, non si capisce chi dovrebbe educare il partito. Chi educa l’educatore? È questa la domanda a cui un’interpretazione volgarizzante del Che fare? non permette di rispondere.

Copertina del volume di H.-G. Backhaus, Ricerche sulla critica marxiana dell’economia

Ora, a lungo i comunisti sono andati in cerca del soggetto rivoluzionario par excellence. Dimentichi del fatto che Il capitale è una «teoria critica della lotta sociale e del cambiamento del mondo»[2] e non un trattato di sociologia o economia, almeno per come queste discipline si sono configurate nell’ultimo secolo e mezzo, hanno provato a definire i soggetti sociali, le classi, in senso sostanzialistico. In virtù di qualche particolare caratteristica, un determinato gruppo di persone si troverebbero oggettivamente accomunate da un’appartenenza di classe. Se ne deducono due importanti conseguenze: la prima è l’immutabilità delle classi all’interno di una determinata configurazione sociale; la seconda è che il lato soggettivo della divisione in classi interverrebbe ex post, come coscienza portata dall’esterno.

Sennonché il duro corso del mondo si scontra con questa visione semplicistica. Le trasformazioni del modo di produzione capitalistico, dacché Marx ha scritto la sua opera a oggi, legittimerebbero un abbandono di Marx stesso. «Gli operai non esistono più», si è detto da più parti. Da cui la logica conseguenza: «Il proletariato non esiste più». Ma se non esiste il proletariato, nemmeno esiste la borghesia. La storia dell’operaismo prima e del post-operaismo poi è la storia di una ricerca forsennata della mitica “soggettività” trasformatrice dell’esistente, dall’operaio massa alla moltitudine. Venendo meno le classi, ça va sans dire, viene meno l’esigenza di pensare al partito come avanguardia. La spontaneità delle masse (meglio: della “moltitudine”) basta a se stessa. Il cerchio si chiude. Ben lungi dall’aver prodotto un avanzamento, però, ci troviamo al punto di partenza, al dibattito interno al POSDR del 1902.

Ma Il capitale è appunto una teoria della lotta sociale. Non fotografa il mondo, penetra la variopinta scorza del fenomeno e si addentra alla scoperta delle tendenze relativamente permanenti a una data configurazione storica. Il «nocciolo razionale» che disvela non è solo quello della dialettica hegeliana, ma anche del divenire storico. Non concetto assoluto, sempre uguale a se stesso, la razionalità che sviluppa è misura storica dello sviluppo storico.

La lotta tra razionale e irrazionale [è la lotta tra] ciò che non trionferà in ultima analisi, non diventerà mai storia effettuale, ma […] in realtà è razionale anch’esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile; […] nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il “particulare” lotta per imporsi e in ultima analisi si impone anch’esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro[3].

Scrive così Gramsci. Ciò che vien posto al centro di questa “veduta” è sempre e comunque la totalità. «Il vero è l’intero» scriveva Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Si potrebbe qui parafrasare dicendo che «il vero della società è la società nella sua interezza».

Un’interezza da comprendere nelle sue determinazioni specifiche, nelle forme concrete – cioè storiche – delle relazioni tra gli individui e dell’essere umano con il mondo naturale. Forme concrete di un contenuto concreto, che si sviluppano temporalmente e spazialmente, che mutano in maniera ineguale – cioè secondo ritmi e modalità discordi e non sincronizzati – e combinata – cioè influenzandosi reciprocamente.

In questa paradossale “scatola cinese in divenire” in cui ogni momento contiene gli altri e se stesso all’infinito si può ripensare anche il problema del soggetto rivoluzionario. Non più però come soggetto che sta fisso, quieto in sé, nelle sue determinazioni. Ma come prassi soggettiva, che si estrinseca e manifesta così la sua eccedenza rispetto ai limiti “del suo elemento” (qui da intendersi lo status quo) e muta parimenti l’oggetto che le dava forma.

Se non fosse un modo di dire abusato, si potrebbe qui affermare che il problema va colto nel suo sviluppo dialettico. Il che significa che diventa necessario concepire la traduzione, sul piano universale («etico-politico»), delle rivendicazioni particolari («economico-corporative») di chi «non ha altro da perdere all’infuori delle proprie catene e un mondo da guadagnare»: il terreno della lotta politica ridisegna i contorni della stessa comprensione teorica della società.

Il soggetto rivoluzionario – in altri termini – è, esiste, solo in termini relazionali. La sua esistenza oggettiva è possibile solo se egli si riconosce come classe – se si riconosce soggettivamente (politicamente) in rapporto alle altre classi. Se è in grado di sapersi autonomo (ma sia chiaro, non indipendente!) rispetto alle altre classi. Al tempo stesso però, la classe diviene soggetto rivoluzionario solo se è in grado di produrre oggettivamente una trasformazione nelle relazioni sociali (se si pone, si pensa e con ciò esiste come oggetto della propria emancipazione).

La borghesia ne dà fulgido esempio. Essa era – ma non si sapeva – classe autonoma. Si riconobbe come tale a partire dal 1789, e l’espressione più pura di questo processo di autonomizzazione fu il fenomeno storico-politico del giacobinismo. Un fenomeno che non può essere compreso per le sue manifestazioni più esteriori, quelle del Terrore, ma che va indagato secondo la funzione storica a cui i giacobini adempirono. La loro capacità di imporre, alla borghesia francese, un programma universale che trascendesse i suoi interessi particolari, «conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto “spontaneamente” e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire»[4]. Giurando di salvare la Repubblica dai tiranni, essi falciarono le teste cresciute sopra le terre feudali e «fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe “dominante”, ma fecero di più […], fecero della borghesia la classe dirigente, egemone»[5].

In un divenire storico privo di a priori (una «storia profana»), l’azione organizzata di una classe subalterna, in grado di produrre una trasformazione permanente nei rapporti sociali, diventa l’unico modo che quella classe ha per dimostrare che «esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero unico»[6].

Chi educa allora l’educatore? La risposta non può che essere: l’educato! Il circolo di circoli (l’infinita reduplicazione della totalità in ciascun elemento) non si chiude mai, ma anzi sviluppa ed espande le premesse contenute in ciascun momento, ponendole di fronte al “tribunale della prassi”. Un tribunale che, come quello della storia, è giudice universale, mondiale.

In altri termini, solo una rivoluzione che sia in grado in ogni luogo di superare la divisione in classi della società risolve l’arcano del soggetto sociale rivoluzionario e invera l’affermazione di Marx[7] secondo cui il punto di vista del comunismo è…

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Note

[1] F. Engels, Marx/Engels Collected Works, Vol. 20, International Publishers, New York 1985, pp. 82-83.

[2] D. Bensaïd, Marx l’intempestivo, Edizioni Alegre, Roma 2007, p. 22, corsivi nostri.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 689-690.

[4] Ivi, p. 2017.

[5] Ivi, pp. 50-51.

[6] Ivi, p. 637.

[7] F. Engels, Marx/Engels Collected Works, cit., p. 86.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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