Nell’anno 1333, sul ciglio del promontorio di Inamuragasaki, attualmente nella prefettura di Kanagawa, in Giappone, un generale a capo di un esercito smontò da cavallo. Rimosse l’elmo, s’inginocchiò. Gettò la propria spada tra le onde sbattenti del mare.
La storia di Nitta Yoshisada, l’uomo descritto nell’opera epica Taiheiki e celebrato ancora oggi dal popolo nipponico come esempio di lealtà e coraggio, comincia in realtà molti anni prima dell’evento sul promontorio di Inamuragasaki che lo vide protagonista. Se la storia è circolare, infatti, la storia giapponese, forse in omaggio alla sua stessa filosofia, lo è doppiamente. Un secolo e mezzo prima dell’evento narrato dal Taiheiki, il Giappone era diviso in quella che in seguito sarebbe passata alla storia come la guerra Gempei. Due famiglie si contendevano allora il potere supremo sull’arcipelago: i Taira, sostenitori dell’impero, e i Minamoto, loro agguerriti rivali.
Nel 1156 i Minamoto avevano osato sfidare la supremazia dei Taira nella capitale imperiale Kyoto ed erano stati sconfitti e messi in fuga. Tra i pochi sopravvissuti della famiglia dalle bandiere bianche vi era colui che in seguito sarebbe divenuto il primo shogun del Giappone: Minamoto Yoritomo, che di arrendersi ai dettami dei Taira non aveva la minima intenzione. Egli chiamò alla guerra i parenti e raccolse un esercito per fronteggiare gli avversari dagli stendardi rossi, che sfidò poi apertamente nel 1180. Tutta la famiglia Minamoto accorse al richiamo del leader, tranne un tale Yoshishige, la cui codardia non sarebbe stata dimenticata.
La guerra Gempei vide contrapposte le due potenti famiglie per un periodo di cinque anni e culminò nella brutale battaglia navale di Dan-no-ura, sostenuta nello stretto di Shimonoseki, nell’attuale prefettura di Yamaguchi. All’epoca dello scontro, i Taira erano esausti per le lunghe campagne affrontate e, benché numericamente superiori, avevano ormai perduto buona parte della propria influenza. Il nuovo leader dei Taira era un bambino di appena sei anni e tra i generali serpeggiava il malcontento e la sfiducia. Minamoto Yoritomo, invece, deteneva il pieno controllo del proprio esercito anche grazie al sostegno del generale Yoshitsune, che tanto si era distinto nelle precedenti battaglie su terra.
Lo scontro di Dan-no-ura fu vinto dai Minamoto proprio per merito del genio militare di Yoshitsune, che pensò di disporre le navi con formazione a tridente per accerchiare e trafiggere su tre fronti la flotta nemica. Il tradimento di un generale Taira, che indicò su quale nave fosse nascosto il leader-bambino, permise infine alla famiglia dalle insegne bianche di avere la meglio. La vittoria sul mare dei Minamoto è ancora più sensazionale se si osservano i numeri: i Taira avevano dalla loro circa 800 legni, contrapposti ai 500 scarsi dei Minamoto. I testi suggeriscono che la famiglia sostenitrice dell’impero avesse perso nello scontro oltre 600 navi, mentre i Minamoto appena un centinaio.
Per il disonore e la paura di finire catturati e uccisi dai rivali, numerosi generali Taira preferirono il suicidio, alla resa. Si gettarono tra le onde del mare, consegnando i loro corpi all’oceano. Lo stesso leader-bambino e sua nonna, vedova del precedente capo della casata, si lasciarono affogare nello stretto di Shimonoseki. I tre simboli del potere imperiale, lo specchio, i gioielli e la spada, vennero scagliati negli abissi per prevenire che finissero in mano ai Minamoto. Dei tre soltanto la spada, secondo alcune fonti, non venne mai più ritrovata.
Con una spada che finisce nel mare comincia o, per meglio dire, finisce anche la storia di Nitta Yoshisada, il generale introdotto al principio di questo articolo.
A seguito della vittoria a Dan-no-ura, Minamoto Yoritomo proclamò la nascita dello shogunato e accentrò la sede del potere politico nella città di Kamakura, mantenendo l’imperatore a Kyoto come fantoccio ormai privo di reale potere. Negli anni successivi la guerra Gempei, i Minamoto persero via via influenza a favore di un altro clan, gli Hojo, che presto avrebbero spodestato i primi nella reggenza del paese. Kyoto, però, non aveva scordato le glorie del passato, quando cioè era l’imperatore, e non un qualunque signorotto feudale, a dettare la legge degli dei. La città imperiale attese con pazienza che la ruota girasse anche per gli Hojo e trovò l’occasione nel 1310, quando divenne nuovo leader della famiglia reggente un bambino di appena otto anni. Per l’impero era il momento della rivalsa.
L’allora imperatore Go Daigo mosse guerra agli Hojo. Lo scontro fu altalenante tra battaglie, assedi, esili e cambi di fazione. Tra i personaggi di spicco di questi primi anni di guerra non si può non ricordare il generale Ashikaga Takauji, dapprima seguace degli Hojo e, successivamente, fedele servitore dell’imperatore. Fu proprio lui, infatti, inizialmente reclutato per uccidere Go Daigo, che finì per sostenere il rientro vittorioso di quest’ultimo a Kyoto.
Tra i generali sfiduciati dal leader-bambino degli Hojo ci fu anche Nitta Yoshisada. A dirla tutta, il principale motivo che spinse Yoshisada ad abbandonare i reggenti di Kamakura e a spostarsi nella fazione di Go Daigo, fu meramente personale: Yoshisada aveva un’onta da lavare.
Nitta Yoshisada era discendente di quello stesso Yoshishige che non aveva risposto alla chiamata alle armi di Minamoto Yoritomo durante la guerra Gempei. Per questa scelta dell’antenato, la famiglia Nitta era caduta in disgrazia dopo la vittoria dei Minamoto a Dan-no-ura. Rispondendo ora all’ordine dell’imperatore, Yoshisada sperava di ribaltare quanto accaduto nel 1180 e di riportare alla gloria il proprio nobile clan.
Kamakura, nel 1333, era circondata da colline per tre quarti e, nell’ultimo quarto, separata dal mare da un promontorio chiamato Inamuragasaki. Alla città si poteva accedere tramite sette passi, uno dei quali proprio sul promontorio. È attraverso questo che Nitta Yoshisada decise di raggiungere la capitale degli Hojo per spodestare il reggente bambino e riconsegnare il potere all’imperatore Go Daigo.
Il passo era protetto da uno scarso numero di truppe via terra, ma da un’ingente flotta per mare. Gli arcieri sulle imbarcazioni Hojo non avrebbero avuto difficoltà a bersagliare i soldati del clan Nitta, qualora questi avessero tentato di attraversare il promontorio. La situazione sembrava in stallo.
Il 21 maggio 1333, sul promontorio Inamuragasaki, Nitta Yoshisada smontò da cavallo, rimosse l’elmo e si inginocchiò. Pregò le divinità drago degli abissi, affinché concedessero il loro favore. Troppo a lungo il Giappone era stato governato da signori feudali e tiranni, troppo a lungo la vergogna aveva macchiato la tradizione; era tempo che il potere tornasse nelle mani dell’unico vero erede della dea del Sole, l’imperatore Go Daigo. Yoshisada sacrificò la propria spada gettandola alle onde. Quella stessa notte, alla luce di una gigantesca luna piena, le acque del mare si ritirarono a tal punto da scoprire un nuovo passaggio attraverso il promontorio. Le navi degli Hojo furono trascinate via dalla marea, troppo lontane per prevenire con gli arcieri l’avanzata del clan Nitta. L’esercito dell’impero fece irruzione nella città.
Kamakura cadde, gli Hojo vennero distrutti. Il Taiheiki racconta di incendi, decapitazioni e tumulazioni di samurai ancora in vita. Nitta Yoshisada aveva pulito con l’acqua del mare di Inamuragasaki la vergogna del proprio antenato. E se in passato la famiglia Minamoto era diventata celebre per avere imposto lo shogunato in opposizione all’impero, adesso un erede di quello stesso potente clan riacquistava prestigio grazie al supporto dimostrato verso l’imperatore. Sarebbe però stato Go Daigo stesso il responsabile della fine di Nitta Yoshisada: cinque anni più tardi la presa di Kamakura, nel 1338, Go Daigo fu persuaso dai consiglieri di corte a uccidere Yoshisada, ponendo per sempre fine al clan dei Minamoto.
Bibliografia
Stephen Turnbull, I guerrieri samurai, Trezzano S/N, Italia, Fratelli Melita Editore, 1991.
Stephen Turnbull, Battles of the Samurai, Guild Publishing London, 1987.
Stephen Turnbull, Samurai: The World of the Warrior, Osprey Publishing, 2003.
AA.VV, The Taiheiki: A Chronicle of Medieval Japan, traduzione a cura di Helen McCullough, Tuttle, 2004.