Il ruolo del pubblico nella performance art è abbastanza indefinibile, variabile almeno quanto la definizione stessa di “arte performativa”. Nell’ambito di un discorso generale sull’azione scenica e sullo sguardo rivolto alla scena, possiamo solo constatare che la molteplicità di linguaggi a disposizione ci impedisce di sapere a priori cosa succederà; è una condizione che vale tanto per lo spettatore che varca la soglia di un teatro, quanto per il performer che attraversa le quinte e fa la sua comparsa sul palco. Un mio amico che non si occupa di teatro per lavoro ma per piacere, quando lo invito a vedere qualcosa mi fa sempre la stessa domanda: “È uno di quegli spettacoli in cui l’attore mi farà fare cose?” e poi per precauzione si affretta a sedersi dalla terza fila in poi.
Un performer ha molti modi per coinvolgere il suo pubblico e non tutti passano per la rottura della quarta parete; può essere per più profondo e significativo un coinvolgimento emotivo, o estetico, anche se il performer non si rivolge direttamente al pubblico. Anche perché, a ben vedere, il riferimento indiretto è sempre e comunque lo spettatore, che si trovi in prima fila o dalla terza in poi. Senza pubblico, niente performance; ma di più –- e questo è sommamente importante – senza un pubblico disponibile non ci può essere arte.
Disponibile a farsi coinvolgere, a partecipare, perfino ad essere antagonista. Il teatro è una meravigliosa trappola a cui una volta entrati, non ci si può sottrarre. Così sono nate le più interessanti ed estreme provocazioni delle avanguardie, proponendo un certo contenuto ad un pubblico lì pronto a riceverlo ma non intenzionato ad accettarlo.
Non sempre però il rapporto tra pubblico e performer è così difficoltoso; altre volte a emergere è la generosità e quando ciò accade, io trovò che sia semplicemente meraviglioso. È il caso di quanto accaduto in Via Fontana, 15 presso Mowlab –Il Filo di Paglia, spazio dove per sei mesi un gruppo di artisti si sono confrontati con il difficile compito di realizzare un assolo performativo. Andrea Baroni e Simona Ornaghi, guidati da Marco De Meo curatore del progetto Move Lab | Darkroom, percorso interessante del quale ho già parlato in precedenza, da un punto di osservazione privilegiato – del quale sono molto grato. Il risultato però, una prima apertura al pubblico avvenuta domenica scorsa, è stato sorprendente; fino ad allora avevo osservato due soli ben costruiti, solidi nell’impianto concettuale e curati nella realizzazione tecnica.
Il lavoro di Andrea si concentra sull’idea, evocativamente mistica ma concreta nella pratica, di una dualità del sé: opacità/lucidità, superficie/profondità, assenza/presenza. Gli stacchi di luce e buio e i passaggi tra sonorità sorde e vivaci contribuiscono a dare l’idea di questa trasformazione, coronata dalla diversa qualità fisica che contraddistingue i momenti della performance.
La creazione di Simona affronta invece la difficoltà di un radicamento definitivo, di un’appartenenza netta; anche qui si avverte un’oscillazione tra diversi pianeti – in senso sia drammaturgico che letterale, vista l’impronta fantascientifica di alcuni testi utilizzati. L’orizzonte si frammenta in verticalità distinte, alto/basso così come cielo/inferi in un andamento sincopato da loop station con proiezioni a corredo.
Quando si scrive della intangibile performance art, la speranza è sempre che gli artisti si possano riconoscere e vi possano trovare nuovi spunti; che il pubblico ci si ritrovi; infine che chi non ha partecipato all’evento possa esserne incuriosito. Questo è il migliore dei casi, dal momento che non è possibile rendere con precisione con le sole parole un fenomeno che è molto più che puramente verbale; e di contro la vera essenza della performance risiede per breve tempo nel luogo dove si svolge, non nelle mie pagine.
Qui posso solo registrare alcuni eventi notevoli che si sono verificati domenica: ad un pubblico di amici, si è aggiunto ad un certo punto un passante capitato lì per caso; una spettatrice, arrivata sul finire delle performance, ha partecipato con curiosità alle chiacchiere del post spettacolo, interessandosene e dipingendosi un quadro di quanto si era persa; infine, il fotografo di scena è entrato nella performance di Simona con tanta grazia e casuale puntualità che il mio suggerimento è di includervelo anche nel prosieguo del lavoro – qui potete vedere le foto scattate durante la serata.
Questi sono, a mio parere, tre fatti considerevoli perché indicano l’alto livello di ascolto dell’azione che si era creato nel momento artistico; e, dopo aver preso nota del valore delle performance realizzate in questa edizione, è questo il risultato più importante di Move Lab.