Tra presa di distanza e coinvolgimento: L’ironia di Jankélévitch
Podcast radiofonici, articoli su riviste di vario genere, interventi accademici: negli ultimi tempi si è assistito a un sorprendente ritorno di attenzione e interesse nei confronti di un pensatore francese del Novecento dai contorni volutamente sfumati e mobili, i cui scritti piccoli e umili ben poco hanno della pesante sistematicità che solitamente associamo a un’idea di filosofia. Stiamo parlando del filosofo morale Vladimir Jankélévitch, di cui vorremmo esporre e discutere alcune intuizioni relative al tema dell’ironia. Lasciando a chi ne ha le competenze l’impegno di fornire una vera e propria introduzione alla sua filosofia, va detto subito che è il felicissimo stile dello studioso francese a consentire un’estrapolazione fertile di spunti singoli e frammentari: quello di Jankélévitch è un pensare canoro, paragonabile a una danza acrobatica solo iniziata e lieta di proseguire attraverso i passi di un lettore attivo e vigile.
Il modo con cui il filosofo si occupa dell’ironia nell’omonimo saggio è emblematico di questo percorso teorico errante e vagabondo. Il suggerimento è di indagare la forma in cui essa si presenta: in quella che di fatto è un’analogia con il modo stesso di fare filosofia di Jankélévitch (tanto che verrebbe da chiedersi se ironizzare non è, in qualche modo e misura, filosofare), la predicazione dell’ironia appare ben più simile a un movimento che a una fissità rocciosa e solida. Essa è, come prima definizione, un distacco. Ironizzare vuol dire stabilire una lontananza, tramutare la presenza in assenza, presagire «la possibilità di fare qualcosa di diverso, di essere altrove, più tardi»[1]. Distacco da cosa? Innanzitutto dall’oggetto dell’ironia per come si presenta nel contesto originario. Le coordinate vigenti di locazione spazio-temporale, priorità e importanza vengono improvvisamente a mancare; le mettiamo tra parentesi, liberiamo lo spirito, ci scopriamo ribelli alle regole di questo mondo e ne inventiamo per l’eternità di un istante uno nuovo, che obbedisca ai nostri dettami e a quelli di nessun altro. Così nel discorso ironico la persona o la situazione cui ci riferiamo improvvisamente gode di qualità e difetti sino a un attimo prima impensabili, l’ironizzato vive avventure esotiche e scandalose, è collocato volente o nolente nel mondo che gli abbiamo confezionato su misura. Allo stesso tempo, e come inevitabile conseguenza di quanto abbiamo detto, la coscienza prende anche le distanze da se stessa[2]: in fondo finiamo noi stessi in quel mondo che abbiamo creato con la parola ironica, se non altro per poterlo descrivere e mirare con i nostri occhi.
L’ironia è paragonabile all’allegoria, nel senso che dice una cosa e ne pensa un’altra[3]; ma non si tratta che di una modalità di discorso, «dissimula esibendo e fuorvia manifestando, ma fuorviando manifesta, benché in modo indiretto e obliquo»[4]. Riprendendo la riflessione sui mondi attraversati dall’acrobazia dell’ironia: parliamo a un individuo di un aspetto particolare di questo mondo o di chi lo abita, e per farlo impieghiamo la narrazione dell’aspetto particolare di un altro mondo o di un suo residente. D’altronde il linguaggio è «organo-ostacolo» e nel trasmettere il senso non può fare a meno di intercettarlo e modificarlo[5]: così impiegheremmo la circonvoluzione verbale dell’altro mondo perché è in effetti il modo meno diretto ma più fedele di parlare del nostro. Certamente la strategia può avere fini e motivazioni immediate: così possiamo ironizzare per difenderci da una critica esterna o da una parola malevola – ma in quel caso abbiamo a che fare con un’ironia che non è nient’altro che armatura e biologica muraglia di una psiche che cozza contro un referente ostile e nemico. Ci riferiamo invece, in sintonia con Jankélévitch, a un tipo di comportamento del tutto diverso e ben più ricco di significanza, in quanto attivo e propositivo: quel genere di ironia misteriosa e fondamentale che è pratica intrinsecamente benevola e implica simpatia nei confronti del destinatario. Essa non è necessaria né inevitabile; nei casi che intendiamo potremmo non essere ironici; l’informazione in gioco potrebbe essere trasmessa in altri modi. In altre parole: vi è un di-più (un non-so-che, direbbe Jankélévitch) vago e indefinito che l’ironia aggiunge al discorso, e che va indagato.
Jankélévitch associa la «buona coscienza» dell’ironia a un’operazione ciclica che prevede un fare e un disfare; con un’intuizione felice la accosta allo stratagemma di Penelope che per guadagnare tempo in attesa del ritorno di Ulisse vanifica ogni sera il lavoro del mattino[6]. La differenza decisiva sta nel riassunto da parte dell’ironista della doppia operazione in un solo movimento: ma dalla parte dell’ironizzato, l’attività rimane divisa in due tempi. E proprio qui si rivela il valore pulsante dell’autentica ironia: a differenza di ogni trucco malevolo e di ogni manifestazione di cinismo, essa è essenzialmente generosa e include nel suo farsi l’ironizzato stesso[7]. A questi infatti è concesso di comprendere l’ironia e di giocare con l’ironista: nel mondo nuovo e profondo in cui è stato trascinato a sua insaputa, egli può comportarsi da agente attivo e cosciente – edifica a sua volta il significato delle parole, identifica e decodifica i geroglifici del discorso. Soprattutto, può approfondire l’ironia verso abissi che l’ironista originariamente non aveva nemmeno previsto: può allargare la voragine dell’abissale, aggiungere nuovi strati di senso, arricchire il nuovo mondo di contenuti inediti – e nel farlo partecipa in realtà al processo di descrizione e comprensione dell’universo originario, il nostro. Per dirla con le parole di Jankélévitch, «l’ironia non vuole essere creduta, ma compresa»; è esigente, ma solo nel senso benevolo che esige un’interpretazione da parte dell’ironizzato[8]. Apparentemente elitaria, essa è nel suo movimento più autentico e rischioso[9] una pratica estremamente democratica che implica la parità di condizione tra i due partecipanti al gioco.
Un’ultima osservazione. Nella prima parte del testo Jankélévitch afferma che «ogni attimo, in sé considerato, è futile e non merita che un’attenzione divertita, ma la totalità degli attimi successivi resiste al nostro humour»; invece, «vivere rimane un problema serio»[10]. Istintivamente verrebbe da essere d’accordo con il nostro filosofo morale. Invece proponiamo un ulteriore ma certo non ultimo capovolgimento di prospettive e concezioni – tra l’altro in linea con quanto Jankélévitch afferma in uno dei suoi testi più importanti, Il non-so-che e il quasi-niente[11]. Se l’attimo in sé fosse davvero così futile, allora non gli dedicheremmo lo sforzo di un’ironia creativa e ragionata. Al contrario: il tempo dell’istante è estremamente serio, perché è l’unico momento tra il già-stato e il non-ancora in cui alla coscienza è data l’occasione di esprimersi, agire, scegliere; il tempo dell’istante è letteralmente questione di vita o di morte, nel senso che in quello successivo un’altra occasione ci sarà forse data – ma quell’opportunità specifica, caratterizzata da quei tratti tipici e non da altri non si ripresenterà mai più. La vita, con il suo affacciarsi dal balcone verso un avvenire indefinito e manipolabile, è forse una questione leggera; ma nell’istante intuiamo la minacciosa avvertenza di un dovere urgente e inderogabile, e ci è richiesto di agire con quell’attenzione generosa di cui l’ironia non è che una possibile declinazione.
Note
[1] Vladimir Jankélévitch, L’ironia, il melangolo, Genova 1987, p. 30.
[2] Ivi, pp. 33-34.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 55.
[5] Ivi, pp. 53-54.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 63.
[8] Ivi, p. 68.
[9] Naturalmente non è possibile in questa sede trattare e nemmeno menzionare tutti gli spunti di Jankélévitch sull’ironia, ma è evidente che essa è una pratica esposta al rischio del fallimento, dell’incomprensione e del malinteso; non a caso Jankélévitch intitola Le trappole dell’ironia la terza parte del saggio.
[10] Ivi, p. 33.
[11] V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, Einaudi, Torino 2011.