Canaletti (1998) è un poeta giovanissimo. Per questo stupisce ancor di più il linguaggio maturo che utilizza. Le sue forme letterarie sfumano come l’aria intrisa di polvere e luce. Quando lo si legge si affonda in un’atmosfera tra l’urlato e il soffuso, a tratti nostalgica, con accenni di vitalità espressiva che rendono giustizia a una poesia che ha ancora tanti passi da fare, ma che già parte da presupposti saldi. Un altro giovane poeta scoperto e segnalatomi da YAWP.
Buona lettura.
Victor Attilio Campagna
Mentre passeggiavo, intorno a me lo smog
i portici e il muretto basso
dove torreggiava in rosso
“morte ai fascisti” e
poco sotto,
“sbirri servi!”, e
la macchia, in basso, gialla
di urina e vomito mischiati al fango.
Da poco non c’era più pioggia,
ma l’odore ruggine dei ferri
era più forte di ogni cosa, anche
dello schermo grigio
oltre il semaforo.
Noi,
chi ubriaco, chi soltanto stanco
di ritorno dalla sera,
eravamo solo io che passeggiavo.
Amici, siete di me la prova
e non vi credo più,
convinto che se esisto
non esistete ancora,
o, se vivi voi,
io non sopravvivo.
*
Non salire. Non lasciarti
intrappolare sulla vetta.
Tutto ha ricchezza
dal basso.
E tu raggiungi,
sempre più lontano,
l’abisso …
Raggiungi! E una volta lì
riparti, memoria esile e
cammino –
tu che sei i piedi
la stessa strada,
la traiettoria che sfina
le foglie e culla
la rugiada.
È come un indizio
di tempo,
l’inizio o la sorpresa
di chi sa
quanto dice e che,
quando dice,
sa che ha già perso,
che nulla ha più significato.
*
Chissà come ci apparirà,
vedendo da lontano
questa casa. Quest’ombra
questa forma immutata
tra le strade ad angolo
con le finestre aperte
dove sostavi ad ospitare
lo sguardo di un passante;
Chissà come ci apparirà,
quasi inesistenti come siamo,
la casa che
agli altri, un giorno,
apparirà
di nessuno.
Ma noi siamo qui.
Tu hai riordinato
il formulario che ci tiene insieme
i sentimenti,
l’accordo tacito di chi
conviene con la follia.
Anche noi vorremmo, un giorno,
ritornare a questa casa.
Riabitare l’antico campo
delle prime parole, dei primi versi,
delle prime strofe.
Come ci apparirà
lo sa chi non è mai
restato a terra
ma scivolando giù
nella corrente
ha potuto intravedere
una sosta di come si sa,
era ovvio,
perché tutto, a noi,
apparirà inverosimile.
*
E già profonda.
E già tremendamente profonda
l’acqua,
t’affonda il peso
delle vene,
piene immancabili
lì dove l’acqua vedevi e
fingevi la fonte
nella giustapposizione di verdi
nel faggeto fresco
umbratile,
sommità della vetta
dopo il paese fantasma.
Già sprofonda
tremendamente,
l’acqua
e tu con essa
nella maceria di frali pendii,
di crepitanti fuliggini,
degli uccelli colorati
tutt’intorno.
E non ti riconosci più,
non ti vedi più
com’eri, com’eri stato, come sarai.
E ti si avvinghia
la voglia di tenerti in vita
miseramente,
pur sempre in vita,
dove tace
un dio che non credevi,
nei pascoli celati alle città
in luoghi inarrivabili
intatti immobili da sempre,
nella conquista
eterna della luce,
lì dove quando arriva
notte, la luce non c’è
più.
*
Un sospiro sul morse
della serranda
punto linea punto
di un dettato antico …
il sole recidivo tra le tende,
impoverito
dall’abete.
Qual è sembianza di questo nome,
innominato lamento
che significa sorpresa
meraviglia,
pomeriggio di noia che
trapela in casa
a gocce infinitesimali
di cicale e auto solitarie.
Non avrai pensato,
follia, che questo nome
fosse il mio,
di un bianco che riversa
nel convesso
del pensiero
che raccoglie
questo ultimo lamento.