O su come chiamare le cose con il linguaggio
Ogni numero della Tigre di Carta ha un tema che attraversa tutti gli articoli che vi compaiono, dando unità in modo più o meno stringente a un assortimento di rubriche che, nel bene e nel male, è straordinariamente vario e ampio.
Tale tema viene estratto mediante quella che può essere vista alternativamente come una seria procedura divinatoria, in grado se non altro di rispondere infallibilmente alla domanda su quale sarà l’argomento del prossimo numero della Tigre di Carta, o un puerile gioco aleatorio: l’interrogazione dell’I Ching.
Comunque la si voglia vedere (anche tenendo conto delle vie di mezzo: una divinazione può non essere seria e un gioco aleatorio può non essere puerile) la procedura è affascinante per due motivi.
Il primo motivo è che grazie a questa macchinazione cervellotica i redattori riescono in un’impresa gloriosamente antistorica: stampare una rivista in cui sul retro di un articolo di storia dell’arte ce n’è uno di matematica, e di fronte a uno di psicologia ce n’è uno di cinema. Su questo aspetto, tuttavia, per questa volta non vorrei soffermarmi.
Il secondo motivo è che la bizzarra impresa in cui consiste la compilazione della Tigre – articolata numero dopo numero nelle seguenti operazioni: ottenere un responso dall’oracolo, scriverci una quindicina di piccoli saggi disciplinarmente disparati, impaginarli e stampare il tutto – è destinata ad avere un compimento. Anche al netto, cioè, della possibilità concretissima che a un certo punto il direttore scappi con i soldi, oppure che le foreste del pianeta scompaiano definitivamente e con loro la pergamena vegetale, oppure che la redazione si stufi, anche indipendentemente da tutto questo dicevo non potranno esserci infiniti numeri della Tigre di Carta, e neanche mille, e neanche cento.
Gli esagrammi in cui consistono i responsi dell’I Ching, infatti, sono solo sessantaquattro: tanti quante sono le combinazioni che si ottengono a partire da sei linee di cui ognuna può essere solo intera o spezzata. Arrivata questa rivista al sessantaquattresimo numero, la sua parabola sarebbe finita: la raccolta sarebbe completa, i collezionisti contenti, il progetto compiuto, l’Amazzonia sollevata. Il risultato, nella migliore delle ipotesi, sarebbe un’enciclopedia mostruosa, ma indubbiamente suggestiva, composta da una corposa serie di articoli riconducibili a quasi tutte le principali branche dello scibile, organizzata però non sulla base di un indice alfabetico, non sulla base di un indice sistematico, bensì sulla base dell’elenco dei sessantaquattro esagrammi dell’I Ching.
L’aspetto che, se andassimo avanti a questo ritmo, avrebbe nel 2030 la raccolta di tutte le Tigri sarebbe quello di un abnorme dizionario ragionato, ma non troppo, delle scienze, delle arti e dei mestieri. Ed è divertente chiedersi che immagine del teatro ci si farebbe se si leggessero uno dopo l’altro tutti gli articoli di teatro, sezionando le Tigri dall’1 al 64 orizzontalmente anziché verticalmente e fingendo di credere in un intento di sistematicità da parte di chi li ha scritti; e che immagine della fisica se si facesse lo stesso con la fisica, e della poesia con la poesia, e così via.
Negli articoli di filosofia – che purtroppo, sebbene a volte sotto mentite spoglie, ha steso perlopiù il sottoscritto – una parvenza di sistematicità forse c’è, dovuta certo meno a una progettualità consapevole e più al fatto che semplicemente finisco per battere sempre lo stesso chiodo. Per questa ragione penso che l’articolo di filosofia del numero che avete davanti a voi potrebbe benissimo provare a ergersi a prefazione di una – quella filosofica – delle sezioni orizzontali di cui dicevo, proponendo una chiave di lettura e una possibilità di comprensione organica di tutte le elucubrazioni da me partorite finora e, verosimilmente, anche di quelle che produrrò in futuro: e questo sia in ossequio al titolo di questo numero, La raccolta, che si presta a essere inteso in un senso anche abbastanza “meta”; sia per il fatto che quel famoso chiodo che batto sempre in realtà ha con l’idea di Raccolta molto a che fare.
“Raccogliere” in greco si dice (anche) λέγω. Questo verbo è lo stesso che si usa per dire “parlare”, ed è proprio a esso che si lega etimologicamente la parola λόγος. Spinte troppo oltre, le affabulazioni filosofiche intorno alla genealogia dei termini creano solo confusione; ma, filologia a parte, qui può bastarci osservare che la correlazione tra la nozione un po’ astratta di “parola”, “discorso” o “verbo” e l’atto concretissimo dell’unire e del separare è pertinente.
La vocazione del linguaggio consiste nel radunare cose diverse sotto un unico titolo, implicando che in qualche modo sono tutte la stessa: prendere cavalli distinti e accomunarli sotto l’etichetta della parola “cavallo”; prendere il medesimo cavallo in momenti successivi e fare la stessa cosa con la parola “individuo”. Si tratta di unire e correlativamente separare, ossia trovare e tracciare continuità e correlativamente discontinuità, somiglianze e differenze.
Esiste un’obiezione secondo cui questo è impossibile, e secondo cui quindi la vocazione del linguaggio è in realtà un’ambizione destinata alla frustrazione.
La versione debole di questa obiezione assume la forma: «Vedo il cavallo, non vedo la cavallinità». La versione forte assume la forma: «Quello che ho visto oggi è diverso, non fosse che per il fatto di avere un’età di x + 1 giorni, da quello che ho visto ieri e che aveva un’età di x giorni; dunque non c’è legittimità nel chiamare le due cose con lo stesso nome».
Ovviamente, nessuna delle parole impiegate per formulare l’obiezione forte ha alcuna legittimità se l’obiezione è valida: il termine “quello” in “quello che ho visto ieri” è un nome comune tanto quanto lo è il termine “cavallo”, e quindi, più che come un’argomentazione, quel tipo di ragionamento va visto come un’esortazione al silenzio.
Il silenzio, tuttavia, non è interessante; o, per esprimersi meno argutamente, l’invito al silenzio è un invito a interrompere il gioco del parlare che tuttavia non tange più di tanto chi quel gioco vuole giocarlo (cfr. n. 10). Nell’ambito del gioco linguistico sussistono il giustificare e il criticare, ma la liceità o possibilità del fatto di giocare non può essere giustificata né dall’interno di quell’ambito (perché lì può essere solo presupposta) né dall’esterno (perché una giustificazione ha bisogno di presupposti). Vi è giustificazione secondo le regole del gioco, non delle regole del gioco: e la regola di tutte le regole – la pratica uniforme o comportamento regolare dell’unificare molteplicità e distinguere nell’ambito di gruppi, raccogliendo e suddividendo, insomma classificando – questa regola non necessita d’altro per essere applicabile che del fatto che il linguaggio sia il linguaggio. L’unica risposta ragionevole alla tesi secondo cui il nome comune è impossibile perché o si nomina una cosa o non se ne nomina nessuna è la considerazione per cui, al contrario, il nominare è intrinsecamente il raccogliere molte cose diverse sotto un unico ombrello, trascurandone le differenze, oppure isolare qualcosa dall’insieme a cui appartiene, trascurando ciò che lo fa somigliare agli altri suoi elementi (cfr. n. 17).
L’obiezione debole, dunque, non è affatto un’obiezione alla possibilità e liceità dell’uso del linguaggio come sistema di nomi comuni, bensì un prezioso caveat sul funzionamento dei nomi comuni in generale: non vi sono entità metafisiche a garantire l’inequivocabilità delle parole, e al contrario quel gesto di chiamare cose diverse con lo stesso nome e cose uguali con nomi diversi in cui consiste il linguaggio è intrinsecamente equivoco, per omonimia e per sinonimia, ed è fonte di potenziali infinite ambiguità. Il linguaggio è un colabrodo che può trattenere qualcosa solo sprecando qualcos’altro, ma se così non fosse non sarebbe linguaggio affatto: non sprecare niente vorrebbe dire avere troppo, e non trattenere niente ci lascerebbe con troppo poco (cfr. nn. 13, 14).
Il compito di coloro che tentano di usare le parole con proprietà e precisione (i filosofi? gli uomini onesti?) consiste nel tentare di destreggiarsi in quella che può sembrare l’incompletezza o l’insufficienza del linguaggio apprezzando il fatto che, invece, si tratta solo della sua inesauribile apertura.