Il Buono e il Brutto d’un film contro il Cattivo abuso di potere
«Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo […] per costringerlo a confessare un delitto […]». Cesare Beccaria «Mi pare impossibile che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora». Pietro Verri «Il più profondo è la pelle». Paul Valéry
Son passati quasi dodici anni da quando lo Stato ha preso in custodia il geometra Stefano Cucchi e, il 22 ottobre del 2009, l’ha restituito morto alla famiglia.
Dodici anni in cui i cittadini italiani hanno assistito prima alla assoluzione dei medici e degli agenti accusati di negligenza per la morte di Stefano e poi a l’avvio di un nuovo processo.
Dodici anni di ferma ricerca di chiarezza da parte della famiglia Cucchi; dodici anni in cui la verità ha provato a farsi breccia e a procedere oltre la «colonna infame» alla quale, anche grazie alle dichiarazioni di certi politici, s’è tentato d’incatenare la storia di Cucchi o la sua famiglia, talvolta persino descritta alla stregua di pericolosi eversori1. Un’infame colonna di accuse verso Stefano Cucchi («se l’è cercata»2) e di minimizzazioni dell’accaduto che da dodici anni a questa parte pare sia servita solo a ovattare le voci di sospetto levate da coloro a cui quella morte è parsa, fin da subito, non accidentale3.
Dodici anni perché emergessero elementi processuali a conferma delle percosse che sarebbero avvenute durante il fermo di Cucchi. Dodici anni per capire che tali percosse sarebbero state omertosamente taciute dai Carabinieri anche per volontà di vertici dell’Arma4.
Il processo bis ha concluso il primo grado di giudizio condannando due carabinieri e il comandante della stazione dei Carabinieri in cui si sono perpetrate le percosse. I condannati hanno fatto ricorso in Appello. Se le dinamiche dei fatti fossero confermate, di nuovo, dopo i casi ufficialmente riconosciuti dalla corte di Strasburgo di tortura (reato completamente ratificato dall’Italia solo nel 2017) avvenuti nel 2001 nella scuola Diaz, nella caserma di Asti e in quella di Bolzaneto, gli italiani si troverebbero a fare i conti con l’ennesimo episodio di abuso di potere da parte di Forze dell’Ordine nei confronti di cittadini che, innocenti o meno, dovrebbero essere da queste custoditi, non maltrattati o picchiati a morte.
È chiaro che per tradurre un caso giudiziario così controverso (oltretutto ancora non totalmente concluso) in immagini filmiche serviva molto coraggio e, anche, una certa dose d’incoscienza. Pertanto stupisce che il regista Alessio Cremonini si sia a sua volta meravigliato quando s’è reso conto che in dieci anni nessuno aveva voluto narrare di Cucchi, prima che egli stesso, con Sulla mia pelle, si risolvesse a farlo.
Sulla mia pelle non è un bel film. Non è un bel film proprio nella misura in cui è, per fortuna, qualcosa di più che un bel film: è un buon film. Non è bello perché è un film privo di fronzoli, girato con schietta semplicità e fotografato con fredda cupezza. È un buon film invece per la disciplinata sincerità con cui è delineato il caso Cucchi. Una sincerità che fin da subito chiarisce la volontà di non santificare la figura di Cucchi, di non nasconderci, in modo spietatamente onesto, la sua condotta di reo. Vi è onestà persino nel negare allo spettatore la visione delle percosse (allora ancora non provate processualmente). Vediamo solo Cucchi entrare in una stanza con tre Carabinieri e lo vediamo ammaccato e claudicante poi; come a dire che l’essenziale non è tanto o soltanto ciò che hanno fatto i Carabinieri, ma anche quel che è accaduto a Stefano dopo.
Implacabilmente sincero, vero fino all’osso, anche Alessandro Borghi che coglie anche lui l’essenziale della «settimana di passione» di Stefano Cucchi e, con un lavoro encomiabile sul proprio corpo, lo traduce in un intenso e magistrale assolo interpretativo.
Assolo non casuale. La storia di Stefano in Sulla mia pelle è infatti quella di un giovane che scivola progressivamente nell’inferno d’una solitaria agonia. Man mano che dietro lui si serrano le sbarre del carcere, anche Stefano si chiude a riccio. Rifiuta di denunciare ufficialmente le percosse forse per paura di ritorsioni, forse per sfiducia nel sistema penale, forse per ostinato orgoglio. È ostile nei confronti di coloro che potrebbero aiutarlo e che vede solo come burocrati interessati a sgravarsi d’ogni responsabilità. Stefano è solo. Una solitudine rimarcata dai suoi dialoghi con gli altri detenuti che, in certi passaggi, appaiono come compagni immaginari piuttosto che reali. È come se, nello scivolare nella solitudine, Stefano chiamasse a raccolta i propri fantasmi interiori. Più la sofferenza di Stefano si fa intensa, più il suo calvario si acuisce, più lo vediamo essere sincero e aprirsi solo con personaggi invisibili che stanno al di là della parete e che noi non vediamo.
Questa solitudine è la forza ma anche il limite del film. È una forza perché facilita l’identificazione proiettiva dello spettatore. Tutti siamo soli con Stefano e patiamo con lui. Ciò che è accaduto sulla pelle di Stefano accade ora Sulla mia pelle di spettatore.
La visione di Stefano dolorante spinge così a una raccolta non tanto morale quanto cameratesca. Per paradosso, più esperiamo col film la solitudine di Stefano, più sentiamo la necessità di raccoglierci assieme ad altri e siamo chiamati a raccolta (come ci suggerisce l’esagramma 45 che qui ci ha ispirato) su quei due metri quadri di pelle sofferente. Quasi per assurdo, questo film che ci mostra la solitudine ha avuto un destino commerciale che ha suscitato dei moti di solidarietà radicali. Sulla mia pelle è stato uno dei primi film italiani ad essere direttamente distribuito digitalmente (la piattaforma è Netflix). Una strategia commerciale rivolta più a una visione individuale piuttosto che collettiva. Proprio per questo il film è stato il primo esempio di opera filmica boicottata dalle sale cinema. Tale boicottaggio ha spinto, inaspettatamente, molti giovani a raccogliersi dal vivo, a organizzare proiezioni pubbliche collettive del film in centri sociali e perfino sulla pubblica piazza. Perché Sulla mia pelle è un film che chiama ciascuno alla raccolta attorno ai due metri quadrati di pelle del corpo di Stefano e che spinge ognuno di noi a raccogliersi anche vicino ai due metri quadrati di pelle di qualcun altro; perché Sulla mia pelle è un film che visto soli fa ancora più paura.
Paradossalmente quel che è accaduto all’uscita del film mostra che il piano personale scelto dal regista se, da un lato, ha il vantaggio di facilitare l’identificazione proiettiva (quel che è accaduto a Stefano può accadere anche a noi) dall’altro lato mostra anche il limite di tale impostazione. Sulla mia pelle talvolta appare come una fuga dal piano politico. Oggi il personale è politico si dirà. Vero. Com’è vero che non aveva senso filmare il caso Cucchi come una specie di Sacco e Vanzetti o una specie di Nel nome del Padre contemporaneo. Tuttavia, se è giusto che lo sguardo di Cremonini ci metta nei panni di Stefano è altrettanto vero che questo sguardo nel film non ci ricorda, viceversa, che se il personale è politico anche il politico è personale e ci riguarda.
Qual è il fatto politico del caso Cucchi? Che la società e lo Stato non hanno alzato lo sguardo sui lividi di Stefano. Non solo alla famiglia è stato impedito di vedere Stefano quando era ancora in vita, ma quasi nessun altro ha voluto veramente né vedere, né sapere di più su quelle ecchimosi. Questa assenza di sguardo su Stefano il film ce la racconta verbalmente, ma non ce la mostra mai visivamente.
In particolare è significativa la scena dell’udienza di Stefano, dove s’alternano campi lunghi della giudice che ascolta a primi piani o piani medi di Stefano. In questo modo, però, sembra che sia lo Stato ad essere tenuto distante da Stefano, quando invece è vero il contrario. Stefano è stato tenuto a distanza dallo Stato e poiché lo Stato siamo anche noi, con quel magistrato lo sguardo su Stefano e su quei due metri quadri di pelle segnata, non l’abbiamo alzato nemmeno noi. Sarebbe bastato inserire a nero la vera voce di Stefano Cucchi (che il regista ci fa sentire alla fine del film) durante questa scena dell’udienza, per creare un cortocircuito significante; come a dire: Stefano Cucchi non l’ha visto (forse nemmeno voluto vedere) nessuno. Non è sufficiente, purtroppo, far si che nel finale ci si raccolga, moralmente, tutti insieme alla famiglia attorno al corpo di Stefano per guardarlo un’ultima volta.
di Amedeo Liberti
1 Nel 2016 l’attuale Ministro degli Interni Matteo Salvini dichiarava: “Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. E’ un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi” Cfr.: http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2016/01/05/caso-cucchi-salvini-sorella-dovrebbe-vergognare-schifo_42NCMWy8nekzTbc1VZ1DTK.html
2 Sono parole contenute in una lettera inviata alla famiglia Cucchi in cui, tra l’altro, si afferma che è la famiglia che dovrebbe scusarsi per aver avuto un figlio spacciatore come Stefano Cucchi. https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/10/20/stefano-cucchi-ilaria-denuncia-insulti-minacce-e-auguri-di-morte-da-profili-di-simpatizzanti-della-lega/4707913/
3 Strenuo difensore dell’innocenza degli agenti è stato l’On. Giovanardi che ha sostenuto che Cucchi sarebbe morto perché, a causa del consumo di droga e della denutrizione, il suo stato fisico era già compromesso. Le vaste ecchimosi rinvenute sul corpo e sul volto di Cucchi sarebbero invece dovute alla malnutrizione. Cfr.: https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/11/12/news/laltro-cucchi-78341/
4 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Caso-Cucchi-pm-vicenda-piena-di-falsi-inquinamento-prove-Atto-modificato-per-ordine-alto-06ad0e82-21bf-4fa1-82ce-1194a677e47e.html