L’ottenebramento della luce
Il fuoco va sotto la terra: è l’immagine del crepuscolo, quella in cui sorgono «impercettibili velature d’ombra, che sembrano polvere depositata da epoche lontanissime». Da una di queste epoche proviene il testo dell’I Ching, che per il nostro nuovo numero ci regala il simbolo 36 della sua filza oracolare, dal titolo: L’ottenebramento della luce.
Le parole d’apertura, invece, provengono dal Libro d’ombra (1933) di Jun’ichirō Tanizaki che, nel periodo oscuro dell’invasione della Manciuria e dell’ascesa hitleriana che porterà poi all’asse Berlino-Tokyo, scrive un trattatello sulla differenza Oriente-Occidente in materia di estetica umbratile, per la quale gli occhio-mandorlati avrebbero un… occhio di riguardo. A partire da quel noto verso di Matsuo Bashō: «Il Fuji non si vede, è suggestivo», preso a inno dell’arte orientale, Tanizaki fa planare l’assunto sulla quotidianità. Se la casa occidentale è contrappunta di vetri trasparenti, dalle sue parti è la carta di riso ad ammantare di fascino gli interni: è così un piacere andare al cesso in penombra e udire il ronzio delle zanzare. Risalendo la china, il brillio di diamanti e rubini è troppo impudente, meglio l’opacità della giada cinese, del cristallo di Koshu o dell’atra pellicola della lacca, legata alla cifra stilistica del termine nare che in giapponese sta per “patina”. «In generale – soggiunge Tanizaki –, noi Giapponesi non ci sentiamo a nostro agio di fronte a cose troppo lucenti». L’oscurità della salsa di soia, o delle cosiddette “zuppe torbide” come il miso, è giudicata meno sfacciata della glauca panna montata da viennoiserie. A proposito di bianco, persino i denti delle donne venivano tinti di nero nell’usanza dell’ohaguro, tutto per pure ragioni cosmetiche. E ancora, se la perfezione del teatro Nō viene al giorno d’oggi messa in discussione, Tanizaki spiega che non è per colpa degli attori, ma delle luci elettriche dei teatri che sorprendono ciò cui le candele prima alludevano soltanto: ad esempio il fatto che i ruoli femminili sono impersonati da attori maschi, oppure che il palcoscenico è saettato dai misteriosi kuroko, i macchinisti teatrali travestiti di nero, autentici ninja che si muovono di nascosto per cambiare i costumi e i fondali a rappresentazione in corso.
È meno singolare, forse, constatare a questo punto che l’Oriente ha dato i natali al teatro d’ombra. Comparso in Cina nei primi secoli avanti l’era volgare e legato, come sempre, a rituali connessi al tempio, nel teatro d’ombra i fantocci hanno la particolarità di un meccanismo da marionetta governato però dal basso come un burattino, per permettere ai sostegni di non interferire col gioco di luci. Dal gusto cinese germineranno svariate parentele in tutta l’Asia, sino a Taiwan. Il teatro nang yai siamese, che si serve di una grossa pelle di bufalo distesa per creare un pupazzo a mo’ di stendardo, gioca sulla sottile ambivalenza del termine nang nei significati di “pelle” e “nascosto” per creare il paradosso di qualcosa che pur essendo esposto in piena luce, come l’epidermide, è capace di velare e nascondersi a sua volta nel cono d’ombra. Lo stesso lavoro viene svolto in India, nel tholu bommalata dell’Andhra Pradesh, nel togalu gombeyaata del Karnataka e nel charma bahuli natya del Maharastra, forme probabilmente coeve a quelle cinesi, che presteranno poi agli altri shadow plays asiatici i temi tratti dai poemi epici indiani, che per raffinatezza raggiungeranno la forma forse più intrigante nel teatro balinese e giavanese, il famoso wayang kulit.
Nella serica via che porterà il teatro d’ombra fino all’attenzione degli europei, vi furono tappe anche in Medioriente, così nell’Impero ottomano dove diverranno famosi i pupi di Karagöz e Hacivat, o nella goliardica letteratura del poeta Ibn Dāniyāl, per la cui conoscenza ringrazio il mio omonimo dalla tripla “effe” di cui si può trovare un bell’articolo online. Se nella licenziosa stampa di Utamaro in cui la geisha dice: «C’è troppa luce, mi vergogno», si delega all’immagine di mostrare la scabrosità, nel teatro di Ibn Dāniyāl, al contrario, tutto quello che l’ombra cela, la parola svergogna, fino alle auliche memorie di ‘Omayr Al-Jallād, detto “Il masturbatore”, il quale recita: «Sono l’uomo che ha messo incinta la propria mano»… cose da far impallidire Ifigonia!
Da simili spunti, il saggista Hisayasu Nakagawa, in un capitolo dal titolo: “Il tutto nudo e il nudo nascosto”, nota che da un Oriente capace di stimolare l’eccitazione in modo tanto più allusivo, proviene di fatto anche una diversa proposta catartica. Questo ci conduce fino all’esagramma di sviluppo, cioè il simbolo che l’I Ching propone per concludere il senso del suo responso oracolare. Nel nostro caso si tratta dell’esagramma n. 11, La pace.
In un mito eziologico che racconta la nascita delle ombre cinesi, gli eunuchi dell’imperatore Wudi (140-185 d.C.), allora triste per la morte della consorte Li Furen, costruirono una statuetta in legno con le fattezze di lei e la proiettarono sul muro tanto bene che il sovrano, pensandola rediviva, si consolò trovando la pace. In questa storia, oltre al legame fra ombre e spiriti che fa venire in mente i racconti di fantasmi di Lafcadio Hearn, con cui avevamo chiuso lo scorso articolo, da poco riediti nella raccolta Ombre giapponesi (Shadowings), e di qui alla trama trasognante della Tomba per le lucciole di Miyazaki, cogliamo buoni spunti per il tema della pacificazione, che ritorna anche nel segno della metafora delle lucciole nel racconto Il bagliore della lucciola dello scrittore indiano Prem Cand, oggetto dell’ultima pubblicazione della Tigre di Carta per la collana di letteratura.
Il regno delle ombre, spesso descritto come regno della pace eterna, è infine “adombrato” nel mito che da solo potrebbe riassumere tutto il tema del presente numero. È la storia di Amaterasu, la dea nipponica del Sole, che offesa dagli scherzi e dispetti del fratello Susanoo, si ritira in una caverna sottraendo all’umanità la propria luce. Per risolvere il guaio, la dea Ame-no-Uzume, dopo aver appeso uno specchio all’ingresso della caverna per permettere ad Amaterasu di vedere fuori, iniziò una danza sensuale, antesignana del bugaku, per attrarla allo scoperto, cosa che riuscì con successo.
Ora, le coppie Wudi/Li Furen e Susanoo/Amaterasu ci fanno ricordare che nel sottotesto dell’I Ching sul tema dell’Ottenebramento della luce i due poli implicati sono pur sempre quelli di Yin e Yang, femminile e maschile, ombra e luce, il che ci aiuta a riprendere una questione trattata in un articolo da noi scritto durante la collaborazione con la rivista parigina Opium Philosophie incentrata sul tema della Nuit. Là si diceva che, prendendo in prestito i termini della logica formale, “notte” e “giorno” non sono contrari (valori che non possono essere equipresenti, ma nulla vieta che siano entrambi assenti), bensì contraddittori (la negazione di uno implica cioè l’affermazione dell’altro). Così come “se non è notte è per forza giorno”, più in generale la suddivisione del cosmo in poli yin-yang costringe ad assegnare ciascun ente all’una o all’altra delle due forze, mentre al contrario episodi extra-ordinari come quello della secessione della dea del Sole Amaterasu rischiano di infrangere questa co-implicazione, facendo regredire il tutto allo stadio di quella tenebra indistinta che contrassegnava il caos primordiale. Come nella distinzione esiodea fra Nύξ (Notte) ed Ἔρεβος (Tenebra), anche nell’Inno del Rg Veda dedicato alla Notte (rātri) si dice controintuitivamente ch’ella «con la sua luce caccia le tenebre» (X, 125).
Ebbene, il nostro tema caro all’estetica orientale aggiudica all’ombra una funzione analoga. «Bisogna nascondere la propria luce – dice l’I Ching –, per poter persistere nella propria volontà nonostante le difficoltà dell’ambiente». Ombra, dunque, non come risultato della predominanza delle tenebre, ma effetto del ritrarsi della luce in preparazione alla vittoria finale, simboleggiata pertanto da episodi di apparente e totale sovvertimento in cui sia luce che buio, negandosi insieme, interrompono il gioco di contraddittorietà. Un altro di questi simboli è proprio il teatro d’ombre che, con la sua messinscena double face, la quale nel Wayang kulit indonesiano poteva essere addirittura osservata da due punti di vista opposti, così come nel meccanismo che Kuniyoshi ha ben raffigurato nel suo ciclo sulle ombre cinesi dividendo la xilografia in due per mostrare recto e verso della scena, mostra stralci di vita ordinaria attraverso una tecnica giocata sul paradosso, e perciò stra-ordinaria. L’archetipo di questa dinamica è senza dubbio l’eclissi, per la quale, in attesa della rubrica di Fisica che incontrerete fra poche pagine, vi lasciamo a un mito ricco di fantasia con cui la cultura vedica ne ha spiegato a suo modo il fenomeno. Il demone Rāhu, invidioso della vittoria degli dèi sui demoni all’atto di contendersi la bevanda dell’immortalità (amrita), si traveste per partecipare al banchetto durante il quale le divinità l’avrebbero sorbita. Grazie alla loro luce, Surya (il Sole) e Chandra (la Luna) si accorgono dell’inganno, chiamano Vishnu che col suo disco mozza il capo di Rāhu, il quale però aveva già cominciato a bere il nettare. Morale, il corpo di Rāhu perisce, ma la testa resta immortale. Per vendetta, Rāhu insegue senza sosta Surya e Chandra nel cielo e, ogni tanto, riesce a raggiungerli e divorarli. Privo di corpo, però, non appena li deglutisce li risputa subito fuori… All that you eat, and everyone you meet (Pink Floyd, Eclipse).