Figure di grandi medici ancora nell’ombra
«L’eroe vero è sempre eroe per sbaglio, il suo sogno sarebbe di essere un onesto vigliacco come tutti», diceva Umberto Eco. Dire che tutti i medici siano eroi è offensivo per la memoria di quelli che lo sono e lo sono stati davvero: recuperiamone qualcuno dall’oscuro oblio in cui la memoria collettiva li ha relegati e ridimensioniamo la fama di qualcun altro.
Gran parte di noi studenti è dell’idea che la vocazione per la medicina sia un mellifluo falso valore, ormai desueto; se mai, anzi, tra colleghi ci accusiamo reciprocamente di averla come forma di scherno, con già il sorriso stampato in volto, in attesa di una reazione che puntualmente sarà tra il divertito e l’oltraggiato. Nonostante la corrente disaffezione dell’opinione generale nei confronti della scienza in generale, sappiamo che l’attrattiva del nostro futuro mestiere non è stata scalfita: lo testimonia la costante orda di aspiranti medici che ogni anno tenta il test d’ingresso. La posizione del medico o del guaritore è vista da sempre e in ogni società come prestigiosa, per via dell’utilità che riveste per tutti. Forse anche per il contributo del mondo televisivo, l’attenzione sembra sempre concentrarsi sugli aspetti positivi del mestiere: il succitato prestigio, la paga, la credenza che sia estraneo alla precarietà, per quanto questa versione sia decisamente romanzata. Ho conosciuto innumerevoli medici, studenti di medicina e persone che lavorano in tutt’altro ambito che mi confessano che avrebbero voluto essere medici e che ci hanno provato invano, anche a lungo. Sicuramente il campione dei miei conoscenti sarà parziale e fazioso, ma non ho mai avuto l’impressione che sia una carriera che solo pochissimi eletti vogliano intraprendere e per la quale ci voglia una sorta di chiamata.
Ciò non toglie che ci siano stati e che ci siano tuttora medici che emergono proprio perché vivono la medicina come una missione; se sono anche preparati in maniera eccellente, con la predisposizione giusta e i valori in regola, possono fare davvero la differenza per i propri pazienti. La vocazione per la medicina non è quindi inesistente, è solo estremamente rara e né necessaria né sufficiente a svolgere al meglio la professione. La storia ha però tramandato cronache di uomini e donne che hanno cambiato il volto della medicina ma che per farlo hanno dovuto superare ostacoli sociali e storici imponenti, armandosi – ebbene sì – anche di vocazione. Probabilmente non conosceremo mai le storie della maggior parte di loro, perché ingiustamente finite nel dimenticatoio. Questi di cui qui riassumo le biografie sono tra i più famosi anche se, anch’essi, sono ingiustamente ignoti ai più.
Margaret Ann Bulkley, nata nel 1795 in Irlanda, non sarebbe mai potuta diventare medico proprio perché donna. E in effetti non lo diventò mai: James Miranda Barry, il suo alter ego maschile invece sì. Si dice che il dottor Barry si sia materializzato per necessità: la famiglia versava in ristrettezze economiche dopo la morte del pater familias e il cambio di genere permise alla primogenita di sostenere la famiglia come mai avrebbe potuto da donna. Sul suo sesso si potrebbe scrivere un giallo: la comunità LGBTQI ritiene sia da considerarsi transgender, anziché donna travestita da uomo, anche sulla base della disposizione (non seguita) che diede di non essere spogliato post mortem, quasi volesse affermarsi nella memoria collettiva come uomo. Tuttora la questione rimane aperta: forse, come dicono i più, è stata una donna che per necessità ha vissuto da uomo; forse è stato un uomo nato con un corpo che non sentiva suo. Quel che è certo, però, è che sarebbe irrispettoso ridurre la narrazione della sua vita a questa diatriba. Descritto dai contemporanei come un uomo caparbio e astioso, ebbe un rapporto difficoltoso con varie figure di autorità, litigando anche con Florence Nightingale, che lo descrisse come un gran villano; fu anche punito più volte per insubordinazione. Si dice che amasse litigare per le ragioni più svariate, a partire dai commenti sgradevoli sulla sua voce o sul suo aspetto. Come chirurgo militare, d’altra parte, ricevette solo complimenti. Fu professionale e gentile con i suoi pazienti. Attuò dei piccoli interventi di sanità pubblica, inducendo i soldati a variare il tipo di dieta che seguivano e lottando affinché i poveri avessero condizioni di vita adeguate. Ciò per cui divenne famoso oltre ogni misura, però, fu l’esecuzione del primissimo parto cesareo in Africa (con successo).
Altri due medici che meriterebbero maggiore notorietà sono i polacchi Eugene Lazowski e Stanisław Matulewicz, vissuti durante il Terzo Reich. Il secondo capì che iniettando in una persona un vaccino antitifico costituito da batteri uccisi si poteva renderla positiva al test per la malattia senza tuttavia indurre in lei i sintomi. A quanto pare il tifo, molto contagioso, terrorizzava i nazisti, notoriamente fissati con l’igiene e ipocondriaci. I due medici decisero così di inoculare il patogeno in diversi pazienti di una cittadina. Se “l’epidemia” avesse investito solo gli ebrei, questi sarebbero stati fucilati. Venne così coinvolta anche la popolazione non ebraica: ai tedeschi così non restava che mettere la cittadina in quarantena, senza nemmeno mandare soldati di pattuglia, temendo il contagio. Questo stratagemma salvò circa 8000 ebrei dai campi di concentramento: fosse stato smascherato, le conseguenze per i medici sarebbero state amare.
Al periodo nazista è legato il nome di un altro medico meno prode ma ben più famoso, il viennese Hans Asperger. Sebbene non sia stato particolarmente celebre in vita, negli anni Ottanta i suoi lavori vennero tradotti in lingua inglese e portati alla ribalta dal boom di studi sull’autismo che caratterizzò quel periodo. La sua fama oggi è indissolubilmente legata alla sindrome a cui dà il nome: “gli Asperger” sono autistici ad alto funzionamento (senza ritardo nello sviluppo cognitivo o del linguaggio) che presentano però compromissione delle interazioni sociali, schemi di comportamento stereotipati, interessi spesso ristretti. Possono essere molto belli o comunque nella norma, senza alterazioni fisiche che li facciano immediatamente riconoscere, come avviene invece per altre condizioni, come la sindrome di Down. Purtroppo, però, Asperger aveva interesse a comprendere quali autistici potessero rientrare in tale quadro clinico per poterli distinguere dai disabili di altra natura – fisici o mentali – che egli, da pediatra nazista, destinava invece alla clinica Am Spiegelgrund, dove venivano direttamente eliminati o lasciati morire senza cibo o trattamenti adeguati. I bambini Asperger, belli e intelligenti (anche se “strani”) potevano rientrare nell’ideale ariano e per questo potevano essere salvati. Da qualche anno, si è scelto di non dare più alla sindrome il suo nome ma, dato che non è stata ribattezzata in modo specifico, la denominazione originale rimane in voga.
L’ultimo degli eroi sul menù di oggi è il dottor Ignác Semmelweis. Ungherese, è famoso per il proprio contributo nella prevenzione della febbre puerperale. Nell’ospedale dove lavorava, le partorienti erano suddivise su due reparti, uno gestito da medici, l’altro da ostetriche. Ciò che lo tormentava era che i dati mostrassero un tasso di morte dieci volte più grande nel reparto medico rispetto a quello ostetrico, senza che nessuno ne comprendesse la ragione. Un caso fortuito, la morte di un professore che lavorava in quel reparto, fu essenziale: l’autopsia che svolse sul medico rivelava che la sua malattia, dal punto di vista patologico, non era diversa da quella delle donne. Inoltre, si ricordò che tale medico era rimasto ferito prima di ammalarsi proprio durante un’autopsia svolta su una gestante deceduta. Semmelweis intuì che il vettore della patologia potessero essere i medici che passavano dalla sala autoptica alla visita delle gestanti in reparto senza lavarsi le mani nel mentre. Diede disposizione di far cambiare le lenzuola del reparto e costrinse i medici a lavarsi le mani con una soluzione di ipoclorito di calcio prima di accedere al reparto. I risultati furono immediati e sbalorditivi. Purtroppo, la comunità medica osteggiò fortemente le sue scoperte (voleva forse insinuare che i medici potessero essere untori?), precipitandolo nello squilibrio mentale. Nel 1865 venne ricoverato in manicomio, dove morì poco più tardi per le percosse subite. Le scoperte scientifiche successive gli diedero ragione, ma lui, come altri scienziati con una storia simile, non lo verrà mai a sapere.