Diversi modi di reagire a condizioni di totale oscurità
Avete frequentato la Corte del Miracoli nel periodo invernale? Magari vi ricorderà qualcosa lo spettacolo Uomini e pietre e se avete avuto la possibilità di vederlo non potete non ricordare i più volte citati troglobi!
In realtà non si tratta di una specie ben precisa: il termine “troglobio” si usa per definire tutte quelle specie che si sono adattate ad ambienti cavernicoli o sotterranei che presentano caratteristiche molto peculiari, come l’assenza di luce.
Dal punto di vista ecologico esistono differenziazioni delle specie in base all’habitat che popolano. I troglobi sono considerati specie di ipogeo, quindi di ambienti sotterranei, mentre i troglofili si sono adattati sia all’ambiente ipogeo che epigeo, cioè sia di superficie che sotterraneo. In generale i troglobi sono quella classe che comprende tutti gli animali terrestri, mentre se l’habitat è acquatico prendono il nome di stiglobi.
A differenza di ciò che si potrebbe pensare, del gruppo dei troglobi fanno parte specie altamente specializzate che hanno sviluppato notevoli adattamenti sia morfologici che fisiologici che consentono loro di vivere nelle ostili condizioni in cui si trovano. Alcuni cambiamenti morfologici che si possono osservare sono la depigmentazione e l’anoftalmia, oppure la crescita di antenne e appendici locomotorie, ricchissime di chemiorecettori e tattorecettori che permettono i movimenti e la percezione dell’ambiente. Dal punto di vista fisiologico si osserva in moltissimi casi un rallentamento del metabolismo basale e una riduzione del consumo di energia, attuata mediante la limitazione dei movimenti e delle interazioni aggressive e migliorando la capacità di ricerca di cibo e il suo uso tramite l’ectotermia.
Per tutte queste ragioni i troglobi in generale saranno animali che possono resistere a digiuno per lungo tempo, vivere più a lungo, riprodursi quindi più tardi e fare poche ma grosse uova.
Queste specie sono principalmente invertebrate (insetti, crostacei, aracnidi, molluschi), ma si può contare anche qualche vertebrato.
In Italia vivono diverse specie di troglobi, tra molluschi, crostacei, aracnidi, miriapodi, collemboli, dipluri, ditteri e coleotteri; i vertebrati come anfibi e mammiferi invece sono troglofili che vivono nelle grotte ma escono nella fase notturna o di clima favorevole, oppure si stabiliscono nelle grotte durante il periodo di letargo.
C’è però in Italia un troglobio anfibio: si tratta del Proteus anguinus, presente nelle zone del Carso tra il Veneto e il Friuli. È l’unico vertebrato troglobio del continente europeo.
Questa specie si è perfettamente adattata all’assenza di luce e all’habitat sotterraneo, è cieco e anoftalmico, ma ha sviluppato altri organi di senso legati all’olfatto e all’udito. La sua colorazione è rosastra-giallastra perché è totalmente depigmentato e mantiene lo stadio larvale per tutta la durata della sua vita, anche da adulto, esattamente come l’Axolotl.
I suoi organi di senso sono più sviluppati grazie a vari recettori come ad esempio fotorecettori, chemiorecettori e meccanorecettori.
Le cellule fotorecettive, che mantengono i pigmenti della vista, sono contenute nella ghiandola pineale. La pelle del proteo risulta sensibile alla luce, a causa del pigmento melanopsina presente all’interno dei melanofori.
Grazie ai chemiorecettori delle papille gustative, poste vicino alle branchie, questa specie è in grado di identificare concentrazioni anche molto basse di sostanze organiche contenute in acqua; tramite l’olfatto invece percepisce la presenza di prede in maniera molto efficiente.
L’orecchio interno è molto specializzato e differenziato, così che il proteo può percepire le onde sonore in acqua e le vibrazioni del terreno. Gli esperimenti indicano che la miglior sensibilità acustica del proteo è tra 10 Hz e 15 kHz. Inoltre il proteo insieme ad altri vertebrati è in grado di percepire campi elettrici seppur deboli. Altri esperimenti fanno pensare che possa essere in grado anche di usare il campo magnetico come metodo di orientamento.
I chirotteri si sono adattati agli ambienti bui in situazioni di letargo o, in alcune specie, per la caccia, e il loro punto di forza per orientarsi nell’oscurità non è la vista. Infatti, sebbene abbiano un’ottima visione notturna in bianco e nero, il loro campo visivo è molto ridotto, cioè sono miopi e vedono le prede esclusivamente a distanze molto ridotte. Questo fatto è stato appurato nel 1793 da Spallanzani, che fece degli esperimenti sui pipistrelli coprendo loro gli occhi e accorgendosi che movimenti e localizzazioni non venivano compromessi. In seguito a un maggior sviluppo tecnologico e allo studio degli ultrasuoni, nel 1938 Griffin dimostrò che i pipistrelli si servono di fasci di suoni ad alta frequenza e in base alla loro riflessione su oggetti e prede sono in grado di orientarsi al buio e con scarsa visuale. L’uso del biosonar e della visione notturna spiega come i pipistrelli siano in grado di orientarsi perfettamente al buio.
I chirotteri producono gli ultrasuoni per il loro orientamento attraverso la laringe e il suono fuoriesce dalla cavità nasale o dalla bocca. I suoni così prodotti hanno un intervallo di frequenza che va da 14 kHz a 100 kHz, molto al di sotto della percezione umana. Alcune specie adattano il proprio intervallo di frequenza di ultrasuoni in base al loro habitat e alle loro prede.
Durante il suo volo notturno, un pipistrello, dopo aver localizzato la preda, aumenta il numero di impulsi emessi. Mentre si avvicina al suo obiettivo la durata dei suoni inizia a decrescere in modo graduale. Per stimare la distanza l’animale misura il tempo trascorso tra l’emissione del suono e il ritorno degli echi rimandati dall’ambiente. Il biosonar agisce su diversi ricevitori, quindi non ha un raggio troppo limitato, poiché gli animali ecolocalizzatori hanno i canali uditivi in posizione leggermente diverse. In questo modo gli echi arrivano con tempi e intensità differenti e permettono al pipistrello di triangolare la posizione dell’oggetto o della preda e la sua grandezza.
Molti altri animali hanno invece capacità visive più sviluppate, ad esempio grazie alla presenza del Tapetum lucidum. Si tratta di uno strato altamente riflettente posto all’interno della retina di molti vertebrati o dietro di essa. Questa patina riflette la luce verso la retina e quindi aumenta la visibilità nei casi di penombra o di buio.
Tale struttura si riscontra soprattutto negli animali notturni, come ad esempio i gatti, ed è presente inoltre in specie di ragni, lemuri, gufi e canidi. Esso sembra un catarifrangente formato da sfere che riflette la luce dalla direzione da cui proviene; in questo modo viene a crearsi un’interferenza costruttiva con la luce incidente, che porta di conseguenza all’aumento della quantità totale di luce che attraversa la retina. Nel gatto questo meccanismo permette di avere una visione sei volte superiore a quella umana in condizioni di buio.
Il Tapetum lucidum è fondamentale nelle specie di carnivori notturni, che localizzano le prede nell’oscurità senza essere notati. E ancora potrei elencare molti altri esempi, come le farfalle, che hanno una visione totalmente diversa o che riescono addirittura, alla stregua moltissimi altri insetti, a vedere i colori anche al buio. Dunque luce e ombre sono dei valori così assoluti o forse ancora una volta sono solo elementi soggettivi?
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