Borges fra ombre e cecità
L’uomo si muove in una realtà fatta di chiaroscuri. Alcuni parlerebbero di un’ombra che oscura la luce di una verità nascosta, una realtà ancor più reale. Tuttavia, non credo che esista un’unica vera risposta, così come non credo esista un’entità che ha creato il mondo e che si nasconde dietro quest’oscurità, pronta a far luce una volta passati oltre.
Credo piuttosto che l’ombra sia una necessità, perché le profondità della fisica, della natura, sono un tempio ipotetico da velare col dubbio che ci è proprio in quanto specie. Il rapporto ombra-luce permea quindi il nostro mondo e la poesia se ne è fatta in parte interprete: più volte in passato ho citato il caso del vate cieco che vive nell’ombra per vedere una luce ulteriore, una luce divina e interiore che si sprigiona solo in un deficit della vista, intesa invece come un senso sviante, che induce in distrazioni mondane. Alcuni poeti e indovini venivano accecati di proposito, per farli parlare col divino. Nella contemporaneità uno dei più grandi scrittori ciechi – anche se sarebbe meglio definirlo, per rendergli giustizia, un grande lettore – fu Jorge Luis Borges.
Nell’ultima parte della sua vita Borges cominciò a perdere via via la vista. Di fronte a quest’evento privilegiò i testi poetici rispetto a quelli in prosa, perché più facili da portare a memoria grazie al metro. Tra queste opere poetiche il 24 agosto del 1969, data del suo settantesimo compleanno, venne pubblicato Elogio dell’ombra, edito in Italia da Adelphi nel 2017. Ora, il titolo già contiene in sé un indirizzo d’opera. L’ombra, come scrisse lo stesso Borges, era un riferimento sia alla morte che alla sua cecità.
Tuttavia, come ogni testo di Borges, abbiamo diversi livelli di lettura: da una parte è evidente l’aria di fine, di morte come punto d’arrivo e verità ultima; dall’altra vi è un riferimento chiaro alla concezione borgesiana per cui ogni azione crea un tessuto, un labirinto, a cui è impossibile sottrarsi. Tant’è che ci sono numerosi suoi testi dedicati al tema del labirinto. Ma andando ancor più a fondo si intravede un senso ulteriore: l’ombra come cecità nasconde in sé un ritmo esistenziale ben preciso, una luce che è la coscienza di appartenere a una specie. In un suo racconto Borges ha esemplificato come l’azione di un uomo sia l’azione di tutti gli uomini: non nella misura in cui un singolo rappresenta ogni uomo, ma nella misura in cui far parte del genere umano significa entrare in una rete di rapporti che non permette fuga alcuna dal sé e dalle proprie responsabilità verso l’altro. È una concezione che ricorda da vicino l’esistenzialismo di Sartre. Però qui c’è la voce del poeta.
Non ci sarà una porta mai. Sei dentro
e la fortezza è tutto l’universo
e non ha lato dritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperare che il rigido percorso
che inesorabilmente si biforca,
abbia fine. […]
Non puoi sperare nulla.
Neanche la fiera del nero crepuscolo.
Tutti condividiamo un percorso ben preciso attraverso ogni nostra piccola decisione. La casualità non esiste secondo Borges e siamo intrappolati in questo Labirinto-Universo, imprigionati in una fortezza, senza la speranza che questo nostro percorso abbia una fine (o un fine). La speranza non è possibile. Non è possibile nemmeno la fiera, ossia il Minotauro, colui che dev’essere ucciso per liberarci dall’ombra. È come se nella sua cecità Borges avesse intuito, intravisto, l’insensatezza di un mondo che è fatto prettamente di rapporti, di relazione. Del resto Borges, da agnostico, non credeva in una resurrezione, anzi. In questo desiderio di morte, che viene vista nel modo più totalizzante, una morte anche dell’anima, Borges rimane adeso alla lettura, alla passione per l’esperienza dell’altro.
L’opera che intraprenderò è illimitata
e mi accompagnerà fino alla fine,
non meno misteriosa dell’universo
e di me, l’apprendista.
In questa poesia intitolata Il Lettore, Borges si dichiara non uno scrittore, ma un apprendista. Egli si vede protagonista di un rapporto con l’altro, con la complessità dell’umanità. Tant’è che le sue opere, in generale, sono opere di rilettura, di riscrittura, di osservazione magistrale dello scorrere dell’esistenza. Inoltre, Borges considera la lettura un’arte più raffinata della scrittura, come ben denota Scarano4. Questo non perché Borges consideri la scrittura una cosa da poco, ma perché coglie alla perfezione il valore dell’interdipendenza fra individui necessaria al perpetuarsi dell’esistenza, senza la quale non esiste alcun tipo di realtà possibile.
La vecchiaia (è questo il nome che le danno)
può essere la nostra età felice.
L’animale è morto, o quasi è morto.
Restano l’uomo e la sua anima
vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non sono tenebra.
Così l’esordio della poesia che chiude l’Elogio dell’ombra, in cui emerge come nell’ombra il poeta riesce a cogliere una luce ulteriore, una luminosità umana.
È come se Borges, nella parte finale della sua vita, avesse colto nell’ombra la possibilità di riscattarsi rispetto alla realtà e alle sue conseguenze. Più volte ho letto testi poetici, dall’antichità fino ad oggi, in cui emerge chiaro un filo conduttore, che è la relazione tra gli autori e il mondo, sia letterario, che quotidiano. In questo continuo gioco di riflessi (e riflessioni), assume una certa logica l’idea per cui noi siamo prima di tutto relazione. Nel caso di Borges quest’ultima si esplica anche e soprattutto nella lettura. Infatti un altro elemento ricorrente della sua poetica è quello della biblioteca. Esso emerge ne Il guardiano dei libri sotto forma di un uomo che custodisce i libri in una torre, per proteggerli dall’invasione dei Mongoli in Cina. Un sapere che sta al di sopra, al di là dello spazio e del tempo, e che li guida attraverso le tenebre della contingenza. Questa doppia visione, il labirinto e la biblioteca, si connettono e influenzano a vicenda, perché da una parte il labirinto, come sopra accennato, è senza un centro, senza un fine, è un eterno riassestarsi di complicazioni, strade, un infinito perdersi; dall’altra la biblioteca è un dipanamento, anch’esso infinito, in cui si ha la possibilità, tramite la lettura, di comprendere, accettare e fare propria non tanto l’insensatezza, quanto la responsabilità di far parte dell’umanità.
In questo sta anche il rapporto ombra-luce: le poderose e scure mura del labirinto diventano lucenti se corredate da biblioteche altrettanto infinite, usate non come mappa, ma come guida d’accettazione di una realtà sfinita. In questo l’osservazione di Borges si fa poetica: raccoglie il verso come viatico ritmico e primitivo, che volge verso un senso insensato, un senso ulteriore, oltre la capacità dei sensi stessi. Una relazione resa palpabile dalla cecità del poeta, e che spezza il ritmo del racconto, in forza del verso come modalità espositiva perfetta per fare luce all’interno dell’ombra.