Uno sguardo sul lato oscuro della mente
L’arte europea ci ha regalato molti ritratti intensi, ricchi di una forte introspezione psicologica; ma pochi riescono a colpire lo spettatore nell’anima come i ritratti di alienati di Théodore Géricault, eseguiti tra il 1820 e il 1824 circa.
Il pittore nasce il 26 settembre 1791 a Rouen, unico figlio dell’avvocato Georges-Nicolas Géricault e di Louise-Jeanne-Marie Caruel. Lascia la città natale nel 1796 per via del trasferimento della famiglia a Parigi; nel 1806 entra al Lycée Impérial, dove però è poco attratto dallo studio e si interessa al disegno e all’equitazione, passioni che non lo abbandoneranno più fino alla morte causata, nel 1824, da complicazioni a seguito di una caduta da cavallo.
Il 1808 è un momento di svolta per Géricault: in quell’anno muore sua madre ed egli inizia a frequentare l’atelier di Carle Vernet. Lo lascerà due anni dopo, nel 1810, per entrare in quello di Pierre-Narcisse Guérin. Partecipa per la prima volta al Salon nel 1812; vi ottiene un buon successo e si candida come giovane promessa del panorama artistico francese, speranza che intende confermare in occasione del 1819, dove presenta il grande quadro La zattera della Medusa, la cui gestazione e preparazione era iniziata a partire dall’anno precedente. Purtroppo il dipinto non ottiene il successo sperato; la salute di Géricault, provato dalla mole di lavoro che l’opera aveva richiesto e dall’ostilità verso la stessa, comincia a peggiorare.
In questo periodo costellato da crisi nervose, manie di persecuzione e lunghi periodi passati a letto l’artista conosce, grazie all’amico Auguste Brunet, un giovane laureando in medicina che stava preparando una tesi di laurea sulla follia e le sue cause: il ventiquattrenne Étienne-Jean Georget. Secondo il giovane medico il malessere del pittore era dovuto alla vita dissoluta che fanno gli artisti e la cura migliore era l’isolamento; ma l’ospedale della Salpêtrière, dove egli prestava servizio, era per sole donne, mentre quello di Bicêtre sarebbe stato «troppo squallido per lo spirito di Géricault»[1]. Il posto giusto fu individuato nella clinica fondata dal dottor Esquirol in rue Buffon, dove in un vasto giardino era ospitata una dimora in cui il pittore poteva accogliere amici e allievi.
Grazie all’affinità tra Géricault e il medico videro la luce cinque dei più straordinari ritratti psicologici di sempre: il ciclo degli alienati.
Non sappiamo a cosa servissero esattamente questi dipinti: potevano essere destinati a illustrare le opere di Georget, oppure venivano mostrati dal medico nel corso delle sue lezioni o magari erano solo studi nati dalla frequentazione tra i due uomini. In origine erano dieci, ma alla morte di Georget i quadri furono divisi da due suoi allievi, Maréchal e Lachèze; la metà appartenente al primo allievo prese la via dell’Inghilterra e se ne persero le tracce; i cinque rimanenti, quelli di Lachèze, sono quelli che vediamo ancora oggi e che approfondiscono la fisionomia alterata di altrettanti monomaniaci, ovvero: l’alienato con la mania del rapimento di bambini, quello con la mania del comando militare, l’anziana con la mania del gioco, il cleptomane e l’alienata con la monomania dell’invidia detta La iena della Salpêtrière.
Il ritratto dell’Alienato con monomania del rapimento di bambini è conservato presso il Museum of Fine Arts di Springfield e raffigura un uomo di mezza età, vestito con una giacca e un cappello scuro intento a guardare, con sguardo profondo ma assente e con una smorfia triste sul volto, un punto fuori dalla tela; l’Alienato con monomania del comando militare, appartenente alle collezioni del Museum Oskar Reinhart am Stadtgarten di Winterthur, vede ritratto un uomo anziano, con un velo di barba incolta, la bocca serrata e il cipiglio fiero vestito con abiti frusti, un berretto militare e una semplice medaglia portata al collo come fosse un’alta onorificenza, andando a creare un contrasto tra l’interiorità del personaggio e la sua reale condizione.
Presso il Musée du Louvre si trova l’Alienata con monomania del gioco, un’anziana con la bocca semichiusa, il labbro pendulo, gli occhi leggermente guerci e la testa che segue la linea della gobba, una donna «devota esclusivamente alla propria mania»[2], come si può notare dalla povertà degli abiti e dalla cuffia malmessa sulla testa che lascia fuoriuscire ciocche di capelli grigi.
L’Alienata con monomania dell’invidia, detta La iena della Salpêtrière e conservata a Lione presso il Musée des Beaux-Arts, è ritratta nel modo in cui nella tesi di laurea del dottor Georget sono descritti i sintomi di questa mania: «La circolazione sanguigna diventa più attiva; la pressione arteriosa sale; le arterie della testa battono forte; gli occhi brillano e sono iniettati di sangue»[3]. L’espressione dell’anziana è dura, con due profonde rughe che circondano la bocca tesa in un sorriso affilato, con gli occhi umidi e bordati di rosso messi in risalto dalla bianca cuffia che le circonda il viso.
Al Museum voor Schone Kunsten di Gand è conservato il più impressionante dei cinque ritratti rimasti, l’Alienato con monomania del furto (Cleptomane, Pazzo assassino), nel quale si vede un giovane con i capelli neri e spettinati, la barba incolta e gli occhi stralunati messi in risalto dall’unico tocco luminoso presente nell’opera, il colletto bianco della camicia stretto attorno al collo. Questi era quasi sicuramente un paziente di Georget affetto da un «delirio esclusivo, fisso e permanente come le idee degli uomini appassionati»[4].
Questi ritratti rappresentano una grande novità nel panorama artistico contemporaneo all’artista: trattano tematiche nuove e uniche con la volontà di approfondire in modo analitico la diversità psicologica umana, sfruttando un’opportunità nata dall’incontro tra il pittore e il medico e dalla conoscenza dei primi studi di sociologia con i quali Géricault era venuto a contatto all’epoca del collegio.
Grazie a questi ritratti le raffigurazioni dei malati mentali assumono la stessa dignità che possono avere le rappresentazioni dei nobili o degli alti prelati, meritano di essere contemplati senza un’ombra di compassione o giudizio verso di loro poiché, come scrive Giorgio Manganelli, «è ovvio che non si valuta un matto: non si dice “costui è un matto ‘bravo’”, non ci sono matti migliori di altri; un matto è un capolavoro inutile, e non c’è altro da dire».
Note
[1] “La vita e l’arte”, in Géricault, Rizzoli, Milano 2005, p. 63.
[2] Ivi, p. 150.
[3] Ivi, p. 152.
[4] Ivi, p. 154.