Una semplice osservazione, di carattere empirico: gli spazi che dedichiamo alla politica e al suo commento sono sempre più vasti. Mai come oggi ce ne interessiamo senza sosta, pronti ogni volta a condividere le nostre posizioni a riguardo: che sia mentre si sorseggia un caffè al bar o durante un pranzo domenicale in famiglia, discutere delle ultime dichiarazioni di un politico o dei contenuti di un decreto-legge in via di definizione è divenuta un’abitudine più o meno irrinunciabile. È ovvio che la democrazia per sua stessa essenza invita i cittadini a una partecipazione attiva alla vita politica, e che questa forma di operosa presenza è non solo un diritto ma anche un dovere al quale siamo chiamati ad adempiere non una volta ma ieri, oggi e domani; verrebbe quindi da parlare di una sana e salutare attenzione al sociale, da prolungare e approfondire. La questione è però un’altra e riguarda l’odierna tendenza dello spazio dedicato al politico a colonizzare le altre aree dell’attività umana. La questione politica invade il nostro privato e si rappresenta in un tutt’uno con esso: mostra un’inclinazione a saturare e a espandersi presso altri atteggiamenti della quotidianità in realtà già significativi e formativi.
Eppure questo accrescimento quantitativo del dibattito politico non coincide nei fatti con un aumento qualitativo. La discussione mainstream si articola secondo linee di lettura dell’attualità superficiali e disattente; instancabilmente nella nostra argomentazione riaffiorano gli stessi termini (sovranismo, apertura, accoglienza, europeismo, fascismo o neofascismo e così via) che ogni volta suonano sempre più come stereotipi svuotati di senso poiché privati di una rigorosa critica preliminare. Si pensi al concetto di populismo: evocato a seconda della parte in causa come ideale di difesa del “popolo” dallo sfruttamento di un oppressore più o meno celato o all’opposto come cavallo di Troia gettato in pasto da governanti illiberali e razzisti a elettori ignoranti e ingenui, esso è sempre impiegato in maniera generalizzata e banalizzata per connotare realtà politiche non solo geograficamente lontanissime (dall’America Latina all’Europa centro-orientale e oltre) ma anche dai caratteri ideologici multipli, variegati e spesso non condivisi. Questo ottenebramento del lume dell’intelletto non risparmia quindi alcuno dei contendenti (al di là ovviamente di singole voci interessanti e originali) e non può che generare intolleranze e incomprensioni da una parte e dall’altra.
Dopo aver dipinto un quadro tanto fosco, abbozzare le linee di un cambio di rotta pare d’obbligo. Un’idea, qui in forma appena embrionica, è la seguente: quella di riconoscere, non sommessamente né in punta di piedi, che oltre a quello politico esistono spazi “altri”, dove si può parlare d’altro, scrivere d’altro, fare altro – gli spazi, per l’appunto, del privato. Certo appare paradossale la tesi che per godere di una discussione politica migliore occorra ridimensionare il tempo dedicato alla stessa. E sorge inoltre spontanea un’obiezione, tutt’altro che nuova: la concezione cioè secondo la quale tutto è politica perché ogni nostro gesto e atto, di qualunque genere, ha una ripercussione diretta o indiretta sul sociale e sul pubblico, poiché non è in fondo altro se non un nostro modo di stare in un mondo che è condiviso con altri individui dalla costituzione fisica e psichica simile alla nostra e con i quali bisogna necessariamente negoziare una convivenza pacifica e prospera, nei limiti del possibile.
Per quanto in linea di principio condivisibile, questo punto di vista ha il decisivo difetto di appiattire la specificità delle singole esperienze umane e di indirizzare l’esistenza stessa dell’individuo verso una sola direttrice, la consapevolezza e la realizzazione della collettività. Occorre invece riconoscere l’identità del privato e al tempo stesso distinguere all’interno la presenza dei suoi stessi anticorpi, delle influenze reciproche con il politico senza soluzione di continuità: la conversazione con un amico può fare accenno all’ultima boutade di un qualche focoso segretario di partito per poi accartocciarsi in un’ironia del tutto personale, comprensibile solo ai due interlocutori. Insomma, non solo politico e privato non coincidono: ma i due ambiti possono dialogare ogni volta che se ne senta l’esigenza proprio perché sono due sfere distinte e comunicanti.
Una seconda obiezione: si tratta dunque di formalizzare e di istituzionalizzare un comportamento dettato dall’individualismo e contrassegnato dalla totale messa tra parentesi del legame con l’alterità ampia della comunità e dello Stato? La risposta è negativa: non si propone qui un ritorno a un’attenzione predominante verso il sé (usanza forse già fin troppo in voga), bensì il ripensamento del dialogo: non più tanto con gli “altri” bensì con l’Altro, verso una relazione particolare, concreta, immediata. Si tratta cioè di porre al centro del dibattito (pubblico e privato) un agente diverso dalla collettività, ben più modesto e piccolo eppure infinitamente più reale: l’individuo in carne ed ossa. Di fronte a un sociale che vede unicamente gruppi (dai “migranti” agli “xenofobi” e ai “sovranisti”) va ribadito che in ognuno di essi risiedono singoli individui, ognuno con le proprie particolarità e tipicità fisiche, psichiche, morali e intellettuali, aspirazioni e preoccupazioni; abbiamo cioè a che fare con uomini e donne prima che membri di un partito e sostenitori di movimenti e ideologie.
In questo senso vale la pena citare Simone Weil, il cui pensiero nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale è ancora molto rilevante: «Se l’uomo non è fatto per essere lo zimbello di una natura cieca, non è fatto neppure per essere lo zimbello di collettività cieche a cui egli dà vita con i suoi simili […] È vero che in tutti gli ambiti le forze collettive superano infinitamente le forze individuali. […] Almeno così pare; ma in realtà un’eccezione c’è, ed è l’unica: l’ambito del pensiero. Per quanto concerne il pensiero, il rapporto è invertito; in questo caso l’individuo è più della collettività nella stessa misura in cui qualcosa è più di nulla perché il pensiero si forma soltanto in uno spirito che si trova a essere solo dinanzi a sé stesso, le collettività non pensano affatto.” […] Questa società, da cui egli dipende strettamente in ogni istante della sua esistenza, dipende inversamente un poco da lui quando ha bisogno che egli pensi».[1]
Il grande merito della Weil sta nell’aver rimesso al giusto posto testa e piedi della dialettica qui declinata secondo i termini del politico e del privato. Il pensiero, formulato in questo esatto momento dall’autore di questo articolo e manifestato di nuovo ma in forma e contenuti diversi dal lettore per accogliere, rifiutare o modificare ciò che legge è l’evidenza più chiara e inequivocabile della sussistenza sempre e comunque di un individuo – e poi di un altro, e di un altro ancora; sino a formare una catena di esseri umani quasi infinita, ma mai confusa in una collettività; piuttosto, il pensiero è la condizione di possibilità della costituzione di questa. Verrebbe quindi da dire che è il privato a fare da fondamenta al politico e che anzi «tutto è privato»: nel senso che è la particolarità e la tipicità dell’individuo a insinuarsi dappertutto e a scolpire i lineamenti in movimento della realtà sociale che ci circonda. Riconoscerne l’aspetto inestirpabile nella vicenda umana generale (perché ogni individuo può provare a modificare il proprio carattere, ma mai rinunciare ad averne uno) indica allora una strategia efficace di chiarimento delle sfere di azione di ognuno dei due poli, non più innaturalmente sovrapposti ma lasciati liberi di confrontarsi o ignorarsi a seconda delle necessità. Conoscendo limiti e origini del proprio discorso, il dibattito pubblico circa i grandi temi della politica potrebbe giovarsi di chiarezza, rigore e profondità intellettuale ritrovati.
Note
[1] Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 2000, pp. 93-94.