La via dell’Illuminazione sospesa tra ragione e sentimento

Il tredicesimo capitolo del Tao-Teh-Ching recita così:

La ragione per cui ho grandi sciagure è che ho un corpo. Se non avessi un corpo, come potrei avere sciagure? (Tao 35).

L’interpretazione della sineddoche del «corpo» utilizzata da Lao-Tzu permette di estendere il richiamo della fisicità alle passioni che in essa si divincolano. Ammettendo la sostituzione terminologica, la massima d’apertura potrà così leggersi: si hanno grandi sciagure poiché si possiedono grandi passioni.

Scultura in pietra di Lao-Tzu a nord di Quanzhou, ai piedi del monte Qingyuan.

Scultura in pietra di Lao-Tzu a nord di Quanzhou, ai piedi del monte Qingyuan.

Per secoli scuole filosofiche, etiche e letterarie orientali hanno sollecitato lo studio delle conseguenze che l’accondiscendenza passionale può avere sulle sorti dell’uomo. Come generate da un progenitore comune, ognuna di queste tradizioni, dopo tortuosi andirivieni, è sempre giunta alla drastica conclusione che bisogna perseverare nella miseria emozionale se si vuole tenere accesso il lume della ragione e che il ravvedimento morale avviene quasi sempre a un passo dal baratro.

Si legga ad esempio il seguente estratto di Musashi (1935), romanzo della contemporaneistica giapponese, nel quale Eiji Yoshikawa indica l’esatto paradigma comportamentale che deve seguire chi ha constatato la vacuità delle passioni:

Takezo smise di piangere. […] chiuse gli occhi e dimenticò ogni cosa. Dimenticò vita e morte e, sotto la miriade di stelle, giacque perfettamente immobile, mentre la brezza notturna sospirava tra i rami (Musashi 95).

Il futuro Musashi, da giorni legato ad un ramo di un’alta criptomeria, rifiuta piangendo il suo destino quando avverte un torpore sensoriale. La sua calma percettiva è il segnale che ha pacificamente accettato la possibilità della morte, accogliendo in sé la «norma»[1].

Ciò che ha permesso tale repentino cambio di prospettiva è la consapevolezza del possesso di una ragione funzionante e la capacità di lasciarsi governare da essa. Nel Dhamma-Pada, testo sacro buddhista, una facoltà raziocinante di questo tipo è catalogata come un assoggettamento del flusso dei pensieri alla volontà cosciente: è questa la via da percorrere per impedire l’ottenebramento della luce.

Importante è la constatazione della modalità con cui viene dispensata la lezione del dar seguito alla ragione. È evidente come anche le costruzioni narrative dei precetti suggeriti siano strutturate su norme di logica assoluta.

Ne I quattro pilastri della saggezza si giunge alla purificazione e al superamento della miseria vana comprendendo la necessità del controllo del corpo, delle sensazioni, dell’animo e dei fenomeni.[2] Non v’è percorso alternativo che possa condurre a queste conclusioni deduttive se non quello del sillogismo introdotto dalla forma ipotetica, di cui i testi buddhisti sono ricchi:

[…] se il monaco avesse visto un corpo giacente al cimitero, […] passato in putrefazione, egli trae su se stesso la conclusione: «Anche il mio corpo è fatto così, diventerà ciò, non può sfuggire a ciò» (I quattro pilastri 20-21).

O nel già citato Dhamma-Pada:

Se, abbandonando un piccolo piacere, si può esperimentare una felicità completa, tralasci il Forte il piccolo piacere contemplando la felicità completa (Dhamma-Pada 14).

Il medesimo Buddha sperimenta la via del sillogismo nelle famose considerazioni che lo assalgono quando si espone per la prima volta alla crudezza della vita fuori dal palazzo paterno e che fanno insorgere in lui il turbamento del risveglio. Incontrando esempi di vecchiaia, malattia e morte il Buddha sentenzia amaramente:

Questa dunque è la fine certa per [tutti] gli esseri viventi, e il mondo, messa da parte la paura, non se ne cura; dure mi sembrano le menti degli uomini dal momento che se ne vanno soddisfatti per la via (Aśvaghoṣa 46-47).

Anche diversi capitoli del Tao-Teh-Ching (25, 38, 59) espongono la dottrina sotto le sembianze di una tantrica consecutio logica. Uno dei più caratteristici è il sedicesimo che sintetizza bene il nucleo teorico di tutta l’opera:

Restituire il mandato si chiama «norma». Conoscere la norma si chiama «illuminazione». […] Chi conosce la norma è tollerante; essendo tollerante è imparziale; essendo imparziale è comprensivo; essendo comprensivo, è grande; essendo grande, è simile alla via; essendo simile alla via, dura a lungo; per tutta la vita non è in pericolo (Tao 38).

Pertanto, rispettando la logica che soggiace agli esempi proposti, può concludersi che lasciarsi inondare dalla ragione è lasciarsi abbagliare dall’Illuminazione, poiché dissolta sarà l’ignoranza.

Nella storiografia del pensiero buddhista la parola «ignoranza», oltre alla mancanza di sapere, rimanda all’accezione alternativa di «illusione», intesa come processo di prefigurazione della staticità dell’Io che esclude dal samsara (il ciclo delle nascite e delle morti) e dalla coscienza del dolore. Con essa termina l’incedere della legge di causalità che governa l’intrecciarsi tra l’ontologia e la psicologia, tra l’essere e la percezione dell’essere, la conoscenza della quale legge comporta l’emancipazione dall’idea di un Io illusorio e permette l’affiorare dell’Illuminazione:

[…] il gran saggio intese che i fattori si sopprimono con la totale assenza di ignoranza: così ebbe la piena conoscenza di ciò che v’era da conoscere e si elevò di fronte al mondo come il Buddha (Aśvaghoṣa 180).

La vita degna prescinde dal piacere turbinoso, cagione di condanne dolorose:

Hanno lasciato prosperare il piacere, allora con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono giù, su cattivi sentieri, in perdizione e danno, e provano dolorose, brucianti, pungenti sensazioni (I quattro pilastri 43).

Con serafica saggezza Buddha compara il piacere accondisceso ad un germoglio caduto ai piedi di un albero di sala. Accettarlo significa consentirne la crescita, convinti di poterla controllare e un giorno sfruttarla a proprio vantaggio. Ma, senza rendersene conto, il germoglio diventa flessuosa liana che si avvinghia introno al robusto tronco e, sviluppandosi in altezza, fa ricadere un velame di tralci che soffocano i possenti rami dell’albero. È ciò che accade quando si lascia libero corso al piacere.

Il paragone naturalistico con il quale il Buddha rende meno astratta la sua dottrina non risponde a principi di un’arbitrarietà accidentale. Nell’Oriente classico lo sfondo della vita ascetica era la foresta, dove ci si recava in ritiro spirituale: Takezo penetra l’intima coscienza del suo essere penzolando da una criptomeria; Siddartha si rialza come Buddha ai piedi di un baniano. Pertanto, nel capitolo Mala-Vagga (Le impurità) del Dramma-Pada si legge che doveroso è liberarsi dalla foresta dei desideri, giocando sull’anfibologia del pali vana che indica simultaneamente «foresta» e «desiderio»:

Le correnti fluiscono ovunque lussureggiante si espande la liana. Se vedete che la liana è nata, tagliatene la radice con la conoscenza superiore (Dhamma-Pada 109).

Se si disattende all’amorevole suggerimento sfuggita per sempre sarà la luce di vita e il condannato sarà proiettato nel fondo del dramma, come Kandata, il dannato de Il filo del ragno di Akutagawa che non riesce a raggiungere il laghetto dei fiori di loto del Buddha dal quale era disceso il filo della sua salvezza perché in un impeto di feroce bestialità ha riabbracciato la passione dell’amor proprio che sembrava ormai svanita.

Note

[1] Cfr. Lao-Tzu, Tao-Teh-Ching, a cura e tr. it. di Girolamo Mancuso, Newton Compton, Roma 2013, p. 80.

[2] I «cinque ostacoli»: desiderio, avversione, accidia, superbia, dubbio.

Bibliografia

Aśvaghoṣa, Le gesta del Buddha, a cura di Alessandro Passi, Fabbri Editori, Milano, 2001.

Buddha, Dhamma-Pada, a cura di Pio Filippani-Ronconi, Newton Compton, Roma 2013.

—, I quattro pilastri della saggezza, a cura di K.E. Neumann & G. De Lorenzo, Newton Compton, Roma 2013.

Eiji Yoshikawa, Musashi, tr. it. di Francesco Paolini, BUR, Milano 2013.

Lao-Tzu, Tao-Teh-Ching, a cura e tr. it. di Girolamo Mancuso, Newton Compton, Roma 2013.

di Matteo Maselli

Autore

  • Campano classe ’91. Ha conseguito la laurea magistrale a pieni voti in Italianistica, Culture Letterarie Europee, Scienze Linguistiche presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Ha frequentato Summer e Winter School post-laurea ed è attualmente iscritto ad un Master di I livello. Parte della sua tesi magistrale è stata pubblicata dal Borges Center della Pittsburgh University. Ha scritto per diverse riviste online di cultura generale e per l’Università degli studi di Trieste. Il suo ultimo contributo saggistico è in corso di pubblicazione per la Yale University.

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