Il film di Raoul Peck nel bicentenario del filosofo di Treviri
I borghesi parlano spesso della libertà, ma è la loro libertà quella che amano.
(Karl Marx)
Io voglio essere libera. Sono libera. Voglio combattere e per combattere devo restare povera.
(Mary Burns)
C’è stato un tempo, tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso, nel quale rigirarsi in bocca (quasi alla stregua di caramelle mou) parole d’ordine marxiste era un rito. Meno d’un decennio dopo le cose erano radicalmente cambiate. L’Europa, nel 1989, gettava i testi di Marx nel surgelatore (probabilmente lo stesso dove ancora tiene la salma di Lenin) per poi chiudere il coperchio e dimenticarsene. Marx doveva essere liquidato. Da profeta del cambiamento radicale s’era infatti trasformato, subitaneamente, nel filosofo del più grande abbaglio politico dai tempi di Platone a Siracusa (almeno in Occidente). La sua figura s’appannava, dal punto di vista filosofico e teorico, velocemente come il parabrezza d’un auto in una giornata uggiosa («superato, superato!»). Strani contrappassi della Storia. Il giorno prima sei l’acclamato Barabba del Proletariato, il giorno dopo te ne stai giù nel sepolcro, senza speranze di risorgere come Gesù.
Non è quindi poi così paradossale, anche se è significativo, che per vedere un film sul filosofo di Treviri si sia dovuto aspettare la ricorrenza dei duecento anni dalla sua nascita (il 5 maggio del 1818). È vero, il boccone era di quelli difficili da gestire. Fa comunque impressione scoprire non solo che Il giovane Marx di Raoul Peck è l’unico film recente sul giovane hegeliano-antihegeliano, ma che, addirittura, in pratica è l’unico film su Marx dai tempi pioneristico-propagandistici della celluloide sovietica (cioè dagli anni Venti del Novecento). Del resto Marx non ha mai avuto fortuna col cinema e neanche i cineasti hanno mai avuto troppa fortuna con Marx. A fare un film su Marx ci aveva provato ad esempio Ėjzenštejn, stoppato dal Grande Catechista Leninista Josif Džugašvili (aka Stalin) e ci stava provando, nel 1977, il nostro Roberto Rossellini, stoppato dalla Gran Commare Secca (aka La Morte). Poi non ci ha provato più nessuno.
È chiaro, alla luce di ciò che s’è detto sopra, che solo un autore poco superstizioso o con forti convinzioni etiche avrebbe potuto arrischiarsi nell’impresa di realizzare un biopic su Marx (ed Engels). Rilevante pertanto che a incaricarsene sia stato un outsider della cultura europea qual è Raoul Peck, regista caraibico residente in Francia. Non dovremmo smettete di chiederci, con meravigliosa gratitudine, al di là del giudizio contrastante che si può dare del film, dove egli abbia mai trovato la forza (e le salde convinzioni etiche) per realizzare Il giovane Marx.
Eppure, forse, il segreto di Peck non sta affatto nel suo coraggio, ma nel suo percorso artistico. Peck, nel suo precedente I Am Not Your Negro, aveva già riflettuto sulla questione razziale negli USA in modo intenso e preciso, realizzando un bellissimo documentario su James Baldwin. Qui affrontava di petto la questione razziale illustrando la domanda semplice, ma fondamentale, che Baldwin s’era posto: poiché nessuno nasce «negro», ma solamente uomo, da dove viene allora il bisogno di «negrizzare» una parte del popolo americano? Da dove nasce questa necessità di alcuni di creare il soggetto sociale «negro»?
Il giovane Marx offre a Peck la possibilità di rispondere lateralmente alla domanda: il motivo d’esistenza del razzismo non è diverso da quello del classismo. La necessità è sempre la stessa: promuovere la disparità di alcuni individui o gruppi sociali, in modo da poterne trattare alcuni non più alla stregua di esseri umani, ma come dei diversi. Rendere diversi gli uomini è il primo passo per privare alcuni della loro libertà, in modo che altri possano giustificare il loro avvantaggiarsi rispetto a tale privazione. Al posto di uomini, umanoidi assimilabili ad animali o, perfino, a oggetti. Aggiogarli non è più una colpa. È la natura che lo chiede. Del resto la gerarchia è lo stato ordinario delle cose.
Il film di Peck ha il merito di ricordarci quanto tutto ciò fosse ben chiaro a Marx già nell’Ottocento. Tutta la sua filosofia, tutto il suo pensiero morale, ma anche economico, non mirava che a questo: restituire agli uomini, alla gran massa degli uomini, la libertà (quella con la “l” minuscola). Non la Libertà astratta, quella formale o di diritto proclamata dagli hegeliani, bensì la libertà di fatto. La libertà concreta, la libertà di poter scegliere o di poter rifiutare le condizioni date quando ci privano di ogni scelta. Fino a immaginare di creare le condizioni di possibilità per un altro mondo, un mondo senza gerarchia, con un’unica classe: quella degli Uomini. Questo aspetto è, forse, quello meno compreso della filosofia di Marx. Ancora oggi qualcuno, anche a livello accademico, ama ripetere che la Destra si distingue dalla Sinistra perché la prima tiene in conto la Libertà, mentre la seconda, invece, privilegia l’Uguaglianza. Sostenere ciò significa non aver capito nulla di Marx. L’uguaglianza è, per Marx, il prerequisito per qualsiasi libertà, ma non certo l’obbiettivo. L’uguaglianza è il solo mezzo per raggiungere il vero scopo: la libertà di tutti.
Un altro merito del film è quello di restituire il clima politico tra la Rivoluzione Francese e le insurrezioni del 1848. L’evoluzione del comunismo, dal socialismo utopistico di Babeuf-Buonarroti (o di Owen), rappresentati qui da un loro erede, Weitling, infiammatore di folle grazie ai suoi sermoni pregni di spiritualità protocristiana, fino al bivio in cui la Lega dei Giusti preferisce Marx all’anarchico Proudhon. Soprattutto però sa restituirci l’atmosfera d’un movimento politico e la passione di una gioventù ribelle; il ‘48 come il ‘68 (amore libero compreso) ma un secolo prima.
Il regista ha seguito un corso di quattro anni sul Capitale e si permette persino di giocare a contraddire Marx, inserendo all’interno del film sapide «profezie». Sentiamo Proudhon avvertire Marx che rischia di far la fine di Lutero, il quale, per riformare una Chiesa crudele, aveva finito con l’edificare una religione più intollerante del cattolicesimo (riferimento alle dittature comuniste). Oppure sentiamo Weitling profetizzare al giovane Marx che la sua perenne Kritik divorerà tutto, finché non resterà che l’autofagia (riferimento allo scissionismo della Sinistra). Più importante lo scontro con un capitalista londinese che, in poche parole, chiarisce che il salario degli operai non è deciso dal capitalista stesso ma dal Mercato (riferimento all’errato concetto marxiano di plus-valore, superato dalle analisi di Sraffa). Tuttavia ciò non basta a far emergere le motivazioni di Marx e le contraddizioni profonde del personaggio. Ne risulta una rappresentazione di Marx un po’ caricaturale, nella quale egli finisce per assomigliare un po’ a Paperino, sempre iracondo e senza soldi (il che è storicamente vero): ma non capiamo il perché della sua rabbia (i sentimenti antiebraici?). Persino una delle sue massime più importanti, «i filosofi hanno soltanto interpretato in modi diversi il mondo; ma ora la questione è di cambiarlo», gli viene messa in bocca da ubriaco. Engels è meglio caratterizzato: ama gli operai, ma è nato nella classe che li sfrutta.
È un Marx senza molto spessore quello di Peck, quasi uno spettro. Il punto è che dopo secoli di scolastica marxista, di polemiche a fiume spese nell’esegesi del Capitale, alla scientifica ricerca d’errori o giuste previsioni, forse ciò che era importante del filosofo s’era perso per strada. Le teorie di Marx non sono l’essenziale del suo pensiero, specie se non servono che alle chiacchere; esse sono state solo gli strumenti pratici da lui sviluppati per la liberazione della classe operaia e dell’umanità. Nemmeno la sua immagine e il suo carattere sono primari. L’essenziale è l’effetto del Manifesto. Questo conta. Il film di Peck forse mirava a questo, a liberare lo spettro di Marx dalle pastoie del marxismo stesso, per permettergli d’aggirarsi di nuovo nel mondo.