L’ultima incursione di Brecht nella dinamica del potere
Bertolt Brecht, tornato a Berlino Est dopo lungo esilio, morì improvvisamente nell’agosto del 1956. Rimase così incompiuto il romanzo al quale stava lavorando, secondo della sua carriera dopo l’adattamento in veste narrativa dell’Opera da tre soldi. In bilico fra diaristica, affresco storico realista e pamphlet politico, Gli affari del signor Giulio Cesare[1] è giocato tra dualismi e identità. Brecht recide la fede nella coincidenza tra l’uomo Cesare, la «povera cosa» trafitta dai pugnali dei congiurati di cui parla Borges, e la «grande ombra che sarà il mondo intero» di shakespeariana memoria. L’effetto è straniante, sovversivo sin dal titolo, costruito intorno a due termini volutamente fuori contesto: “signor”, appellativo onorifico strettamente moderno, e “affari”. Entrambi confliggono radicalmente con l’immagine del dittatore romano, del generale vittorioso e fondatore dell’Impero che abbiamo imparato a conoscere sui libri di scuola, generando un cortocircuito. A prima vista sorge il dubbio che questo Giulio Cesare sia soltanto un omonimo. Magari un modesto commerciante di frumento in Lubecca, invischiato tra cambiali a scadenza e figlie in età da matrimonio. Un borghese qualunque sulle cui spalle un nome impossibile grava come un macigno. Un nome che eternamente gli ricorda la sua insignificanza al cospetto della storia e inevitabilmente lo conduce alla disfatta. Di solito, a levarci dall’imbarazzo provvede la grafica di copertina, facilmente un mezzobusto con corona d’alloro. Questo Giulio Cesare è proprio quel Giulio Cesare, eppure…
Un giovane avvocato romano, con schiavo al seguito, percorre il sentiero che si inerpica tra gli ulivi. La mattina è serena. La luce rosea di settembre si adagia sulle acque del lago. I marmi della villa brillano sul colle, a mezza costa. Il nome dell’avvocato è ignoto e tale resterà. Palesi sono, al contrario, le sue velleità di storico. Armato di scrupolo scientifico, lettere di raccomandazione e buona dose di idealismo, il nostro si sta recando all’appuntamento con Mumlio Spicro, banchiere. L’anziano uomo d’affari è in possesso di un inestimabile tesoro storiografico. Nella sua biblioteca sono conservati i diari di Raro, schiavo e segretario di Giulio Cesare. Una fonte primaria di straordinario valore, proprio quel che serve per produrre un’insuperabile biografia del Divo Giulio.
Vent’anni sono trascorsi dalle Idi di marzo e la Repubblica è solo un ricordo. Il sangue è stato lavato dalla Curia di Pompeo. Nessun congiurato vive più. Il Principato di Ottaviano Augusto è solido e l’Oriente assoggettato. Solo vent’anni, eppure la leggenda già annebbia tutto. Il Senato non ha perso tempo. Seicento giorni dopo la morte, Cesare è stato ufficialmente deificato.
Mumlio Spicro si rivela ospite affabile ma diffidente. Sulle prime nega di possedere il documento. Il banchiere appartiene a quel tipo di persone che a una trattativa breve non si divertono. Il nostro si sforza di stare al gioco ma i tentativi di blandire l’ospite non sortiscono effetto. Spicro comanda la danza, conduce per mano il suo interlocutore sul terreno prescelto. Quanto è disposto a pagare? La gloria val bene qualche sacrificio, valuta il nostro, e offre ottomila sesterzi. Dodicimila è la pronta risposta, soltanto per la consultazione. Il nostro accetta senza ribattere, indispettito, dimostrando di non essere avvezzo alle trattative. Eppure, qualcosa non torna. Spicro non è avido, tant’è vero che fa dono all’avvocato di un manoscritto di Ortensio il cui valore è incomparabilmente superiore al prezzo pattuito. Perché dunque quella richiesta? Brecht usa un artificio narrativo a scopo sottilmente allusivo: ci mette in guardia. Quel denaro è puro simbolo. Il giovane avvocato idealista non ha nome perché i sui occhi sono i nostri occhi, il suo nome è il nostro nome. Siamo disposti a sporcarci le mani, a scrutare sotto il mantello della leggenda e frantumare l’idillio? Dodicimila sesterzi vale la nostra innocenza. Paghiamo, c’è da guadagnarci.
Spicro ha conosciuto Cesare in qualità di ufficiale giudiziario. Grazie a lui ha fatto carriera, fino a diventare banchiere. Ha puntato sul cavallo giusto. Ha vinto. Fino all’ultimo è stato braccio destro di Cesare con delega alle questioni finanziarie. Il manoscritto di Raro viene via con introduzione di Spicro, senza sovrapprezzo. Attraverso i rotoli di pergamena del segretario e le parole del banchiere, scopriremo un Giulio Cesare sconcertante quanto realistico, verosimile perché liberato dalla grandezza, dalla propaganda stratificata sul suo nome.
All’inizio dei diari di Raro, nel 91 a.C., Cesare ha quarant’anni e venticinque milioni di sesterzi di debiti. Una cifra mostruosa. Spicro è sempre il primo a bussare alla sua porta, nella Suburra, alla ricerca di qualche mobile da pignorare. Gaio Giulio, già questore, senatore e Pontefice Massimo, è rampollo di una famiglia di antica nobiltà che naviga in cattive acque. Secondo Raro ha delle potenzialità. «È elastico nelle sue massime, spregiudicato in tutti i problemi politici». Tende però a essere fastidiosamente micragnoso: «Se gli si mostrano i conti si arrabbia, poi si mette a fare economia sul vitto del personale». Un simpatico sciupafemmine senza troppo talento, che fa continuo ricorso al «suo Ercole, quei terribili esametri che ha composto quindici anni fa e che legge sempre alle donne, perché non trova argomenti». Appena le cose vanno male, si illanguidisce su romanzetti greci e vagheggia di scrivere una grammatica (che tanto ricorda un certo Dizionario Semiologico Abissale). Non esattamente una figura eroica. Di certo è in buona compagnia: Cicerone «sputa sentenze che durano cinque minuti ma mai nemmeno una dracma». Catone è «un ubriacone che già di mattina si scola le sue cinque bottiglie di vino rosso». Memorabile la scena del pestaggio: «Dove sono i fondi elettorali, imbroglione, venditore di fumo!», urla la plebe infuriata che irrompe nella villa. Gaio Giulio ha distratto i fondi stanziati per l’elezione di Catilina. Li ha impiegati per pagare i suoi debiti e per speculazioni in terreni che si riveleranno disastrosamente fallimentari. Cerca di nascondersi dietro un’anfora, ma «lo hanno già tirato fuori, la vestaglia va in brandelli. Gli sputano addosso. […] poi si mettono a bastonarlo a regola d’arte».
Il segreto trionfo nell’apprendere che i grandi uomini sono in realtà un coacervo di turpitudini, come dice Mordecai Richler, è l’aspetto più divertente ma non il più interessante dell’opera di Brecht. Gli affari del signor Giulio Cesare è primariamente un romanzo politico, raffinato e di ampio respiro, basato su un’accuratissima ricostruzione storica. A Roma la lotta per il potere infuria senza sosta, sono gli anni turbolenti della congiura di Catilina. Come nel caso di “signor” e “affari” nel titolo, la semantica è indizio rivelatore. Cesare è esponente della fazione Democratica, organizzata in club. Il partito del Senato è l’antagonista conservatore, espressione dell’aristocrazia latifondista. Tra le due fazioni sta la city, chiaro riferimento al distretto finanziario londinese, un’area grigia fatta di banche, speculatori e interessi commerciali che non è esattamente un partito, piuttosto un polo di influenza, che finanzia abbondantemente gli uni e gli altri a seconda della convenienza. Le province romane formano insieme all’Urbe un Commonwealth. Il Senato è, per analogia, la borsa delle cariche. Le guerre puniche sono state intraprese per abbattere la concorrenza dei trust esportatori africani. Per vincere le campagne militari è necessario investire capitali, quegli stessi capitali che, quando tira aria di rivolta, si danno alla fuga. Brecht costruisce una discronia puramente lessicale, sottilissima, a segnalare che il passato di cui parla è figura del presente. La straordinaria attualità dell’opera deriva dalla capacità di arrivare alla struttura stessa del potere, oltrepassando l’analisi materialista tipica dell’ideologia marxista, alla quale Brecht aderiva. Il potere come eterna lotta all’arma bianca tra fazioni, sostanzialmente fuori controllo, in cui anche nello stesso campo gli interessi si diversificano, le spinte centrifughe abbondano e le variabili impazzite creano scompiglio. Un susseguirsi di intrighi, congiure, collusioni e corruzioni senza soluzione di continuità che sfocia nella potente rappresentazione drammatica del massacro dell’esercito di Catilina. La guerra civile, settemila cadaveri di cittadini romani ammucchiati sul campo di battaglia innevato. Il Giulio Cesare brechtiano è un tesoro: chi è in grado di leggerlo «con occhi aperti, scoprirà forse qualche accenno a come vengono istituite le dittature e fondati gli imperi», e gestite le democrazie, potremmo aggiungere. Un’illuminante incursione nella dinamica del potere.