In un teatro in qualche posto indefinito dell’Italia, si è appena conclusa fra soddisfatti applaus una replica di Cous Cous Klan,[1] spettacolo satirico e irriverente della satirica e irriverente Carrozzeria Orfeo.[2]
La sala è vuota, le luci sono per metà spente e le maschere sorridono agli ultimi spettatori sperando nella fine dello struscio. Sul palco, sola, una forte luce bianca si fa strada tra la scenografia usata. In platea, mi alzo lentamente anche io che, da pseudo-cinofilo quale sono, tardo immaginando i titoli di coda; prendo dalla giacca il programma:
drammaturgia | Gabriele Di Luca |
Nina Angela | Ciaburri |
Aldo | Alessandro Federico |
Mezzaluna | Pier Luigi Pasino |
Olga | Beatr… Sc… |
… |
Alzo lo sguardo e senza opporre resistenza mi lascio distrarre da un uomo in scena: ciondola fino in proscenio ed entra in ombra.
Guarda le poltrone vuote, sarà un tecnico: ritorno al mio foglio.
Raddrizza la schiena, prende fiato: blocco la colonna sonora nella mia testa, mi risiedo.
«Scusate, approfitto di questo bel palco e rubo ancora qualche minuto.»
Sa di essere solo (io non faccio testo, mio malgrado sono sempre stato bravo a passare inosservato in luoghi tanto teatrali), eppure parla forte e chiaro con le mani sui reni come si fosse appena alzato da una tavola apparecchiata, con in volto quel lieve imbarazzo di chi prende parola inaspettatamente.
«Mi presento: sono Aldo e ho 45 anni. Fino qualche tempo fa vivevo nella recinzione:[3] una moglie, un figlio, un lavoro, una vita normale insomma. Quel tipo di normalità che in certi momenti ti incatena, ma ora che sono… Poco importa. In realtà, sono qui per farvi una domanda.»
Occhi bassi, deglutisce per rimandare in gola un tono un po’ troppo provocatorio per quel suo fare maturo (a volte da sempliciotto) che si stava facendo largo fra i timori iniziali. Voce bassa, come gli occhi.
«Cazzo avete da ridere? Sono serio: cosa-c’è-da-ridere. Perché forse non avete capito bene la morale della favola, ma la tiritera di ‘sto gruppo di disadattati ci ha sbattuti letteralmente col culo per terra. E voi ridete… Che poi: l’unico che si è preso la briga di aprirvi gli occhi e sbattervi in faccia la realtà, l‘unico che ha davvero cambiato qualcosa, che si è sacrificato per farvi smettere di ridere (o almeno ci ha provato) e si liberato da sta sfiga cosmica…»
Si batte il petto alludendo a sé.
Poi, sfinito:
«Tutti cerchiamo qualcosa, più o meno consapevolmente. O meglio: cerchiamo di liberarci da qualcos’altro per arrivare a quel qualcosa.
Nonostante il fastidio allo stomaco ti costringi a fare delle cose perché vanno fatte, perché è così che si fa: ti alzi, ti rendi presentabile, vai a lavorare, torni, ti rimetti a dormire e poi ricominci a lavorare, e avanti così. Alla nausea si fa l’abitudine: segui i tuoi passi lungo il solco della routine, prigioniero del “riportare qualcosa di scaduto al supermercato e litigare per farsi rimborsare, le code infinite alla posta per pagare le bollette…”».[4]
Ripete freddamente le battute che poco prima, ricordo bene, lo hanno riempito di malinconia.
«Tuttavia, pur consapevole di essere per i più solo un nome sul citofono, questa gabbia fa un gran comodo: sicuro di quello che avverrà fra cinque minuti, sicuro che domani è un altro giorno, e per fortuna sarà un domani molto simile all’oggi. Continui in loop convinto che treno-casa-cena-giardino-cane sia vita vera, reduce degli insegnamenti di tua madre: “Studia e trova un buon lavoro”; e dell’horror vacui che hai sapientemente assimilato dalla società: “Trenta per cento di sconto contro il reflusso gastrico, ci sei per una birra? Prima di leggere attentamente il foglio illustrativo stappa la freschezza e coi Bitcoin fai il botto, invece per la consulenza fai trecento di tutto e siamo a posto così; dai una sera ci troviamo per una pizza e ci aggiorniamo: lasciami il tuo contatto ti scrivo io, o preferisci l’amicizia su Fb? Cmq ci troviamo al solito angolo, c’era il treno in ritardo e non ho fatto yoga, per questo ho cominciato a prendere lezioni di inglese: le uscite di sicurezza sono qui e qui, signore e signori benvenuti in Australia! (Batte le mani ed esulta come all’atterraggio del più tipico volo italiano)”.
Appena ti concedi un attimo di respiro da tutte le stronzate che (complice) ti sei fatto ficcare in testa, prendi la prima decisione sensata della tua vita: una bella fica che vuole te, e ti ci butti a pesce: sììì! E NO! Dio riesce sempre a farti vedere il buco del culo e a scoreggiarti in testa (scimmiotta il fare nichilista di Caio), e in un attimo ti ritrovi in fondo allo scarico con quelle merde che fino al giorno prima conoscevi solo per sentito dire dai giornali e dalla tv! Ma no, non voglio offendere nessuno. Dopo qualche minaccia iniziale, ora della fine abbiamo messo insieme un bel cacofonico Klan di sfigati; e tutte le nostre sfighe, spalmate su un campione un po’ più ampio di popolazione, sono la riproduzione fedele di tutti gli stronzi che vedete in giro per strada – un suggerimento: vi ricordo che siamo a teatro, una meravigliosa metafora del mondo là fuori. Allora direte: “Quindi le storie che ci avete raccontato stasera accadono davvero?”; e noi: “Sì, piccoli cari. E voi, come Aldo, sareste i primi a lasciar morire di sete questo gruppetto con cui – diciamocelo – il Creatore si è un po’ accanito: oggi vivi, domani morti, non cambia nulla”.
Non prendetela male, ve l’ho detto, sono proprio come voi. Una volta dentro la recinzione non hai voglia di guardare fuori, perché si è troppo presi dalle cose da fare, talmente fitte da ovattare la percezione delle cose che accadono. E in questo generale stato di caos sapete qual è la cosa più bella? Esultare al venerdì sera: “Weekend!”. Finalmente il Tempo libero. Attenzione, non tempo perso, Tempo libero. Lo si riconosce quando ci si dedica a cose inutili senza sentire quell’opprimente sensazione di corsa sul posto: dedicarsi al nulla, al bello, a guardare il cielo e le montagne; quel tempo che ti fa inseguire un sedere e dimenticare la famiglia, la casa, il citofono, la lista della spesa e tutto il bla bla bla. Poi però, sfiga vuole che arrivi in questo “campo nomadi periferico e degradato”[5] e, ripensando alla mia vita dentro, mi son chiesto: “Tempo libero da che cosa?”. Legarsi da soli avendo in tasca la soluzione per aprire le manette equivale ad una vera liberazione o è solo una presa per il culo? È una grande palla che ci si racconta tutta settimana per evitare di cercare le chiavi delle vere catene; e allora dov’è la via d’uscita da questo posto… (Gesticolando, come se il posto a cui si riferisse fosse l’aria stessa).
Immaginate un’ultima volta di vedere quella ragazzina: sorride serenamente al mondo e si lascia andare via.[6]
Fai un passo fuori dalla recinzione per scivolare fino a fuori dalla vita. Rotoli giù, giù. Un solo piccolo gesto e comprometti tutto, una scelta che non hai mai realmente fatto e di cui magari ti sei pentito nel mentre, quando ci guardavi attraverso.
Forse quando ci si svincola veramente da tutto, oltre ad un’ultima decisiva azione, non rimane nulla. Forse, per resistere in questo gioco, bisogna attenersi ad alcune regole e chiedersi se la libertà tanto desiderata sia davvero una cosa buona. Forse in valore assoluto sì: la libertà è una cosa buona. Il problema è che siamo tanto stronzi da non saperne gestire gli effetti.»
Apre i palmi come per mostrarsi, come a dire: «Infatti, guardate che fine ho fatto io», ma la voce non si spinge oltre ad un balbettio; ascolta l’effetto della propria impotenza, si riscuote e se ne va.
Ora niente titoli di coda.
Attraverso il silenzio e mi chiudo la porta alle spalle.
Note
[1] Cous Cous Klan, spettacolo teatrale firmato Carrozzeria Orfeo (prima nazionale: Teatro Elfo Puccini, Milano, dicembre 2017), drammaturgia di Gabriele Di Luca. Sinossi: In tutto il mondo l’acqua è stata privatizzata. Ormai da dieci anni, fiumi, laghi e sorgenti sono sorvegliati dalle guardie armate del governo, che non permettono a nessuno di avvicinarsi alle fonti idriche. Il divario tra ricchi e poveri è allarmante e mentre i primi vivono all’interno delle così dette recinzioni, ovvero città recintate da filo spinato e sorvegliate da telecamere di sicurezza, i secondi tentano di sopravvivere al di fuori di esse lottando ogni giorno contro la mancanza di cibo e di acqua. In un parcheggio abbandonato e degradato dietro ad un cimitero periferico, sorge una micro comunità di senzatetto, all’interno della quale sono parcheggiate due roulotte fatiscenti. Nella prima ci vivono tre fratelli orfani: Caio, ex prete nichilista e depresso, Achille, sordomuto e irrequieto, e Olga, la sorella maggiore, obesa e con un occhio solo. Nell’altra roulotte ci vive Mezzaluna, precario compagno di lei, un musulmano, immigrato in Italia ormai da dieci anni, che per sopravvivere seppellisce rifiuti tossici per un’associazione criminale di giorno e lavora come ambulante di notte. Presto alla comunità, già logorata da continui conflitti razziali ed interpersonali per la sopravvivenza, si aggiungerà Aldo, un medio borghese, elegante e maturo, che dopo un grave problema famigliare si è ritrovato a dormire per strada. Ma a sconvolgere il già precario equilibrio di questa comunità sarà Nina, una ragazza ribelle e indomabile, un’anima sospesa ed imprevedibile, che si rivelerà al tempo stesso, il più grande dei loro problemi e la chiave per il loro riscatto sociale. Cfr. il sito web.
[2] Compagnia teatrale nata nel 2007 su iniziativa di Massimiliano Setti, Gabriele Di Luca e Luisa Supino; cfr. il sito web.
[3] Cfr. la sinossi alla nota 1.
[4] Cit. da una battuta di Aldo.
[5] Cit. dalle note di regia di Gabriele Di Luca.
[6] Il suicidio di una ragazzina che si butta sotto un treno è, per così dire, il leitmotiv di Aldo.