Il Teseo Einstein alle prese con il Minotauro onda-particella
Ai fisici capitano incontri del tutto particolari. Un mio compagno di università, un giorno, mi raccontò di aver avuto una conversazione del tutto improbabile con un elettrone. In un veloce scambio di convenevoli, l’elettrone con uno sguardo sommesso e un sottilissimo filo di voce rivelò: «Vorrei essere libero, libero come un uomo»[1].
Un elettrone che vuol essere libero? Libero da che cosa? In fisica, un elettrone (o più in generale una particella[2]) si dice “libero” quando non interagisce con altri sistemi e quindi non risulta soggetto a forze. E quindi cosa è libera di fare una “particella libera”? Ci fornisce una risposta Isaac Newton prendendo in prestito una osservazione importante degli studi di Galileo Galilei ed elevandola a primo principio della dinamica:
Un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso.
Le “particelle libere”, pertanto, sono libere di muoversi nella direzione che hanno “scelto” e con la velocità che meglio le aggrada: è la libertà di seguire la propria inerzia. Vale la pena evidenziare che l’assenza di forze non implica che una particella sia necessariamente in quiete (vale a dire, ferma) ma, piuttosto, che essa si muova per così dire indisturbata. Perché questo avvenga, non è necessaria tanto l’assenza di forze, quanto il fatto che la loro resultante sia nulla. Alla luce di queste considerazioni, il secondo principio della dinamica discende dell’elettronedirettamente dal primo: a ogni forza corrisponde un’accelerazione, ossia una variazione di velocità.
Per converso, in quali casi un elettrone non è libero? Una particella “non-libera” è vincolata da forze che ne definiscono la dinamica (cioè la traiettoria, il moto, la velocità…): su grandi scale, possiamo pensare ai pianeti come a particelle vincolate dalla forza di interazione gravitazionale dovuta alla presenza del Sole; su scale più piccole, l’interazione coulombiana lega l’elettrone (di carica negativa) e il protone (di carica positiva) dell’atomo dell’idrogeno.
In un laboratorio, è difficile che capiti di liberare Giove dalla gravità del Sole, ma per la liberazione dell’elettrone si è riusciti a far qualcosa; lo sa bene Albert Einstein, che, con la sua “liberazione” dell’elettrone del 1905, si guadagnò il Premio Nobel nel 1921[3], quando anche Robert Millikan (con lui in Figura 1) completò e confermò i suoi risultati.
Albert Einstein aveva infatti dato seguito ad alcuni studi portati avanti nell’Ottocento con lo sguardo nuovo offerto dai primi studi di fisica quantistica di Max Planck. In un atomo, gli elettroni – come detto – sono particelle vincolate dal potenziale di attrazione elettrostatica del nucleo, che ne impedisce la “fuga”. Si può osservare, tuttavia, che colpendo una lastra metallica con un fascio di luce sufficientemente energetico (ad esempio a raggi X), gli elettroni assorbono l’energia del raggio luminoso e, se questa supera il potenziale di richiamo del nucleo, vengono emessi. In un certo senso, l’effetto è simile a quello di una macchina legata a un albero: se potessimo scegliere l’energia da trasmettere istantaneamente al motore nel momento in cui si preme sull’acceleratore, ne esisterà una di soglia che consentirà all’automobile di partire, tagliando la corda… letteralmente.
Il problema così descritto può sembrare semplice, eppure il fenomeno non risultava completamente descrivibile a partire dalle teorie classiche. Il merito di Einstein fu proprio quello di proporre una spiegazione dell’effetto fotoelettrico che poggiava sulla quantizzazione della luce. Planck aveva infatti suggerito una nuova interpretazione della radiazione elettromagnetica: un raggio luminoso di frequenza consiste in un certo numero di fotoni, ognuno di energia (dove è la costante di Planck). Con questa nuova visione, si rimetteva in discussione la natura della luce come onda, cioè un risultato (rappresentato dalle equazioni di Maxwell) che era stato tra i più importanti della fisica classica. Ora che questa interpretazione non era più sufficiente, la luce si stava rivelando un “minotauro”: onda e corpuscolo al tempo stesso.
La meccanica quantistica non ha come unico merito quello di aver discusso l’interazione radiazione-materia in una prospettiva del tutto nuova e in grado di descrivere un ampio spettro fenomenologico; ha contestualmente aperto le porte allo studio della fisica atomica. In questo frangente, tra le altre cose, si è osservato che non sempre la liberazione ha un lieto fine: per adeguate frequenze, è possibile che l’elettrone non venga espulso e si muova su livelli energetici superiori rispetto allo stato fondamentale. In questa situazione, l’elettrone si dice “eccitato”. Anche per le particelle, l’eccitazione ha una durata finita: giunto in un orbitale di livello energetico superiore, l’elettrone eccitato punta a ritornare (guarda caso, il nostro esagramma di sviluppo) allo stato energetico fondamentale. A ogni “gradino” energetico che compie in questa discesa, l’elettrone emette fotoni (e quindi, luce) componendo quello che si chiama spettro di emissione. Lo studio della luce emessa a queste frequenze ben precise, che dipendono dall’elemento chimico dell’atomo di riferimento, aiuta ad esempio i fisici stellari a conoscere la composizione delle stelle e a stabilirne così lo stato di evoluzione.
L’effetto fotoelettrico non solo ebbe impatto sulla fisica moderna, ma nel nostro mondo quotidiano abbiamo a che fare con oggetti che ne sono diretta applicazione. Per fare un esempio, le fotocellule di cancelli e porte automatiche funzionano proprio grazie a questo effetto: la compresenza di due elettrodi (uno negativo, cioè con una sovrabbondanza di elettroni, e uno positivo) fa sì che quando una sorgente luminosa colpisce l’elettrodo negativo, questo emette elettroni per effetto fotoelettrico; gli elettroni a loro volta ordinatamente si muovono verso l’elettrodo positivo dando luogo a una corrente elettrica in grado di mettere in moto il dispositivo elettrico che apre la porta. Liberazione reca salute, direbbe l’I Ching.
Note
[1] La citazione è in realtà, ovviamente, da La libertà di Giorgio Gaber.
[2] Ricordo che per “particella” in fisica si intende un oggetto dalle caratteristiche fisico-chimiche definite. In alcuni modelli, anche corpi di grandi dimensioni possono essere assimilati a “particelle”: è il caso dei pianeti attorno al Sole.
[3] L’assegnazione è motivata come segue: «For his services to Theoretical Physics, and especially for his discovery of the law of the photoelectric effect».