Vie per liberarsi dalla filosofia con la filosofia
In molte epoche e in molti sensi la filosofia è stata concepita come liberazione: dall’ignoranza, dal dolore, dal dolore causato dall’ignoranza, dal giogo dell’autorità religiosa o politica, eccetera. È accaduto anche tuttavia che si sentisse l’esigenza di liberarsi, mediante la filosofia, della filosofia stessa.
Quest’obiettivo si dava Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus. Lungo tutta la storia della filosofia, egli osservava con una vena di disapprovazione, si sono dette perlopiù cose non false, ma insensate. La speculazione incentrata su oggetti come, tipicamente, il bene o la bellezza è uno pseudo-discorso, che abbiamo potuto scambiare così a lungo per un discorso effettivo solo perché il linguaggio è una parte del nostro organismo non meno complicata delle altre e altrettanto poco trasparente quanto al suo funzionamento; esso, con la sua farraginosità, nasconde il pensiero anziché mostrarlo; cosicché l’aspetto superficiale delle pseudo-proposizioni filosofiche ci ha sempre tenuti prigionieri dell’illusione per cui sarebbero capaci di veicolare significati con condizioni di verità simili a quelle, per esempio, della scienza, quando invece esse propriamente non comunicano nulla.
In questo consiste ora il compito critico di cui si investe l’autore del Tractatus: tracciare un discrimine tra quello che può essere detto, e quindi può anche essere detto in modo chiaro, e ciò che, nonostante certe apparenze, non può essere detto affatto, e di cui quindi si deve tacere. Lo strumento a cui si affida la realizzazione di questo compito è un linguaggio nuovo, una “ideografia” o “scrittura dei concetti” che traduce fedelmente il pensiero anziché tradirlo sistematicamente. Tale ideografia si compone di proposizioni che sono immagini dei fatti, che cioè raffigurano, tramite una configurazione determinata di segni, una configurazione determinata di cose. L’elenco di tutte le proposizioni sintatticamente ben formate costituisce l’elenco dei fatti possibili, di tutto ciò che può verificarsi, e l’elenco di tutte le proposizioni vere tra quelle ben formate costituisce l’elenco di tutti i fatti reali, di tutto ciò che si verifica: un’immagine completa del mondo.
Correlativamente, tutto ciò che non è un fatto non può essere raffigurato da alcuna proposizione nell’ideografia. Come potremo dire, dunque, che il libro è o non è sul tavolo, così non potremo dire né che il libro è né che non è bello: poiché quest’ultimo giudizio non è l’immagine di un fatto, e dunque non è nemmeno propriamente un giudizio. Nell’ideografia, il solo tentativo di formulare una simile proposizione ne renderà evidente l’impossibilità. Non si può raffigurare niente che non sia un fatto con un linguaggio strutturato appositamente per poter raffigurare solo fatti.
«Sono così dell’opinione», scrive Wittgenstein, «di aver risolto nell’essenziale i problemi una volta per tutte». Nelle intenzioni del suo autore, il Tractatus dovrebbe essere l’ultimo libro di filosofia, perché i problemi fattuali sono di competenza della scienza, e quelli non fattuali vanno passati sotto silenzio. Non, però, perché non siano importanti: essi, i problemi che hanno a che fare con l’etica e l’estetica, il soggetto, il mondo e Dio, sono gli unici problemi davvero importanti per noi. E proprio per questo andrebbero protetti contro la volgare chiacchiera metafisica che per secoli e secoli, instancabilmente, non ha fatto che svilirli.
Così Wittgenstein riassume il senso del percorso di auto-superamento che il Tractatus mette in opera: «Le mie proposizioni chiarificano qualcosa perché colui che mi comprende le riconosce, alla fine, insensate, quando egli attraverso esse – su esse – è salito oltre esse (egli deve per così dire gettar via la scala dopo esser salito grazie a essa). Egli deve oltrepassare queste proposizioni, e allora vede il mondo correttamente».
Il Tractatus non fu, tuttavia, l’ultimo libro di filosofia, e nemmeno l’ultimo libro che Wittgenstein scrisse. Dopo un lungo periodo di allontanamento dalla filosofia, egli gradualmente vi ritornò nella seconda parte della sua vita.
Il mutamento nella concezione wittgensteiniana del ruolo della filosofia risponde a un mutamento nella sua concezione del linguaggio. All’altezza delle Ricerche filosofiche e degli altri testi tardi, il criterio della correttezza dell’impiego delle proposizioni e delle parole di cui si compongono non viene più identificato in un ideale, come quello della sintassi logica, che sta sopra e oltre l’uso concreto: ma nell’uso concreto stesso. Che una parola o un’espressione sia o meno usata legittimamente si vede non nel confronto con quell’ideale, ma nel confronto con gli altri usi che strutturano la pratica linguistica.
Non più rappresentazione speculare del mondo, il linguaggio viene a essere pensato come un insieme di gesti regolari immersi in un contesto di interazione tra parlanti e cose e tra parlanti e parlanti. Non più rimando schematico a un oggetto, il significato di una parola viene a essere pensato come il suo impiego nel commercio verbale effettivo. L’uso concreto, quotidiano, ordinario delle parole non è insomma una deformazione del linguaggio, ma la sua forma. Tuttavia è vero che quest’uso è labirintico e che nelle sue ambiguità, confusioni e incertezze si rischia di perdersi: le domande filosofiche sorgono appunto dove la mancanza di perspicuità della nostra grammatica (delle regole del gioco linguistico) genera questioni apparentemente importanti che a loro volta però nascono da puri equivoci e quindi non ammettono risposte dogmatiche, ma solo critiche, cioè risposte che non assumono la forma del «sì» o del «no», bensì quella di delucidazioni volte a renderci chiaro a che punto dell’argomentazione il nostro uso di una parola ha smesso di «fare attrito» con la realtà delle transazioni linguistiche ordinarie. Poiché di questo attrito, e solo di esso, quell’uso ha bisogno per essere sensato.
Così il compito del filosofo è, come dopo tutto era già nel Tractatus, quello di «insegnare a passare da un non-senso occulto a un non-senso palese». Ma tale obiettivo non viene più perseguito applicando il singolo crivello dell’adeguatezza o meno di una proposizione alla forma universale della raffigurazione del fatto. «Vogliamo mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio: un ordine per uno scopo determinato; uno dei molti ordini possibili, non l’ordine. A tale scopo metteremo continuamente in rilevo quelle distinzioni che le nostre comuni forme linguistiche ci fanno facilmente trascurare. […] Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie».
C’è ancora qualcosa di anti-filosofico nella concezione della filosofia di Wittgenstein, nel senso che il suo esercizio terapeutico (critico) è volto ad arginare il suo esercizio patologico (dogmatico). Ma se il linguaggio è un sistema di usi così orizzontale e decentrato come Wittgenstein ora ce lo presenta, se le verifiche da fare per assicurarsi della sensatezza o insensatezza di una proposizione devono scendere nei dettagli di prassi ludiche molteplici e mutevoli, se dobbiamo abbandonare l’illusione di poterci impadronire dell’ordine logico unico e semplice, allora è chiaro che non si può pensare, da filosofi, di risolvere i problemi «una volta per tutte».
Il rischio di incappare in oscurità, di non riuscire a raccapezzarsi tra i vicoli di cui si compone la città del linguaggio, è un rischio ineliminabile. Il linguaggio ha una tendenza per così dire naturale a incantare l’intelletto, non fosse che per la sua intricatezza. Dunque l’attività filosofica come argine dei fraintendimenti non può mai avere definitivamente ragione dell’attività filosofica come risultato dei fraintendimenti. L’attività filosofica, come risultato dei fraintendimenti e come argine dei fraintendimenti, accompagna necessariamente l’attività linguistica. E così per trovare riposo, per liberarsi dalla filosofia, alla filosofia si è sempre destinati a tornare.